Peste Noire – “Peste Noire Split Peste Noire” (2018)

Artist: Peste Noire
Title: Peste Noire Split Peste Noire
Label: La Mesnie Herlequin
Year: 2018
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “Aux Armes”
2. “Interlude”
3. “Songe Viking”
4. “Raid Éclair”
5. “666 Millions D’Esclaves Et De Déchets”
6. “Noire Peste”
7. “Des Médecins Malades Et Des Saints Séquestrés”
8. “Turbofascisme”
9. “Aristocrasse”
10. “Domine”

– Where does the church believe this pestilence has come from?
– I don’t believe God is punishing us like many do. I’d say from France: where all foul things emerge.

Dalla Francia, come ogni cosa più turpe.
Difficile scegliere un unico spunto da cui poter partire a descrivere il settimo full-length dei Peste Noire, tra l’infinità che fin dal suo permeabile concept l’ormai nota e bizzarra, pittoresca, a (più di un) suo modo geniale mente ci serve su un piatto piacevolmente maleodorante.
Faremo pertanto di necessità virtù, dal momento che fin dal titolo il nuovo album dell’eclettica band pone l’attenzione sul vasto concetto di sviluppo, di progressione focalizzata in diciassette anni sottolineati in copertina perché probabilmente non casuali: non solo numero a cui le credenze popolari attribuiscono poteri negativi e di malasorte, quando non direttamente presagio di malaugurati avvenimenti nefasti, ma anche rappresentazione iniziatica dell’ordine dei cavalieri templari – tra le altre figure, prevalentemente bibliche, quella senz’altro più vicina all’universo pittorico medievale che i Peste Noire hanno per anni riportato così efficacemente e con la nitidezza immersiva propria di nessun altro; quella di trovatori a cavallo tra passato, presente e futuro, che oggi puntano su un dualismo che, in realtà, non è propriamente tale.

Il logo della band

Come anticipato, sono moltissimi gli spunti che i quasi cinquanta minuti di platter offrono e non iniziano, oltre a non estinguersi, con il mero aspetto concettuale e lirico che -da tradizione- si presenta ricco e sfaccettato come forse era mancato all’eterogeineità più rurale (di altresì altissimo valore compositivo) del precedente album.
Come in ogni disco marchiato dall’operato di Famine che si rispetti, pertanto, il motto squadra che vince non si cambia regge fino ad un certo punto; s’è difatti vero che la produzione, mai così rifinita, è ancora una volta opera dell’esperta mano finale di Jussila ai Finnvox e che molti e perfettamente voluti sono i richiami di suono (anche stilistici) al fortunatissimo “L’Ordure À L’État Pur”, e in più larga misura a tutti e diciassette gli anni riassunti in un solo album, tantissime sono altresì le pure e puntuali novità introdotte dalla musica di quello che è -con fine ironia- vendutoci come uno split tra i Peste Noire e i Peste Noire stessi.
Quel che risulta impossibile da decifrare, come presumibile smacco, scacco o direttamente beffa totale, è dove finiscano i primi ed incomincino i secondi.

La Sale Famine Von Valfunde

Parliamo infatti di una natura trasgressiva, provocatoria e soprattutto a tratti intelligentemente auto-citazionista che affonda le sue radici in un continuum di percorso personale dai modi grezzi, ricchi più del machismo Rap che non dell’immutabile austerità solitamente riconosciuta al Black Metal, pur restando nella più asettica pratica un disco Black Metal (dagli accenti al solito avanguardistici) in ogni senso proprio ed attribuibile al collaudato lemma – dallo stilistico al più concettuale.
La degenerazione (per usare le stesse parole del suo creatore) è piuttosto progressiva e quasi impossibile da focalizzare con piena esattezza, tutta costellata da ricercati riferimenti ad ogni uscita discografica della band; in questa occasione arricchita dalla freschezza di carne e sintetizzatori del finlandese Spellgoth (Horna, Trollheims Grott) e -per l’ultima- dall’incredibile batterismo di Ardraos che ha lasciato la formazione in seguito alle registrazioni, tuttavia non prima di aver fornito una prestazione magistralmente creativa in ognuno dei pezzi – dai più complessi e concitati ai più semplici e ritmati.
La lista di quelli che invece sono ospiti sull’album prosegue soprattutto ricca quando si fa voce a basi e riferimenti elettronici che tripudiano in progressivo invigorimento man mano che si prosegue nelle profondità dell’album. La creatività dell’operato Peste Noire è sempre stata indubbia e le conferme spuntano senza l’apparentemente minima difficoltà proprio proseguendo allo snocciolarsi di dieci pezzi, in una tracklist che non risparmia sorprese fin dai titoli; direttamente dal secondo demo del 2002 torna infatti ripescata e reinventata in potenza ed impatto un’allucinante “666 Millions D’Esclaves Et De Déchets” (da sempre un imperdonabile escluso dalla discografia maggiore), accompagnata in questo senso da due tranelli che non devono trarre in inganno: il più banale è una “Neire Peste” che si trasforma in “Noire Peste” e diventa in realtà un pezzo completamente novello il cui approccio indescrivibilmente malato, dagli accostamenti allergici a catalogazioni e analisi, nulla ha a che fare con l’omonimica simile, oltre a spezzare il ritmo di una prima metà di disco dalla potenza d’urto assassina grazie alle sue metriche inaspettatamente doomish (arricchite da archi e violoncello). “Aux Armes” dovrebbe essere a questo punto già nota, benché in realtà non fornisca da sola grandi indizi sulle genialità sperperate con elegante disinvoltura all’interno di tutto il resto dei brani – se non per l’impiego degli ottoni e in particolar modo delle trombe, che ritroveremo altere, e piuttosto alla velocità e botta frontale che prosegue negli inimitabili rimbalzi ritmici pindarici dei gioielli “Songe Viking” (con un interessante e quasi inedito uso d’ugola clean sui micidiali refrain) e “Raid Éclair” (in cui troviamo sul finale supporto vocale da Alexey dei M8l8th) a porgere in spolvero tutto il distintivo malessere di chitarre che vanno storte e obliquamente sghembe in tagli melodici d’ogni direzione.
Il secondo tranello è l’apparente riproposta di “Des Médecins Malades Et Des Saints Séquestrés”, di cui invece ritroviamo soltanto l’iconico riff iniziale a dettare il mood di un altro brano completamente nuovo in cui inizia a condensarsi senza freni inibitori l’anima più smaccatamente Rap del corrosivo cantautore, sempre rivestita di fastidio nero. Le atmosfere non mutano in drammaticità nemmeno negli esperimenti sorprendenti della testosteronica “Turbofascisme” che anticipa l’ormai solito finale dimesso e svestito che incomincia nelle movenze di “Aristocrasse” e termina nella sincera emotività da groppo in gola di “Domine”, le cui tastiere di rara espressività mettono definitivamente a nudo un re che aveva già iniziato a spogliarsi delle sue più affilate armi poco per volta e, ora, ci ripone su un vassoio d’argento un cuore grondante sangue verso cui -al di là di ogni capriccio stilistico a questo punto divenuto totalmente ininfluente- è impossibile restare indifferenti.

Quando sul terminare dei circa cinquanta minuti sfumano gli ultimi secondi di musica ci ritroviamo ancora una volta quasi beffati, ma con un sorriso stampato in volto: quello di chi senza nemmeno rendersene conto ha goduto di un viaggio tra generi musicali opposti, apparentemente inconciliabili e che vengono per di più mescolati con una sfacciataggine che può permettersi solo chi li possiede con sincerità nel suo bagaglio compositivo più intimo. Il sorriso di chi ancora non ha totalmente compreso la grandezza di scrittura e d’ingegno che può vendere un biglietto di sola andata (su carrozzone impreciso e sgangherato) a un ascoltatore che non riuscirebbe mai e poi ad immaginarsi, in circostanze diverse, di passare senza alzare un sopracciglio tra sprazzi di Francia rurale e più distinti vicoli urbani notturni e degradati, tra corti medievali e le più nitide nefandezze giusto alle loro porte, tra l’attualità feroce trattata con sarcasmo, acuta intelligenza e visioni artistiche dall’unicità inimitabile. Tra follia e talento come riassunto di diciassette anni in diversi volti con un solo nome, la sola bandiera di tutto il contrario di tutto e la conseguente imprevedibilità.
In sostanza, quel sorriso un po’ beone di chi sente che non riuscirà mai ad afferrare con pienezza l’ineffabilità del genio creativo tronfio di varietà rovente, e ciononostante non può far altro che goderne e rimanerne -lo ammetta o meno- ammirato.

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=sgQUbus2oGY

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