Settembre 2019 – Mgła

 

Chi non ha percepito nessun calo quantitativo o qualitativo nelle uscite discografiche durante i mesi estivi, si suppone, in settembre sarà stato ben felice di aver persino registrato un significativo boost in tal senso. Questo, quantomeno, è quanto successo alla redazione dei vostri scribacchini preferiti una volta ritrovatasi finalmente a discutere di quattro dischi, nuovamente plurinominati, in una selezione che ha seriamente l’odore delle grandi occasioni (di quelle in cui tutti tutti i dischi sono propostivi da più e più orecchie, per intenderci).
Gran gala e glamour dunque siano perché oggi si parte, davvero inevitabilmente, con dei veri e propri paladini moderni del genere che con la maggiore frequenza trattiamo su queste pagine: i polacchi Mgła hanno tirato la bomba (tramite Northern Heritage Records a inizio mese) e ormai lo sapranno anche i sassi – ma quello che i sassi non potevano sapere è che il disco è stato un autentico successo negli stereo e nelle cuffie di tutta la redazione, che ve lo propone con i suoi motivi alla totale unanimità dando in questo modo fuoco alle polveri per l’articolo riassuntivo del meglio di settembre.
Eppure il duo polacco più famoso di tutti è stato sorprendentemente tallonato abbastanza da vicino, perché un’altra band (dalla tra l’altro geograficamente prossima Ucraina) li ha coraggiosamente sfidati dall’alto del suo secondo ottimo disco uscito per Debemur Morti Productions, la cui sperimentalità, eleganza ed intrascurabile coraggio sono valsi loro la seconda standing ovation totale di oggi da parte dei redattori tutti. Giusto un passettino sotto ad “Age Of Excuse”, ma solo per qualcuno di noi.
Terzi ma non per importanza seguono, a parimerito relativo tra numeri e posizionamento, altre due realtà sulla carta debuttanti ma -nella pratica- composte da volti e mani decisamente non sconosciuti. Insomma, il pedigree c’è tutto, la varietà pure e la qualità è ai suoi massimi storici per occasioni simili (come testimoniano Avantgarde Music e Peaceville Records a patronare le due uscite); cosa desiderare di più?
Che iniziamo a blaterare dei quattro campioni di oggi così ce la sbrighiamo e potete ascoltarli? Vi accontentiamo immediatamente.

 

 

Devastante, inquieto, infuocato, urgente, attuale e ribelle nel più autentico senso del termine: “Age Of Excuse” analizza il declino sociale e le sovrastrutture percettive umane commentando il mondo circostante con l’acume che risiede solo nella distanza degli eletti. Non profeti d’auto-proclamazione, non fenomeni da baraccone pronti a fare bagni di fama e gloria colorati d’indulgenza; i Mgła si riconfermano grigi e lontani, grazia ai margini nel senso estetico e poetico del termine, nonché al top del loro stesso gioco che (anche escludendo l’estrema intelligenza dei testi) non ha letteralmente rivali diretti. Lo sdegno si traduce in una formula ancora più gretta e grintosa per impatto, ma sempre più ricercata in numeri di sovrapposizioni atonali e ritmiche – l’essenziale passo in avanti su ogni minimo fronte, per maturazione, novità e persino stile, che permette al solidissimo duo di trovare conferma senza vistosi escamotages ma scrivendo un lavoro di fenomenale intensità che, senza la minima esagerazione di sorta, si appresta ad essere ricordato come il loro miglior disco ad oggi pubblicato. Vestigia nulla retrorsum.”

(Leggi di più nelle due colonne dedicate ad altrettanti brani dall’album, qui e qui.)

Chi nel 2015 ebbe la consapevolezza che “Exercises In Futility” non era un fulmine a ciel sereno, bensì la summa parziale di una band che ha sempre avuto ben chiari i propri obiettivi in musica e che con l’applicazione di chirurgico metodo li ha perseguiti uscita dopo uscita, potrà gustarsi appieno il nuovo scintillante monolite di ossidiana eretto dai polacchi: l’ennesimo passo di crescita in perpetuo perfezionamento che porta ad infittire ulteriormente la stratificazioni chitarristiche, ad affinare il comparto melodico e a rendere quelle di “Age Of Excuse” le liriche più suggestive e curate che M. abbia mai composto, mentre gli accenti ritmici di Darkside si susseguono come i concitati passettini di una massa di morti viventi a rincorrere come topi affamati gli effimeri ideali da loro stessi partoriti. E se l’uomo produce il male come le api producono il miele, con la stessa naturalezza e con imperterrito distacco i Mgła procedono sul loro sentiero, che li porta a stagliarsi sempre più saldamente fra le band di maggiore talento dell’intero panorama Black Metal.”

Il raffinanto nichilismo dei Mgła ritorna in vetta con “Age Of Excuse”, opera inquadrabile come diretta estensione delle braccia del cieco di “Exercises In Futility”. I polacchi continuano il loro personale, precedente percorso musicale riuscendo addirittura ad ampliarlo tramite l’aggiunta di nuovi ed intriganti layer sonori. Ancora una volta parliamo di un prodotto estremamente interessante non solo per la musica realizzata e contenutavi ma anche per il suo comparto lirico, vera colonna portante degli immaginifici scenari che trasudano da ogni traccia secondo dopo secondo.”

“Squadra che vince non si cambia. Di solito si dice così quando una formula ben collaudata risulta vincente nell’arco del lungo periodo; potremmo forse dire lo stesso anche per il nuovo album dei polacchi Mgła, ma ciò non renderebbe affatto giustizia ad “Age Of Excuse”, anzi, si tratterebbe di un giudizio affrettato e sommariamente sbagliato perché, sebbene le carte in tavola non siano stilisticamente poi tanto cambiate dall’acclamato “Exercises In Futility”, dopo diversi ascolti si possono ascoltare rinnovamenti meno appariscenti nella globalità del loro suono: non ultimo lo sviluppo crescente di una sinistra melodia che sale impercettibile come la nebbia, puntualmente spazzata via (in superficie) dalla precisione violenta di Darkside alla batteria, e dai testi, sempre più ricercati e nichilisti. Una garanzia.”

Mocked by many – known by the few. Chi scrive è solitamente il primo a trascurare, qualche volta a torto, il comparto lirico di un disco concentrandosi su quello sonoro, ma a questo giro l’asettico ringhio di M. non gli ha permesso di farsi sfuggire uno dei versi più sentiti e attuali mai vergati dai polacchi. Immobili ed inscalfibili come nelle loro fotografie ufficiali, i Mgła del 2019 mantengono la loro direzione musicale e concettuale con l’arroganza sfacciata di chi conosce benissimo la propria forza: riff perennemente ispirati, il drumming sempre assurdo di Darkside e qualsiasi altro tocco su cui questa creatura abbia negli anni, meritatamente, fondato la propria notorietà in identità; e da ingredienti già noti ed apprezzati nascono ancora una volta sei brani di raro coinvolgimento, con l’inevitabile catarsi che esplode nell’ultima ripartenza per quattro minuti di cavalcata verso l’eternità. Tenetevi allora i proclami da sedicenti eroi underground alternati a Peroni ed occhiali da sole, gruppi-parodia da voi stessi definiti geniali ed articoli zeppi di polemiche stantie con cui alimentare il vostro ego; noi abbiamo “Age Of Excuse”, e stiamo benissimo senza di voi.”

 

 

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Il successo annunciato di una band i cui sviluppi erano attesissimi, ovvero “Love Exchange Failure” dei White Ward uscito il 20 settembre per Debemur Morti. Non fosse abbastanza il food for thought regalato dal primo della selezione, ci pensano anche gli ucraini a farvi riflettere con abbondanti spunti lirici ed estrema originalità; e con un simile secondo album, il futuro verso l’Olimpo della musica estrema è praticamente già scritto.

“I White Ward pescano a piene mani dalla desolazione interiore tipicamente associata alla vita nel paesaggio ed ambiente urbano per creare soundscape più coesi rispetto al debutto, per di più esaltati dal maggiore e meno asettico valore emotivo. Il gioco di contrasti cambia regole e diventa invece di sintesi, cosicché l’interesse non si spenga e -al contrario- si faccia più alto tramite un comparto vocale molto più incisivo, perché aderente alla proposta, nonché alla maturata capacità di far convivere mondi apparentemente distanti ed inconciliabili per via di strutture più curate e relativi timing che si dilatano di conseguenza, permettendo di raggiungere luoghi inesplorati: non è il genere, quanto piuttosto la sensazione, a portare a casa il risultato. Ed in quest’ottica i White Ward dimostrano di saper gestire alla perfezione l’ampliata tavolozza di Black Metal, Jazz notturno del più fosco esistente, sensibilità rarefatte di varia natura stilistica e decadentismo noir che si sono costruiti.”

(Leggi di più nelle due colonne dedicate ad altrettanti brani dal disco, qui e qui.)

L’irruenza e l’esuberanza del debutto si incanalano in una maggiore maturità, che li porta a sfumare l’atmosfera malsana e ricca di chiaroscuri con venature più crepuscolari ed equilibrate, in cui le linee di sassofono s’integrano organicamente all’apparato estremo che, a sua volta, si dimostra incalzante e più aggressivo che mai. I ragazzi ucraini non hanno alcun timore di osare nella proposizione di un platter dalla durata considerevole, resa possibile da un approccio elegante che sacrifica gran parte della componente elettronica precedentemente apprezzata a favore di sezioni dal gusto noir molto più dilatate e consistenti, che non solo introducono e fungono da collante fra le tracce, ma diventano uno dei motori primi nella caratterizzazione del sound. Una grande riconferma della classe già cristallina dei White Ward che dimostrano come le coordinate da loro stessi definite non siano una gabbia e rimangano estremamente malleabili nonché in grado di accogliere elementi estranei: esempio su tutte la riuscitissima “No Cure For Pain”.”

Enorme maturazione quella raggiunta dagli ucraini White Ward con la pubblicazione del proprio secondo full-length “Love Exchange Failure”: la band riesce ad incanalare nel proprio sound un mix di desolazione urbana e atmosfere abissali comandate da melodie di assoluta classe. Il songwriting vede un netto miglioramento a favore di canzoni varie e travolgenti, accompagnate con successo da differenti elementi vocali che nel complesso oscurano l’unica pecca di quest’eccellente opera, ovvero l’eccessivo rallentamento portato da “Shelter” e dall’introduzione infelicemente giustapposta di “No Cure for Pain”. Tutto il resto è gioia.”

Quella dei White Ward potrà non essere forse la musica meglio arrangiata in circolazione, ma è senza dubbio una tra le più personali e riconoscibili in assoluto, tanto che anche dopo due anni l’effetto sorpresa trovato nel 2017 sopravvive grazie ad un degnissimo seguito. Il canovaccio Post, Prog e Jazz del debutto viene ripreso e rimodellato secondo una visione più organica, in cui le digressioni solitarie dei singoli strumenti diminuiscono in numero favorendo così l’omogeneità dell’atmosfera, vera carta vincente del gruppo nonché porta d’accesso ad un universo sonoro tra i più interessanti del Black Metal attuale; in perpetua oscillazione tra la torbidezza della musica noir anni ‘40 e la malinconia del fenomeno Shoegaze downtempo, macchiato di sperimentazione sassofonistica, la tavolozza di immagini e sensazioni fuori dal tempo evocate in questa ora abbondante di musica fanno di “Love Exchange Failure” un lavoro certamente impegnativo ma allo stesso tempo scevro da qualsiasi momento di noia.”

“Molte le aspettative raccoltesi attorno alla pubblicazione del secondo lavoro di questa giovane band ucraina dopo l’ottimo esordio di qualche anno fa, ma i plausi e gli elogi sembrano non aver minimamente inficiato la voglia di migliorarsi del gruppo; accantonata da subito la pericolosa possibilità di sedersi sugli allori, i musicisti si sono impegnati nel realizzare “Love Exchange Failure” ancor più sperimentale del precedente disco, complice anche un minutaggio più corposo di ogni canzone per esprimersi al meglio. Il risultato, a cominciare dall’artwork, dona una lettura più malinconica in chiave urbana, ben contrastata dalla ferocia del loro Black Metal imbastardito con sonorità Post- su cui sassofono e pianoforte si alternano e s’intrecciano in una fusione propriamente Jazz, per valorizzare al meglio l’atmosfera della proposta.”

 

 

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Primo dei due album della selezione ad essere marchiato di pedigree, ovvero un debutto di nomi (da noi) pluripremiati, è “Meteahna Timpurilor” dei transilvani Sur Austru. Gli ex-Negură Bunget dimostrano col loro primo full fuori dal 20 per Avantgarde di avere tutte le carte in regola e un loro personalissimo taglio per poter ricominciare voltando pagina dopo la tragedia personale che ha interrotto il percorso della band romena più nota di sempre.

Il pedigree maturato da grossa parte dei membri dei Sur Austru negli ultimi anni di crescita all’interno dei ranghi Negură Bunget parla e suona abbondantemente chiaro – eppure, “Meteahna Timpurilor” mostra un approccio più diretto alla materia che, seppur certamente meno sperimentale e sorprendente della defunta band, non si presenta meno ricco di profondità espressiva o d’idee (maturate e veicolate da e con un co-testo di matrice oggi più Doom che Black e di minore propensione all’avanguardia – ma non all’inusualità), ricercate nell’ormai inconfondibile maniera di gestire la materia folkloristica di chi proviene dalla leggendaria terra transilvana. Ne (sentiamo e) sentiremo delle belle.”

(Leggi di più nella colonna dedicata all’opener “De Dincolo De Munte”, qui.)

Nonostante l’esoscheletro sia quello dei compianti Negură Bunget, il soffio vitale che con leggerezza e sapienza lo muove è nuovo e limpido: se l’estetica folkloristica dalla palette autunnale, i fiati tradizionali e certi arpeggi dal gusto ipnotico non tradiscono l’origine dei musicisti, è l’approccio più meditativo e ritualistico a tratteggiare la personalità dei Sur Austru. Le ampie progressioni acustiche, supportate dalle note più drammatiche e mistiche delle tastiere, si sgretolano su una struttura dai tratti Doom, in grado di esaltare il profondo e ruvido growl di Tibor Kati, perfettamente integrato nelle trame dell’opera. I transilvani smentiscono così, con nettezza, chiunque possa aver pensato che “Meteahna Timpurilor” potesse rappresentare uno sterile passaggio di testimone, partendo sì da un solido retroterra ma rielaborandolo alla radice e rilasciando un debutto dai connotati già unici nel suo genere.”

“È sempre compito difficile raccogliere l’eredità di un gruppo scomparso, specie se si carica del peso dell’act numero uno nell’esportazione in tutto il globo del folklore di un paese non molto solito ai riflettori come la Romania. Per Tibor Kati e soci si prospettava quindi un lavoro arduo, sotto molti aspetti che ne includono di musicali e non, ma il risultato finale condensato nell’ottimo esordio “Meteahna Timpurilor” ha ben ripagato ogni fiducia riposta sul nuovo gruppo: il suono non si discosta di molto dalle ultimissime opere del vecchio gruppo, e da qui riprende infatti il discorso con un approccio molto più Doom Metal che riesce a donare un’atmosfera complessiva di maggiore direzione al disco, ma con il sempre caro fattore musicale folkloristico a legare tutte le varie sfacettature della proposta.”

 

 

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Ultimi solo per numero di nomine ma non di certo per importanza o sorpresa sono i norvegesi Mortem, secondo nome col pedigree promesso e trattato oggi: dalle ceneri di un quasi aborto pre-Arcturus, la band composta da Sverd, Hellhammer e Marius Vold (di memoria storica Thorns) riporta in vita con l’inatteso debutto “Ravnsvart” (uscito settimana scorsa via Peaceville) atmosfere dimenticate pur suonando splendidamente attuale.

La resurrezione dei Mortem permette all’esperienza delle illustri menti e braccia ivi coinvolte di compiere una piccola magia. “Ravnsvart” è un disco dalle atmosfere di altri tempi, con le tastiere impiegate come solo Sverd sa fare, dallo stile che trova paralleli solo nel lavoro dei suoi stessi interpreti -in altre band- ormai oltre una ventina di anni fa. Allo stesso tempo “Ravnsvart” vive profondamente ed irrimediabilmente ancorato nel più puro presente, senza citazionismo, senza nostalgia né rimandi, bensì respirando modernità, gusto e uno zeitgeist sospeso tra due mondi; semplicemente, è come se la clessidra si fosse rotta e la sospensione avesse permesso allo stile inimitabile di Sverd, alla classe del compare Hellhammer e all’ugola di Vold di creare un gioiello che nonostante i nomi e l’esperienza (e forse proprio per quello) era finanche difficile aspettarsi.”

(Leggi di più nella colonna dedicata alla title-track dell’album, “Ravnsvart”, qui.)

Abbandonati sul nascere nei recessi di un decennio in cui il Black Metal ancora non si sapeva bene cosa fosse, riesumati in un 2019 che neanche ricordava della loro esistenza, infine presentati con beffardi e manifesti intenti revivalistici; ma lo spettro di una nostalgica e sterile distrazione di artisti solitamente troppo indaffarati nei loro progetti principali viene spazzato via in pochi minuti, travolto da una violenta folata di riff affilatissimi e orchestrazioni sinistre e maestose. Perché non bisogna dimenticare che l’estro dell’unico compositore dell’opera, Sverd, da anni ha come unica valvola di sfogo degli Arcturus ormai stabilmente votati ad avanguardia e stravaganza, ma che ai primi tempi della sua creatura -ed ancor prima- fu fra i protagonisti nel gettare le basi di un certo tipo di sonorità: così atmosfere bieche e maligne, sinfonie gelide e travolgenti sprazzi di epicità confluiscono in un’opera tutt’altro che di mestiere, bensì di navigata esperienza, concepita con l’arroganza di chi vuole rimettersi in gioco dimostrando di aver conservato e curato con gelosia il filo della propria lama.”

 

 

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Giunti per oggi alla conclusione, eccezionalmente, ci permettiamo questa volta un’insolita ma dovuta digressione: settembre è stato un mese ricco di ottime uscite anche tra quelle dalla natura minore. Solitamente, proprio per la loro diversa corposità e ragion d’essere, ci limitiamo a proporle in altre sedi più consone dove possano non soffrire l’inevitabile (s)confronto diretto con i più completi full-length (colonne e playlist per approfondimenti, ma anche news e più in generale ovunque sia il caso a titolo informativo) ma questa volta -senza fare inutili listoni, che tanto c’è il calendario a venire in vostro aiuto come sempre– occorre non tacere quantomeno sulla prima prova in EP dei norvegesi Dold Vorde Ens Navn: chi ha già avuto modo di conoscerli, sicuramente con piacere, o di trovarli in altri articoli della Webzine stara ora pensando “il terzo nome col pedigree di oggi?”. Confermando la sorpresa a nostra volta, non possiamo che proporlo a chi invece non avesse ancora avuto la soddisfazione di farne la conoscenza. Date ascolto a noi e quindi un ascolto anche a “Gjengangere I Hjertets Mørke”, qui.
Per tutto il resto ci sarà il prossimo appuntamento una volta conclusosi ottobre.

 

Matteo “Theo” Damiani

 

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