Settembre 2021 – Peste Noire

 

Settembre è stato un mese di attese, di sorprese e grande varietà. Sulla carta dunque forse non troppo dissimile a qualunque altro mese da queste parti, eppure come può davvero esserlo uno in cui abbiamo modo di ascoltare un nuovo album marchiato Peste Noire? “Le Retour Des Pastoureaux” annuncia il ritorno trionfale in Francia di una band che continua a non avere pari d’inventiva e camaleontica personalità al mondo, autoprodotto come d’abitudine per la malevola La Mesnie Herlequin dello stesso Famine e seguito nell’articolo in stramberia vincente dal rientro sugli scaffali ad un solo anno dall’ultimo full-length di un gruppo invece polacco che su queste pagine abbiamo scoperto soltanto l’anno scorso, col suo secondo disco, a sua volta poi tallonato dall’Italia di una one-man band giunta ad un punto cruciale nel suo percorso artistico e da un progetto greco che di greco non ha nulla.
Frenate curiosità ed entusiasmi per il momento – o meglio, riservateli intanto per i capolista indiscussi della kerkmesse di questo mese conclusosi, che non casualmente hanno ricevuto una standing ovation totale da parte dello staff. Perché tempi oscuri e medievali diventano non solo la tangibile realtà ma il presente delle periferie d’Oltralpe che rispondono, con un prodotto squisitamente locale senza la patina della cartolina e comprensibile per chiunque lo voglia, in una enorme, nobile zuffa di rotture, errori, fratture e tradizioni; un trambusto di bastonate e sputi alla minaccia moderna con tutti i mezzi emotivi e pratici a loro disposizione. Anche e soprattutto i più poveri, i più sgarbati e i più scassati…

 

 

“Udite, udite: la battaglia inizia! Allo squillo dell’ultima tromba cala sul campo di battaglia Messer La Sale Famine Von Valfoutre, pronto a sbaragliare ogni concorrenza cantando della sua personalissima, amatissima Francia periferica in cui non siete affatto i benvenuti dopo il vespro: una mutaforme esperienza acustica ormai da canzoniere d’ispirazione popolare combat-Folk si mescola all’impatto hooligan con cicatrici atroci a difesa di un patrimonio culturale e comunale minacciato dall’affamante metafora statale di Chiesa, vicari, Stato, cardinali e ricche sanguisughe arroccate nei loro castelli costruiti sulla noblesse del furto. Una danza macabra di messaggi anarchici, rivoluzionari, nichilisti e d’identità frammentata si mescolano, filtrati nel coraggio avventuriero dell’esploratore in musica, in una molotov riempita d’escrementi Black Metal e Post-Punk che esplodono in detriti contro tutto, sparsi in ogni direzione come l’inchiostro secco si sparpaglia testardo s’una lettera scritta da Ludovic Faure a nessuno e sé stesso. L’interrogativo presso La Chaise-Dyable è solo uno: queste terre sono morte? La risposta però, come nelle più intelligenti delle opere, non emerge univoca. Potrebbero anche esserlo, date per spacciate o non esistere già più, ma quel che resta certo e da non dimenticare è che l’ultima, forse più triste ma sicuramente straziante battaglia per quelle strambe eppure grandi famiglie che qualcuno chiama ancora i propri villaggi sta giusto per essere combattuta. Haut les schlasses, alors!”

Proseguendo quella che è una parabola artistica in continuo dialogo, in rimando e riferimento, in cui la tradizione e il ritorno al passato sono sempre più materia di esame che tendenza stilistica, i Peste Noire intraprendono un nuovo gioco: uno sguaiato in termini ma dotato di un sottilissimo equilibrio a cavallo tra musica popolare e scenari estremi. Con quello che definire un mélange consolidato e inconfondibile non renderebbe minimo onore ad un modo di esprimersi che ormai travalica la semplice enumerazione di generi o registri coinvolti, il ritrovato ratto di campagna conserva in “Le Retour Des Pastoreaux” quel sapore fra il romantico e l’aggressivo di sommossa trasponendolo in un contesto ancor più anarchico e libero, sporcato dell’aspra nostalgia di ambienti a lui autoctoni e dispiegandolo in poco più di mezz’ora ebbra dell’imprevedibilità, della coesione e dell’eclettismo a fiume che caratterizzano un personale e sbalorditivo flusso di coscienza.”

Il nuovo viaggio dei Peste Noire nella pestilenziale Francia medievale rivista ai giorni nostri si presenta come il prodotto più completo fornito finora dalla band francese. Complessivamente, “Le Retour Des Pastoureaux” è sicuramente meno spiazzante del precedente “Peste Noire Split Peste Noire” senza comunque rinunciare a numerose sperimentazioni per quanto riguarda la componente Black Metal; il contrasto di quest’ultima con il Folk rurale e malinconico a cui siamo abituati è come al solito eccezionale: strumenti a fiato e ottoni si uniscono a dissonanze elettriche e cambi di voce con estrema naturalezza riuscendo a creare un’atmosfera grezza, bucolica ma soprattutto alcolica. Un mondo fattosi suono in cui si ha infatti la sensazione di venire catapultati nella metà del 1300, nel gelo più totale accompagnati solo dal conforto del vino, di uno sgangherato strumento a corde e da qualche ratto infetto…”

“Lo avevamo lasciato con l’infausto presentimento che l’adesione alla galassia tutta muscoli e Ucraina lo facesse ristagnare in cliché da bulletto di periferia, e invece il buon Famine -dalla sua periferia- ha sganciato come nulla fosse (e nel clima di silenzio che è ultimo atto di un sistema mediatico agli sgoccioli) quello che può benissimo entrare a gamba tesa nel podio di casa Peste Noire. Costruito attorno ad una voce semplicemente monumentale ed un’urlante chitarra acustica, “Le Retour Des Pastoureaux” è l’apice della potenza drammatica presente sin dall’inizio nella poetica del Kommando ed ora impersonata con piglio cantautoriale dallo stesso mastermind, ormai umano-troppo-umano e diviso tra i rimpianti del passato (si citano muicalmente addirittura gli amati/odiati Alcest) e l’incombere di un futuro angosciante ed assolutamente indecifrabile. Detta con meno giri di parole verso qualcosa che non ne necessita affatto: chi vuole ascoltare il meglio del Black Metal a.D. 2021 deve ascoltare anche questo disco.”

“Se il precedente “Peste Noire Split Peste Noire” nel 2018 fu decisamente un esperimento azzardato, specialmente nell’addentrarsi nelle profondità del disco e per ammissione dello stesso Famine, con cui il compositore ha deliberatamente cercato uno scontro evolutivo alla faccia di qualunque affezionato, estimatore o detrattore, con questo nuovo album si torna parzialmente su binari sonori più immediatamente associati al gruppo, seppure con il solito guizzo folle e imprevedibile che ha sempre contraddistinto il progetto. Famine si destreggia perfettamente, a livello vocale, in scream sguaiati, clean vocals grezze e stonate, e parti recitate in toni inediti che rendono il tutto molto più introspettivo (in questo senso una specie di “La Chaise-Dyable” parte seconda). Svetta tuttavia su qualunque altra cosa l’enormità artistica delle parti Folk, di un’estrazione quasi contadina e dal sapore grandemente bucolico, in un’atmosfera generale che è qui protagonista assoluta. Per chi ha modo di capire: tipica malinconia della campagna in musica.”

Il terzo full-length dei polacchi Kły, il “Chen” uscito nuovamente per la sempre solida Pagan Records che costituisce la prima parte di un dittico concettuale che si concluderà con un altro album speculare previsto per i prossimi mesi, nonché seconda gemma nella parure odierna. Un buon salto in fatto di polimorfica capacità espressiva dal già notevolissimo “Wyrzyny” che ci ammaliò soltanto l’anno scorso, e di cui ci parlano tre grandi estimatori tra noi.

“Il trucco è sempre lo stesso, e continua a stupire ed ammaliare persino coloro che difficilmente si avventurerebbero su simili coordinate: l’osservanza da parte dei Kły di un approccio decisamente quadrato nello sviluppo dei brani si conferma ingrediente segreto atto a facilitare le cose tanto al fruitore, subito catturato dalle atmosfere sempre particolarissime, quanto ai polacchi, liberi di concentrarsi sulle pregiate sonorità e sui sibillini movimenti delle sei corde ben fisse ai vertici del mixing come della composizione. Rimangono poi un punto di forza fondamentale le voci buttate in musica in guisa corale, rozze nel tono e talvolta persino in contrasto con l’andamento delle strumentali, eppure istrioniche come raramente se ne sentono per impatto emotivo e per quell’alone criptico dato dalla lingua madre, ed elevato a raison d’être nell’ottimo prodotto finale.”

Se “Wyrzyny”, con i suoi loop circolari e un innato senso narrativo e teatrale, dimostrava già l’anno scorso la versatilità squisitamente polacca con cui i Kły si destreggiano, “Chen” ribadisce non soltanto la natura intrinsecamente fluida del progetto: la forma canzone in perpetuo movimento non stanzia nelle atmosfere aperte e dalle sfumature urbane del secondo capitolo su full-length e, pur mantenendo uno stile già distinguibile e personale, si assesta su atmosfere più basse e nere, un po’ meno storte che in precedenza, ma tormentata dal gelo delle tastiere che come spilli infilzano le tracce che avanza tra sprazzi onirici, vocals deliranti e giri chitarristici che si perdono nell’etere. Lo smarrimento a più voci dei Kły si traduce in un lavoro dal sentore e dalla costruzione più corale, con sonorità anche maggiormente complesse e strutturate, dove suoni ossessivamente dilatati si sovrappongono in contrasti di luci e ombre dall’obnubilante gusto psichedelico che li riconfermano con forza come una delle realtà più imperdibili sul suolo polacco.”

In un solo anno da “Wyrzyny” ha dell’incredibile il modo in cui i Kły dei due album godano di identità assolutamente differenti ma complemetari tra di loro: al posto di una follia avanguardistica ci troviamo di fronte ad un disco di assoluta finezza e delicatezza, specialmente considerando il modo in cui Black e tinture Death Metal convivono all’interno delle composizioni. La ricerca della melodia e il modo in cui questa viene messa in risalto va a definire una dimensione di drammaticità dove il cantato non può far altro se non caricarsi di sensazioni quali l’angoscia e il disgusto, ottime per trasmettere quel mood distopico e decadente che ritrovo così spesso e volentieri nei più piccoli dettagli della musica della band. Un disco insomma da snocciolare per bene e con calma lasciandone ossigenare ogni singolo elemento, che si rivelerà così semplicemente godurioso.”

Il quarto disco in studio del progetto Solitvdo, “Hegemonikon”, patrocinato questa volta da una non indifferente Aeternitas Tenebrarum Musicae Fundamentum, che spinge la proposta in territori aiutati dall’approccio sinfonico di Triarii di “Muse In Arms” ed Arditi di “Omne Ensis Impera” per corroborare la marcia del suo Black Metal di stampo mediterraneo – uno che, più che al sud di Inchiuvatu e Mediterranean Scene, guarda però piuttosto all’ormai rinomato asse liguro-piemontese innanzitutto.

“Il Black Metal solare d’invitta armata memoria dei Solitvdo si scrolla quel sound dalle soluzioni troppo derivative di un “Militiae”, erigendovi invece in sinergia una parete scintillante di orchestrazioni da troni trionfali ed aurei, accostando ad un approccio già consolidato una componente dall’aggressività detonante e coinvolgente e delle sezioni declamatorie e narrative perfettamente inserite nel contesto marziale degli ottoni. “Hegemonikon” costituisce un’indubbia prova di forza e maturità per la one-man band isolana, che con l’apporto di un timing graziato da una decina di minuti in più e qualche ulteriore piccola rifinitura sulla strada della personalità avrebbe già tutte le potenzialità per spiccare a suo modo in quel contesto tutto italiano e dalle coordinate sfuggenti, ma dal portamento fiero, che partendo dai gloriosi Spite Extreme Wing arriva ad oggi in molteplici e peculiari espressioni tra Nova, Funera Edo e Movimento D’Avanguardia Ermetico.”

A tre anni di distanza dal promettente “Militia”, il cui discorso è nel quarto full-length “Hegemonikon” esteso e maggiorato in forza, il progetto Solitvdo getta uno sguardo anche ai suoi primi lavori: perché siamo infatti probabilmente innanzi alla quadratura di un cerchio sonoro, al decisivo salto di qualità complessivo dove furia Black Metal ed epicità mediterranea si fondono alla perfezione; in un disco in cui le chitarre e le tastiere si alternano in modo avvincente; in un flusso di emozioni e stile epico-battagliero dove non manca nemmeno una necessaria dose di malinconia che investe totalmente l’ascoltatore, verosimilmente ed in modo speciale quelli di madrelingua italiana che potranno elaborare al meglio i testi ricercati di un certo spessore identitario, cantati con uno scream parecchio grezzo e roco ma che dona proprio per questo un sapore massiccio ai pezzi. Nonostante le ovvie influenze di gruppi già iconici nostrani (uno su tutti gli Spite Extreme Wing), il progetto mostra oggi comunque una validissima dose di personalità, accostandosi con vitalità ad un altro progetto nostrano di assoluto valore come i Nova e diventando così una ben lodevole realtà della scena estrema tricolore.”

Una nomina singola infine la meritano i Lunar Spells, autori della proposta più grezza di oggi ma dall’interesse indubbio come sottolineato puntualmente dal nostro Ordog nello sviscerare i tratti di maggiore rilievo in un album come “Where Silence Whispers”; il debutto dell’ensemble greco non suona greco affatto, ma è nondimeno meritevole di svariati ascolti (come del resto quasi tutti quelli che l’ottima Northern Silence da anni rilascia).

Nessuna innovazione, nessuna voglia di strafare, nessuna scusa verso chi storce il naso di fronte alla fedeltà alla linea; il passaporto ellenico dei Lunar Spells non ha alcun peso su di una proposta la quale, invece che nell’Egeo, preferisce navigare sui gelidi mille laghi della Finlandia a bordo delle tastiere squillanti e del riffing di lodevole impatto melodico che tanto devono alla scuola finnica di Satanic Warmaster e affini. Con una durata perfetta per un songwriting così monocorde ed una produzione maiuscola nella sua smerigliata nitidezza, l’esordio del giovanissimo trio non può che soddisfare ampiamente chiunque abbia l’ardire di definirsi seguace del genere: se poi con queste temperature in picchiata state già selezionando la playlist per le prossime scampagnate in montagna, assicuratevi allora che “Where Silence Whispers” sia incluso tra le primissime scelte.”

Terminata la carrellata di rito, non possiamo poi evitare di aggiungere che l’ottobre di cui siamo giusto a metà strada ha già sparato svariate succulente cartucce tra le presumibilmente migliori che può avere pronte per noi, non da ultimo in un EP come quello dei giustamente (e sempre troppo poco, comunque) beneamati Enslaved forti dell’espansione di un lavoro come “Utgard” in “Caravans To The Outer Worlds”; citato fin da ora dal momento che la riserva ai soli full-length di questa rubrica mensile non ci renderà possibile approfondirlo ulteriormente quando verrà, tra poco meno di un mese, il momento di addentrarci nel decimo punto d’incontro del 2021. Come già più volte detto altrove, tuttavia, è soprattutto ad un mese come novembre con cose come (in ordine di prossima apparizione) Tardigrada (di cui dovreste iniziare a ripassare lo splendido “Emotionale Ödnis”), Dauþuz (di cui avete invece ormai l’imbarazzo della scelta, comprensivo dell’ultimo “Monvmentvm”), Darkwoods My Betrothed (!), Der Weg Einer Freiheit, Stormkeep (sotto con “Galdrum”, se occorre!) e persino Negură Bunget (!!!) da una tomba che stava decisamente troppo stretta prima di aver pubblicato il terzo ed ultimo capitolo di addio (già registrato) di una trilogia lasciata pubblicamente incompiuta al momento del rilascio di “Zi”, tra i numerosi altri, che l’occhio è inevitabilmente gettato. E chissà che nel frattempo non sbuchino ulteriori sorprese…

 

Matteo “Theo” Damiani

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