Enslaved – “Utgard” (2020)

Artist: Enslaved
Title: Utgard
Label: Nuclear Blast Records
Year: 2020
Genre: Progressive Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Fires In The Dark”
2. “Jettegryta”
3. “Sequence”
4. “Homebound”
5. “Útgarðr”
6. “Urjotun”
7. “Flight Of Thought And Memory”
8. “Storms Of Utgard”
9. “Distant Seasons”

Procedendo dal generale al singolare, la taumaturgia artistica nei terreni dalla cimentosità inesplorata ed insidiosa dei giganti che vagano periferici ed incontrollati nel profondo Nord, un’esplorazione che è entusiastica e di totale abbandono all’ignoto senza che tuttavia questo travolga i caratteri ormai distintivi della musica degli Enslaved, è il desiderio bruciante, l’anelito per ciò che ancora non è stato scoperto, mai trovato, compreso, la bramosia di recepire e farsi tramite di quel che non è ancora totalmente afferrato dall’umanità; la via necessariamente insicura ed irta di ostacoli verso le vastità dell’inconscio junghiano e freudiano in egual misura, quello delle ombre che si celano sotto la superficie immobile di acque ghiacciate riconosciute come familiari, fedelmente avvolte dalle tempeste di hagalaz e ricoperte delle forze ctonie di thurisaz, sondabili dal profondo solo se provvisti della creatività cosmologica naturale di Ymir.

Il logo della band

Nonostante infatti il collettivo guidato dalla lustrata sinergia compositiva BjørnsonKjellson sia una band che da sempre gioca sulla dicotomia e l’ambivalenza di ruoli e predisposizioni come quella di un istinto che è un primordiale quanto di energia vitale ancor prima che passionale, “Utgard” vive con ogni probabilità di contrasti superficiali tra postremi polari dello spettro sonoro tanto quanto nessun altro album degli Enslaved prima di lui ha fatto; con ciò detto, non sembra all’ascolto più focalizzato e maturo nemmeno esserci una componente prettamente progressiva ed un’altra maggiormente quadrata, o estrema, a contrapporsi per l’agognata conquista del piano aurale, tanto le due si nutrono a vicenda imprescindibili come fauci e coda dello stesso serpente primigenio che cerca di divorarsi le membra in un movimento di perenne, assolutamente virtuosa ciclicità in sé.
Non vi è, vale a dire, nemmeno questa volta una sensazione di evoluzione o continuità di discorso né con il diretto predecessore (se non nello sviluppo dell’intuizione esplorata nelle armonie corali prossime alla sensibilità Shoegaze di “Hiindsiight”, che offre dal canto suo il più vicino ponte tra mondi), né con l’indole più efferata delle nervosità presenti tra il 2012 ed il 2015, e tantomeno ben poco aderente alle eleganti manie Progressive Rock nel risveglio di Njörðr: nonostante firma e forma siano d’invidiabile riconoscimento, “Utgard” risplende in un solo respiro, nel bene quanto nel male, come una gemma d’elegante ricerca a sé stante probabilmente più di qualunque altro lavoro del nuovamente rigenerato gruppo, ricco di un carattere che è sua propria croce di difficoltà quanto di delizia per i raggiungimenti personali nel percorso rivelatore di segreti dei suoi creatori.

La band

Sono dunque dismessi i panni antropocentrici di “E”, e dai riti umani e degli Asi del Midgard si sconfina in quell’Utgard che è sinonimo di minaccia e mancanza di protezione, di crepuscolo finale degli dèi, di una nostalgia di casa e dei luoghi conosciuti lungo una vita che è annunciata. “Utgard” diventa così analisi e metafora di ciò che sta fuori, dell’esterno osservato con mezzi che sono invece squisitamente interni, con gli strumenti di un impressionismo musicale metonimico che avvicina ed allontana a piacimento elementi e dettagli apparentemente sconnessi cercando e riuscendo a sostituirli con ciò che, proveniente dalla stessa mano, ha invece carattere di prossimità sensitiva.
I brani si accendono e spengono in questo raffinato modo come fossero sogni (basti analizzare la struttura totalmente atipica e quasi paradossale che la band sceglie di impiegare in un’opener sfumata e stranamente invitante come “Fires In The Dark”), più o meno incubici e persino decisamente poco notturni (non serve nemmeno arrivare al finale in “Distant Seasons” per essere esposti e rischiarati dall’ampiezza della gamma inclusa in soli tre quarti d’ora di una durata complessiva che sarebbe potuta felicemente prolungarsi il doppio), ma sempre brevi ed interconnessi nel profondo molto più che in superficie, in quell’inconscio che li lega sovrastato dalle armonizzazioni vocali che passano quasi senza voler lasciare traccia della loro esistenza trascorsa nel reame dei viventi. Senza il bisogno di uno sketch preparatorio, i cori arrivano e muoiono apotropaici, si rincorrono armonici, armoniosi ed algidi senza ripetersi e lasciano il completo ed inadulterato compito all’ascoltatore per essere colti e collegati con la lucidità di svariati ascolti, quando iniziano finalmente a dischiudere tutto il loro valore emotivo.
La composizione complessiva e singolare è del resto pittorica, ad unione e affioramento, pertanto apparentemente sprovvista di scossoni perché frutto di un’apercezione fenomenologica in cui si trovano (dato che in tale ordine vi vengono fedelmente disposti dalla band) prima i dettagli, le singolari visioni dei creatori senza filtro, ben precedenti a quella tela globale che evoca sempre il passato più lontano ed inquietante senza mai suonarci bloccata né proveniente.
La sequenza sia musicale che tematica che parte dall’arcaica spoken word di “Útgarðr” per sfociare nella psichedelia sporcata dal nero di chitarre acide sparse atonali senza saturare il mix sopra all’amore esplicitamente ammesso per i Kraftwerk, per i Tangerine Dream più movimentati ed il Klaus Schulze più istrionico (già in BardSpec ampiamente tradito e ammesso, ma finalmente sposato con il sound estremo e le escoriazioni cacofoniche del sound Enslaved in soluzione maggiore rispetto alla velata “Storm Son” da “E”), per poi finire ad estremizzarsi ritmicamente nel tiro di “Flight Of Thought And Memory” (cavalcata sui campi di guerra e dolore, o trip down memory lane verso le ancora vergini sperimentazioni di mardraumiana memoria) e nelle sue suggestioni ambrate nascoste nelle sospensioni ritmiche di ghiaccio, è pertanto la dimostrazione pulsante di un collettivo di artisti ormai maestri nel trasmutare le continue citazioni dei propri idoli in materiale squisitamente ed indistinguibilmente proprio, nonché in un coacervo amalgamato, unico e senza spigoli stilistici nonostante l’enorme scarto tra influenze, qui forse più grande che mai tra gli opposti impiegati (si pensi anche solo all’inizio di un capitolo emblematico come “Storms Of Utgard”, dove per pochissimo tutto il gusto più classico in fatto di Metal del quintetto emerge senza filtro).
Affinché il turbinio di un tale universo di simboli sia comprensibile, affinché dunque musica tanto stratificata e complessa riesca a rimanere sempre struggente e dritta al punto quantomeno in termini emotivi, gli Enslaved impiegano questa volta non la sola ramificazione melodica graffiante, esemplificata perfettamente dal ritornello e dalle rispettive riprese in crescendo di “Homebound” verso il finale, o da quell’introduzione che è semplicissima melodia portante nella complessità di “Fires In The Dark”; gli assoli dell’Isdal al pari sono più importanti e presenti che in passato proprio per sollevare le composizioni oltre il livello del rumorismo su cui queste si inarcano perfettamente eloquenti quanto linguaggi di enorme semplicità. Così la musica può torcersi tra emozioni contrastanti nel combattimento tra la natura terrena e quella spirituale che gli Enslaved incarnano, e gli strumenti ottengono senza sforzo qualunque variazione e conquista si prefiggano; siano le melodie norrene folkloristiche incastonate come preziosi nodi nei riverberi dissonanti chitarristici, nell’incalzante splendore di corni e trombe o nei synth poliedrici, eterei e fluttuanti (“Sequence”, nonostante la sporcizia e le impazzite deformazioni chitarristiche Voivod su blast-beat d’acciaio, ha un ponte verso il finale di distensione quasi rilassante che avvolge le sinapsi dolcemente), in dissolvenze strumentali impalpabili contro la pesantezza più titanica (la fenomenale “Jettegryta”, laddove i Neurosis più pachidermici suonano i Bathory di “Blood Fire Death”), nella continua inclinazione squisitamente mitologica di atmosfere dilatate e rarefatte cantate col dinamismo della nuova voce una e trina (tra i toni delle clean vocals è da riconoscere quello piacevolmente grattato di ruggine del nuovo ingresso alla batteria Iver), vellutate, velate e leggere come la risata di un giullare, seriose ed impassibili come l’osservazione senza età di un gigante, al pari di quelle che aprono il gioiello “Distant Seasons” per poi spendersi in evoluzioni e trasmigrazioni armoniche strumentali mozzafiato e di raro interesse.

Nell’interpretazione criptica dell’intreccio tra musica e testi che continuamente sfidano all’unisono le capacità ermeneutiche dell’ascoltatore, nel quotidiano benvenuto senza asservimento dell’abbraccio alchemico nel risveglio di un Miðgarðsormr avvolgente, si tratta dunque di trovare e vedere quella fiamma, quel fuoco e quella luce che guidino nell’oscurità per poter guardare al dimenticato, al se privo di distanza con un passato che mai è stato scritto per fonderlo alle possibilità presenti e creare conseguentemente il futuro: così gli Enslaved, come ombre a caccia di vita, generano con istinto tanto viscerale ed umano da essere quasi paterno musica eterna, sospesa e liquida nel tempo che resta assoluta priorità e vanità cosmica, attraverso la psicologia del mito, con il linguaggio dell’antico di quel creato con cui tuttavia sono in così estrema ed immensa comunione d’intenti, e proprio per questa ragione dalle potenzialità creative e di ricerca infinite, e dall’anima immortale che risplende in un’alba inesauribilmente senza fine.

Matteo “Theo” Damiani

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