Stormkeep – “Galdrum” (2020)

Artist: Stormkeep
Title: Galdrum
Label: Ván Records
Year: 2020
Genre: Symphonic Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Glass Caverns Of Dragon Kings”
2. “Lightning Frost”
3. “Of Lore”
4. “Lost In Mystic Woods And Cursed Hollows”

La protesta e rivolta dell’immaginato, dell’irreale, della leggenda e del passato contro l’inconfutabile, il mondo circostante, la sterile evidenza fattuale, l’oggettivo ed il volgare richiamo senza qualsivoglia poesia del presente, per avere la possibilità di vedere finalmente i draghi vagare nelle pianure, la fenice spiccare il volo dal suo nido di fuoco, poter stendere le mani sul basilisco, sentirne il pietroso manto e vedere la gemma incastonata nella testa del rospo, assume i contorni del vero e proprio metodo per gli Stormkeep, stanchi ed esasperati dall’ordinarietà piccola e bassa della realistica narrativa contemporanea, che prendono invece in prestito le metaforiche ali della fantasia per creare il mondo dove menzogna e fregatura, o finzione, non rimano affatto: una panacea che possa restituire nobiltà ad una razza decaduta dalla gloria del creato al marcio, una reductio ad absurdum esercitata con la chiara consapevolezza per cui l’uomo può credere all’impossibile ma mai all’improbabile, agli antichi sogni e le vecchie storie che riprendono così forma, vitale passione e pungente sostanza in “Galdrum” come fosse per impalpabile magia.

Il logo della band

In un debutto dall’atmosfera ricercatamente oscurantista ed impervia nonostante le melodie siano spesso e volentieri catchy, rilucenti e sfarzose senza pudore né la minima vergogna, autentico pugno di ferro nel guanto di velluto, la band statunitense sorprende con una resa finale che -soprattutto notati e considerati al vaglio i temi- mai suona macchiettistica o parodistica, quanto piuttosto aggressiva e minacciosa per via di una personalità di linguaggio già agguantata nonostante l’appannaggio stilistico sia chiaro ed evidente: gli Stormkeep sono insomma figli di un Black Metal melodico à la symphonique e medievale che tuttavia non parla mai la lingua del padre, europeo o meno che questo sia, con un temperamento che è tutto loro -e seriamente loro soltanto- fin dalla pubblicazione della prima creazione su full-length in assoluto.
Al pari di maghi, stregoni incantatori, i quattro (con radici ottimamente camuffate nelle pelli dei Blood Incantation -dopo il virtuosissimo caso dei Sühnopfer, un altro batterista fa scintille nuovamente su ogni fronte strumentale- e in metà delle sei-corde dei Wayfarer) ammantano con dandismo i sogni degli uomini, i semi di Stati, i germi di imperi di gloriosa leggenda, di un’avventura mistica che prende vita al tramonto in composizioni tanto sontuose quanto dirompenti, graffianti, ruvide e fredde, guerriere e taglienti, galanti ed assordanti.

La band

Il caos è illuminato da lampi e saette, i Taake di “Nattestid” (ascoltare l’inizio della micidiale “Lightning Frost”, cuore pulsante e strutturale dell’album, per capire) ripresi con estremo giudizio nelle volute ampie, nei ricorsi spaziosi e circolari, sospesi nel funambolismo stridulo e quasi capricciosi, e dall’andirivieni di luci chitarristiche che come edera s’inerpicano aggrovigliandosi, di melodie che sono lupi in manti d’agnello celati in ogni angolo di una foresta lontana per tendere continue imboscate all’ascoltatore, con la forza e la veemenza di un tuono che sbuca e rimbomba fragoroso da nuvoloni neri ricolmi di pioggia e predestinazione.
La brevità e l’unità complessiva di tempo e spazio raggiunta dalla band, un fucile di fini dettagli che come nella migliore storia breve e ricca di significato narrata dagli Stormkeep fa fuoco in un solo e letale colpo senza dispersione di energia o potenziale che non vada perfettamente a centro, è la migliore dimostrazione possibile di una composizione che è estremamente naturale, dell’impasto sonoro che germoglia rigoglioso e vivo di lead melodici sospinti dal soffiare imperterrito delle tastiere sinfoniche, in motivi rapsodici che non sono barocchi e, al netto contrario, si incastrano ed evolvono secchi, macilenti e snelli tra loro con magnifica coerenza d’intenti, talvolta con metriche vocali prese in prestito dalla tradizione della ballata popolare (specie nelle vittoriose sezioni ritmicamente meno tirate) e sempre provvisti di una levità di tocco nel suonare, arrangiare ed orchestrare qualunque strumento impiegato: le chitarre distorte e sibilanti che stridono sotterranee e poi rifulgono in superficie per la loro grande armonia con i tastieroni (si conceda a chi scrive l’uso di un quanto mai necessario accrescitivo) grassi e svergognati come quelli che ricchi di algidi riflessi e riverberi gelidi già aprono il disco (un preludio che è dichiarazione di guerra ed intenzioni) all’inizio dell’articolatissima “Glass Caverns Of Dragon Kings” e regalano suprema maestosità nello stacco che fa da crepuscolare bridge pre-conclusivo alla superba carica finale condotta dai cori di “Of Lore” (gioiello dell’album il cui coraggioso grandeur epico riempie il cuore di impavido entusiasmo), o quelli che ancora, folkloristici e medievali in guisa, riproducono invece archi e fiati come negli intermezzi flautati reminiscenze di oscuri e medievali tempi della lunga opener (una propensione alla dilatazione che è carattere strutturale e trait-d’union dell’intero disco a prescindere dal timing sviluppato) come all’inizio dell’altra maxi-composizione che le fa da gemella solo una traccia più avanti e sistemata a cornice nell’economia del lavoro.
Lo stesso valore di elegante brutalità strumentale può proferirsi per la sezione ritmica, per la batteria dall’estremo dinamismo e dalla rumorosità che è un continuo clangore di spade, lance ed asce arrugginite di una cavalleria all’assalto, di blast-beat risuonanti trionfali e rumorosi sul fondo complessivo del mix, trascinanti e avvolgenti per frequenze nel reggere tutto il dramma, l’epos tragico di cui si riempie in assorbimento spugnoso l’episodio maestro “Of Lore” (uno in cui davvero la vita comincia ad imitare l’arte) – al grido di guerra di tutti contro tutti delle harsh vocals che, seppure quasi secondarie in ruolo (eppure, come dimenticare o tacere dei picchi d’enfasi che questa raggiunge, banshica, nei momenti in cui si spende maggiormente sgolata?), sono capaci di cantare di un mondo fuori dal mondo almeno tanto quanto i sintetizzatori che chiudono la narrazione tutta nell’elegantissima coda di natura Ambient orchestrale che titola in “Lost In Mystic Woods And Cursed Hollows”: con il suo repentino cambio d’umore sul finale che ha del neoclassico in composizione (dettaglio già svelato dal tenore delle linee di chitarre acustiche disperse), molto più di un trascurabile commiato Dark Dungeon Music dal manierismo stilisticamente blasé, bensì l’autentico colpo di grazia vibrato con la delicatezza dello scoppiettio di un falò acceso in nocturne sotto un’eclissi di Luna per far premere nuovamente play all’ascoltatore alla fine di ogni riproduzione dell’album.

Il suono quadrato ma proteiforme in cui tutto, insomma, riesce ad avere ampio spazio e a respirare a pieni polmoni pur amalgamandosi alla strenua perfezione (si badi: quest’ultima mai sterilmente formale!) nella cornice da cava pytteniana illuminata al chiaror di candelabri che è espressione degli Stormkeep (una che, va aggiunto, è stata encomiabilmente creata grazie a dei criteri produttivi di mix che hanno dello splendido) è quello della finzione che diventa realtà, della menzogna che diventa verità senza bisogno di retorica artificiale – quando la modernità della forma (e non della sostanza) è prezzo troppo alto da pagare per un risultato troppo modesto, quando alla volgarità che fa piangere gli angeli viene scelta ed esercitata la classe di artisti dotati di vero senso della bellezza finanche incastonata nella pietra più dura, grezza e comune; allora la brevità e l’incisività, la complessità che non esce a scapito dell’immediatezza e che vanno pertanto a braccetto in “Galdrum” ne fanno un disco da rotazione continua senza che questo perda o possa mai perdere d’interesse, appeal e sfaccettature.
Lo chiamano ‘90s Black Metal: eppure ciò che viene tramato nelle sue sale è tremendamente attuale, perché malgrado gli Stormkeep facciano apparentemente di tutto per ottenere il contrario, per merito di originalità e capacità che scavalcano, quasi mistiche, qualunque improduttiva nostalgia revivalistica, la particolarità della disabitudine emerge fuori potente come un mostro affamato dalle brume argentee senza nemmeno dover aspettare la fine. Nessun artista fu mai, del resto – e ne consegue a corollario, vero artista senza vedere e rappresentare la sua singolare verità, senza aver visto qualcosa di fantastico che alcun altro vede né potrà mai afferrare.

Matteo “Theo” Damiani

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