Wolves In The Throne Room – “Primordial Arcana” (2021)

Artist: Wolves In The Throne Room
Title: Primordial Arcana
Label: Century Media Records
Year: 2021
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Mountain Magick”
2. “Spirit Of Lightning”
3. “Through Eternal Fields”
4. “Primal Chasm (Gift Of Fire)”
5. “Underworld Aurora”
6. “Masters Of Rain And Storm”
7. “Eostre”

Sebbene appaia l’apoteosi dell’affermazione suprema dell’io, l’uomo cosiddetto moderno quale archetipo vivente non è che limitato al più rosicchiato osso, al più ristretto dei segmenti di quell’io totale che in altre ed anche più tetre epoche si è invece manifestato in tutta la sua libertà e grandezza creativa. Per dirla grossomodo con le parole di un brillante accademico quale Erich Fromm, l’indebolimento dell’uomo è ormai tale da aver raggiunto la completa esclusione e soffocamento di tutte le sue caratteristiche in quella che potrebbe altrimenti definirsi una personalità totale, fatta eccezione per la sopravvissuta volontà -per così dire, in mancanza di un’immagine più felice- dell’intelletto. Il dominio quasi incontrastato sulla natura che è traduzione fisica di quest’altrove introvabile ingegno non ha generato però poi tanta forza nell’io singolo; è probabilmente vero il contrario: quantunque possa mostrarsi alto o tecnologicamente ragguardevole il giogo imposto alla sacra madre di ogni forma di respiro, non riesce proprio -poco importa quanto si sforzi da ultimo- a controllare, quale il maestro che dovrebbe essere, le forze preponderanti della società stessa di cui vanta la singolare creazione, in un trionfo tutto negativo di crisi economiche, di disoccupazioni lavorative ed affettive, di guerre che regnano incontrastate il creato di un uomo trasmutatosi in macchina razionale e tecnica, e che tuttavia sfugge puntualmente di corrispondere all’irrazionalità di rapporti umani che hanno totalmente perduto ogni componente umana.

Il logo della band

Un mirabolante gioco di prestigio psicopatologico governa quindi il destino di questo nuovo uomo che ha costruito il suo cosmo fatto di fabbriche e case sempre più alte per poter toccare il cielo con un dito, abitazioni che non sono più casa, e che produce ogni genere di trasporto e vestito ma che si è estraniato perfino da ciò che le sue mani possono creare, smettendo di essere il padrone del mondo che si è composto – al contrario, è questo suo stesso mondo ad essere diventato il padrone davanti a cui si deve inchinare e che ora, in un rovescio di sorti bello e buono, cerca di assecondare –panem et circenses– come meglio gli riesce. Mantiene questa orgogliosa pretesa di essere al centro del creato e al contempo ne prova la stessa paura cieca, lo stesso identico sentimento di solitudine ed esilità, d’irrilevanza più totale, che gli antenati provavano nei confronti di un dio. È un uomo che cerca continuamente la sua forza dolorosamente perduta altrove, perché è sostanzialmente frammentato e debole.
Si voglia ora per un istante ragionare sull’esatto opposto in termini situazionali o di ricerca e si dipingerà chiara nella mente l’immagine di una band alla raccolta, come fossero squisiti frutti nel buio, delle forme di energia più antiche, più archetipiche, di cui trovare fonte sempre più in profondità nelle pieghe più interne della terra; in una sinestesia di odori e frequenze alchemiche a lume di candela, in pelli e vertebre, piume e spire rinnovate, in felci tossiche ma dall’uso profetico e grezze lame rituali che recidono squame ed ambivalenti artigli zigodattili – che esprimono sia la tensione verso l’alto che verso il basso, ma diventati inutili nella fusione di sensi e terra ormai raggiunta. Perché è in fondo anche inconcludente girarci troppo attorno: i Wolves In The Throne Room di “Primordial Arcana” ce l’hanno fatta o vi sono drammaticamente prossimi, in quasi due decadi di ricerca e viaggio che corrono l’uno lungo l’argine dell’altro con metodo ecdotico, con un approccio tutto comparativo e sensitivo a risalire alle sorgenti prime di un’energia che è in essenza primordiale, arcana, atavica, con un modus operandi stemmatico in simboli rupestri prototipici e familiari che dipingono il sentimento di comunità vetusta dell’archetipo umano, il mero fatto di essere tutti sulla stessa e più grande strada e di condividere un destino che trascende il corpo, una solitudine in tutto ciò persino. Quell’isolamento che porta, ciononostante, individui artisticamente persi nel proprio mondo come pochi altri sul pianeta ad affidarsi quasi esclusivamente all’io individuale ora ripartito triplice, producendosi esclusivamente da sé il proprio nuovo full-length – dalla più che ovvia scrittura alle registrazioni, ma soprattutto missaggio, alla produzione integrale fatta eccezione per il mastering di orecchie esterne per poter far emergere energia pura dal chiasmo embrionale.

La band

“Primordial Arcana” è del resto anche, e coerentemente con quanto detto finora, la storia di un mix professionale rigettato senza titubanza e della parallela necessità di fare da sé, senza fretta, come risposta all’impossibilità d’altri di comprendere nel vibrante profondo una visione che si fa suono arancione, vivo, dello splendore ambrato di tizzoni ancora accesi nel calderone di peltro della memoria accesa d’incenso purificatore, di resina che ancora fresca cola da un tronco pulsante e rivestito di ricordi millenari. Un rito di passaggio fai-da-te in suono e sensazioni, in risposta ad un bisogno, un impulso tematico ancor prima che stilistico da incanalare nell’analogico – dal suono dei sintetizzatori alle distorsioni con un cuore Orange in ogni senso, per potervi riversare manoscritti tramandati oralmente, ricreando sia l’originarietà che l’originalità in consequenzialità logica con il grande patrimonio pan-germanico e celtico alla cui guida i Wolves In The Throne Room fanno profondo inchino, più spesso misticamente mandato di generazione in generazione da avi che divengono spiriti guida e fiamma che brucia come un dono in memoria e parole.
“Mountain Magick”, carica di allerta ed elettricità, è dopotutto la porta magica ed ermetica incisa di rune, d’ingresso nella montagna che è il portale pericoloso per un altro mondo, per un’altra età senza età, e tende dunque musicalmente verso il cielo a cui tendono le stesse trionfali vette eterne ammantate d’incantesimi ed incanti di note sbilanciate nel buio della notte, e delle profondità di cristallo da cui proviene che ne donano l’opposto contraltare. Tra i due estremi compositivi Aaron e Nathan -la leggerezza della levitazione meditativa e il più bruciante e nero dei Metal– la terza voce Kody Keyworth mostra oggi quella via tutta blakeiana e dall’inizio quasi Funeral Doom di “Primal Chasm”, camera d’oscurità fatta di corni Dark Ambient da incubo (un’esplosione ed esplorazione strettamente adiacente al passaggio bonus riservato unicamente alle versioni digitali nelle vesti aurali di “Skyclad Passage”) e tripudi sinfonici di un grandeur che emerge imponente come divinità dalle crepe di una lentezza strisciante (l’immenso finale di “Through Eternal Fields”) tessendo il lavoro filologico e terroso nella curativa “Spirit Of Lightning”: fatta di argilla e di cielo, di Enya e di Vangelis, di Badalamenti e di live soundscape à la “Through Silver In Blood” e “Times Of Grace” nel campionamento triggerato dai colpi delle percussioni senza necessità di un layering successivo in studio, o di sovraincisioni aggiuntive che picchiano invece così, esacerbate in violenza, in una diretta simbiosi purissima col resto degli strumenti come fosse il martello del fabbro Völundr in timbri nuovi ma antichi, specifici e unici, ricreati dalla stessa fungina materia di cui è fatto tutto il Black Metal sinfonico degli anni ‘90 (Roland JV-1080, Korg M1, ma non soltanto nei preset). I sample sono infatti creati dalla band in field-recording o in motivi di musica Folk (su tutti quella dalle connessioni quasi animiste del secondo brano) suonati, catturati e poi sfruttati elettronicamente nei sequencer tramite sintesi. Proprio il fatto che un batterista controlli questi aspetti nel creare il ritmo della narrazione musicale dona loro un groove altrimenti introvabile -e pertanto francamente introvabile altrove- nella caccia teleologica al brillare del primo raggio di luce che si riflette nella rugiada dormiente su muschio, sui campi eterni illuminati di verde, al risuonare del corno di Cernunnos che chiama a raccolta i suoi figli, il suo branco eteno guidato dal grande alce candido – il volto catacombale di un autunno che si approssima e tende una trappola mortale ad Eostre dall’abbondanza svanita e che, nonostante, ciclicamente tornerà con le sue dolci figlie della cascata.
Sono tutti motivi di una natura e grandezza apotropaica e propiziatoria che ricorrono come presagi di benessere interiore ed ascesa verso il basso in “Underworld Aurora”, nei suoi maestosi giri di riff ariosi, concentrici ed aerodinamici, che si librano sulle ali del vento spirante sui dirupi delle cascate salate e diventano netti come ghiaccio all’adunata del gran concilio dei padroni e maestri di tempesta e pioggia, di vento e neve all’arrivo imperioso dell’oscurità autunnale: un quarto d’ora finale di libidine, di discesa a strapiombo in una guerra di elementi contro elementi senza esclusione di colpi nell’uso di altri richiami sinfonici e gustosissime rullate che più novantiane non si potrebbe (in verità un tratto estremamente distintivo dell’album, che ne fa propri i mezzi sfidandone la pienezza del suono e rigonfiandoli ora a dismisura nell’etere di cui diventano padroni insieme all’uso furibondo ed estremamente caratteristico dello splash come vera gemma preziosa nella corona dei piatti per l’occasione nominati principi alla corte di Aaron Weaver) – dove gli Slayer incontrano i Throne Of Ahaz ed “Opus Nocturne” i choir-pad di “In The Nightside Eclipse” in stalattiti di riff assassini. Si prenda come esempio in tal senso anche solo quello che apre -mozzafiato, quando seguito da tanto di un gong sintetico dall’afflato trascendentale- la sezione principale che segue una breve chiamata alle armi, o quello del pesantissimo rallentamento centrale che precede il magnificato diramarsi acustico in viaggio libero oltre i confini dell’umano verso il regno del gigante Mundilfari, condensando la virilità del figlio Máni e la maternità della sorella Sól, versando sacra pioggia prima di un commiato consacrato alla benedizione delle acque che trasformano il sangue in linfa di salvia candida prima che venga bruciata; i capelli in miceli, la carne in minerale, l’osso in quarzo e gli occhi in oro puro come la creazione incontaminata da qualunque influenza esterna.

“Primordial Arcana” è quindi innanzitutto uno strabiliante lavoro di cuore ed anima senza filtro, ma anche un picco artistico per uno dei gruppi che non si esagera a ritenere tra i più rilevanti in attività sul pianeta, e che continua pertanto a ridefinirsi uscita dopo uscita trovando nuovi modi per comunicare di una libertà che i suoi simili possono giusto faticare anche solo ad afferrare; diverso non da ultimo nella spia di una lunghezza dei brani enormemente condensata rispetto agli standard della band ma che, proprio in ciò, respirano come fossero infiniti in suono e fattezze, in ogni passaggio onirico vestito di cielo, nell’enormità di ogni rullata che proviene da un’altra dimensione aliena alla forza dell’intelletto ma casa dello spirito, colpendo dritti alla giugulare e donandogli un carattere se possibile ancor più anti-virale, eterno. Un nuovo cristallino traguardo sul percorso di una ricerca speculare iniziata già con “Celestial Lineage” dieci anni fa esatti, e tuttavia di un dominio di energie tutte nuove perché questa volta tese verso le profondità della terra, verso i misteri di antenati e saggezza; ma non si tratta di ricreare falsi culturali posticci per accodarsi ad una corrente piuttosto che un’altra o, peggio ancora, prendendone i caratteri più facilmente accettabili ad un paio di migliaia di anni di distanza: i Wolves In The Throne Room non emendano alcunché ma scelgono con attenzione le forze migliori e più distruttive per creare un lavoro in cui si respira più che mai il dinamismo della natura dell’essere che tende sempre alla realizzazione delle sue più grandi possibilità, sviluppate in sé, e ancora di più quella tanto anelata, forse pienamente irraggiungibile libertà positiva umana – di un umano che, conseguentemente, dell’umano moderno come così tristemente lo conosciamo ha dismesso i panni senza fuggirvi né allontanarli codardamente dalla sua comprensione.

Matteo “Theo” Damiani

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