Kły – “Wyrzyny” (2020)

Artist: Kły
Title: Wyrzyny
Label: Pagan Records
Year: 2020
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Polonia

Tracklist:
1. “Burza (My Rozgwiazdy)”
2. “Nadwołkowyjskiej Nocy Liczba Pojedyńcza”
3. “Krajobraz Jako Oko”
4. “Trójząb”
5. “Gwiezdny Wiatr”
6. “Zakorzenienie”

L’atmosfera cinematografica, un crogiolo di generi dalla sorprendente malleabilità, si sviluppa, avvolge e distende imprevedibile in movimenti sempre più ampi, con sonagli si lascia seguire e al suono di campane si trasfigura, improvvisa con l’estremo calcolo di chi, conscio della bontà delle proprie idee e visioni da riversare in musica, sente tuttavia di essere niente più di un vettore senza volto né ego per qualcosa di più alto ed irraggiungibile – e si comporta, agendo in accordo con precetti muti ed innominabili, di naturale conseguenza.

Il logo della band

Lingue usate quindi come mezzo molecolare che non ha vera e propria voce, significato e significante perdono di legatura e simbiosi sciogliendosi come in acido nell’abilità di riconoscere quanto ogni possibilità esecutiva sia strettamente legata, piuttosto, alle sue potenzialità espressive massime, minime ed intermedie, congetturate e sfruttate mediante ogni sfumatura che possa fare la differenza qualora impiegata nell’ambito della composizione: non è il significato reale e generalmente associato, quello trasparente, ufficialmente scritto e socialmente riconosciuto, ad interessare ai Kły – bensì il percepito, il singolare, l’opaco, l’emozione che si fa parola e che, tramite quest’ultima, torna come uroboro ad essere puro sentimento dopo essere stata sussurrata o urlata all’orecchio dell’ascoltatore, che dal suo canto di ricevente legge un suono impiegato come linguaggio universale e lo filtra poi in un viaggio sensoriale che ad ogni nuova intrapresa possa trasmettere ulteriori informazioni indecifrabili per mezzo di razionalità e cangianti, eppure sempre facilmente processabili con la meraviglia e la naturalezza di un bambino ancora in fasce, ascoltatore ignaro ed ignorante dei primi suoni che plasmeranno le sue capacità di mimesi e riproduzione.
E s’è vero che la verità sta sempre e soltanto negli occhi di chi osserva, allora i Kły, novella realtà dall’avanguardistica inclinazione in un Black Metal che deve tutto -quanto niente- al corrispettivo regionale polacco da cui proviene (legami di sensibilità in scrittura con i Furia si manifestano non nelle sole scelte di produzione, elegantemente affidate proprio a Nihil che svolge un lavoro di grande espressività e carattere dietro alla consolle, apparentemente impiegato non solo nel mix), sono forse il corrispettivo più evidente del paradigma applicato in musica, di un immutato stupore infantile e di una maturità d’osservazione quasi ossessiva, da mestieranti navigati che mai vengono inariditi dall’esperienza – una medaglia che, senza abilità, infrangerebbe difatti il patto creativo e depriverebbe di magia l’intero processo. Nessun pressapochismo è tuttavia concesso, il cesello usato di fino per superare con ogni mezzo e tutta una nuova liquidità raggiunta il debutto “Szczerzenie”, fondamentale si dimostra bensì una naturale, ruvida inclinazione all’assurdo ed al latentemente incomprensibile come mezzo per regalare doni d’inaspettatezza e fortuna bendata che la pura razionalità non potrebbe altrimenti concedere.

Più che espressionista, simbolista; e ancor più che intriso di indirette corrispondenze, semiotico in analisi – il Black Metal dei Kły in “Wyrzyny” è uno tinto di colori, rimandi alle più variegate esperienze sensoriali grazie ad un approccio che è liquido stilisticamente, ritmicamente e perfino strutturalmente (pur mantenendo un centro estremamente solido attorno a cui le progressioni si sviluppano indefesse nelle svariate direzioni che sempre si ricongiungono nello sfumare di una traccia nell’altra), perfettamente bilanciato tra i passaggi più eterei degli intermezzi senza scordarsi di restare drammatico o di essere un autentico pugno nello stomaco (come ben mostra il collasso in “Gwiezdny Wiatr”); una proposta composta (nel senso di assemblata – e non performata) da lingue impiegate gutturalmente come originari connettori musicali e svuotate di significato, pertanto continuamente sfruttate in cantati sporchi e narrati d’ogni tipo e misura, giustapposti e sovrapposti o in sequenza di processione tra loro, in modo da essere caricate di attuale sentimento e ancor più finissima empatia.
La band non si risparmia in frecce d’ispirazione scoccate, fioccanti fin dall’apertura nonostante il viaggio maniacalmente ordinato aumenti d’intensità in fieri, e i sei capitoli che compongono l’uscita del secondo lavoro in studio su full-length restituiscono quindi da subito un peculiare interesse per la stramberia di criterio e metodo, caparbie nella loro totale assenza di forma canzone che, proprio per l’attenzione riservata alla figura complessiva, non prescinde da reiterazioni ipnotiche e voluminose pur nell’assenza più totale di barocchismo. Si voglia a tal proposito usare come esempio l’estro polimorfo e progressivo di “Nadwołkowyjskiej Nocy Liczba Pojedyńcza” o la quasi aliena immediatezza che flirta con melodie vicine all’uplifting tra malinconico ed epico nell’afflato caratterialmente Post-Rock di “Trójząb”, si noterà come ogni struttura sia in realtà realizzata in maniera molto scarna, tra assemblamenti à la Burzum e le chitarre sghembe tipiche dei Peste Noire che si infrangono e avvitano su movimenti ritmici rotondi, convessi di natura squisitamente Post-Punk.
Ciò che permette all’insieme di trovare quadra e coesione, nonché di regalare nuovi sorprendenti e personalissimi dettagli ascolto dopo ascolto, è l’ausilio diluito lungo il disco di sintetizzatori acidi, talvolta ottantiani ma spesso psichedelici, in tappeti e membrane sottilmente stese, più che in dettagli sminuzzati (come invece da anti-tradizione del genere), splendidamente impiegati come collante inconscio sia quando imitano corni che richiami tra l’ambientale (le stelle di Klaus Schulze sono a portata di dito in sottofondo durante lo scorrere della seconda traccia) ed il sinfonico privato di opulenza. Il processo di astrazione dei secondi non va infatti a togliere il carattere dei primi che regala la giusta asperità e preserva una linea di sottile figura alla composizione povera in termini numerici, quasi sciamanica nella tendenza a battiti primordiali, terrosi ed atavici (si prenda anche solo il finale della conclusiva “Zakorzenienie” come esempio principe, che contrasta direttamente con lo sfumare limitrofe di una costruzione ipnotica dalle allucinate tinte industriali), mutuata da un’ambivalenza verso la materia Folk che deve tanto al Progressive Rock settantiano quanto all’innovazione Nekrofolk dei Furia (la paternità in ispirazione dell’attacco in seguito all’introduzione di “Burza…” è decisamente chiara) e affinità alle scelte di ritmi sgangherati o sincopati più vicine invece alla lettura musicale dei Plaga, ma raggiunta infine con mutuo trasporto in fase di personalissimo arrangiamento tra strumentisti orchestranti la costruzione verso le altezze di una babele dalle fondamenta sorprendentemente solide quanto facilmente rintracciabili (batteria non in primo piano per architettura sonora, ma punto di partenza per lo sviluppo insieme al paludoso suono del basso); la differenza nei tempi scelti per via di uno sguardo d’intesa tra musicisti o un silenzio parlante raggiunta grazie ad un atipico (quanto udibile) processo di ricerca, di prova e riprova in improvvisazione, e di scarto fino alla sequenza perfetta che conduca in uno stato di trance il gruppo a deprivare il Black Metal di corona e a farne soltanto tropo espressivo (seppur quello di prim’ordine, tra fulmini di snare-driven blast-beat, urla e tremoli claudicanti), o sogno lucido che fa dell’esperimento maieutico e fluttuante, leggero quanto stordente, la sua ragione unica d’esistenza.

Intenzioni e realizzazione, pertanto, aiutate dal suono aspro e viscerale ma notevolmente curato in bilanciamento tra frequenze ed elementi, arioso ed ampio, permettono alla scrittura alternativa, fortemente indipendente dei Kły di “Wyrzyny” di ritagliarsi un posto tutto loro e di squisita personalità in un panorama nazionale i cui frutti continuano a mostrarsi tanto diversi quanto lo sono le rispettive evoluzioni dei diversi interpreti che se ne cibano: un lavoro sicuramente enigmatico, atmosferico, finanche criptico ed irrazionale ma privo di complicatezza, dotato insomma dell’universalità di decifrazione in una miriade di linguaggi sfingei che, da potenziali barriere, e qualora sputati con un tale trabocco di anima senza filtro, si fanno invece la chiave di una comprensione tacita, di silenziosa intercomunicazione a specchio neuronale – una vera peculiarità che lo rende tanto interessante quanto facilmente approcciabile, a prescindere dall’inclinazione, da chiunque sia alla ricerca di musica di originalità, bizzarria, che sia stuzzicante, stimolante e che viva di idee e sketch che trovano profondità ed assoluto senso in uno sforzo di coesione artistica di encomiabile solidità.
Sentire può bastare dunque a comprendere? “Wyrzyny”, in un viaggio solitario e polifonico di cinquanta minuti scarsi tra malinconia e trascendenza, sembra dare risposta inconfondibilmente positiva al quesito, nonché preannunciare senza smentite i Kły, senza volto nobilmente alieni in un mondo al collasso, come una delle realtà più interessanti nell’attuale panorama e lemma polacco.

Matteo “Theo” Damiani

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