Column N.20 – Mortem & Slagmaur (2019)

 

Punto primo, ce lo siamo detti in più di una occasione su queste pagine: la Norvegia non dispensa più, quantitativamente o perlomeno con la stessa frequenza, le perle di un tempo fisiologicamente andato. Quelle volte in cui ancora lo fa, tuttavia, non lascia davvero scampo – e gli esempi non sono comunque pochissimi. Punto secondo: i ritorni inaspettati in questo 2019 iniziano a non contarsi più sulle dita di una mano, finanche prendendo in analisi solo quelli che all’inaspettatezza aggiungono una qualità (o fattezze) sorprendenti (sentirete nelle prossime settimane, ma non divaghiamo).
Detto questo, ve li ricordate i Mortem? Sì, quelli Death Metal. Quelli che, formati nel 1987, hanno fatto perdere le tracce discografiche dopo un unico brevissimo demo di lignaggio stilistico non lontano dagli Autopsy del 1989 (cosa assolutamente comune, in realtà, nella Norvegia anteriore al 1990) intitolato “Slow Death” (appunto). Quelli che, proprio per questo motivo, a lungo sono stati -erroneamente- considerati il passaggio pre-Arcturus essendo fondamentalmente la band di Sverd, assieme a quel Marius Vold dei Thorns con cui ha fondato la ben più avanguardistica band che avrebbe subito registrato e rilasciato “My Angel” nel 1991, raggiunti da Hellhammer (e pensare che doveva soltanto essere un spin-off dai Mortem… La vita tira certi scherzi di popolarità inattesa, alle volte). Quelli che, insieme agli Old Funeral e agli Amputation, ma anche ai primi Darkthrone (e che dire degli inizi degli Isengard?), ai più giovanili albori dei primissimi Mayhem e ai più tardi (e pertanto forse poco inquadrabili nel discorso) Thou Shalt Suffer, avevano guardato con una reverenza durata un paio di anni -in un humus norvegese comunque comune, crocevia di musicisti particolarmente ristretto- alla Svezia dei Morbid e alle declinazioni più oscure e lente del Death Metal nel nuovo continente prima di mutare (insomma, tutti) la proposta nell’imperante lemma noto come Black Metal una volta superate le porte del decennio (o quelle dell’imposizione estetica di “Deathcrush” e di colui che lo aveva composto, giusto il tempo di affermarsi dopo il 1987) e divenire così i vari Burzum, Immortal, Emperor, Hades e via dicendo – questo senza citare tutti gli altri che hanno suonato Death Metal senza lasciarne traccia su nastro (gli Enslaved a nome Phobia e i Satyricon a nome Eczema per citare due casi celebri).
Una lunga ma doverosa parentesi, se non altro viste le premesse, per inquadrare i Mortem di Steinar e Marius che a distanza di soli trent’anni (persino esatti!) tornano alla carica come niente fosse per consegnare quel debutto mai scritto: in primo luogo riattivandosi nel 2018, raccattando coerentemente Hellhammer (che già aveva fatto la sua parte sul demo), poi l’ex-Den Saakaldte Seidemann al basso e mettendosi mente e corpo al lavoro su qualcosa che esulasse stilisticamente dai loro impegnatissimi e ormai stabiliti progetti principali. Un piacevole divertissement d’incompatibilità che ha fatto il giro completo, dunque, il ritorno dei Mortem? Ma, soprattutto, se fanno Death Metal, perché ne stiamo parlando qui?
Per rispondere alla prima domanda servirà aspettare il 27 settembre e ascoltare “Ravnsvart” nella sua interezza (cortesia di Peaceville Records), per la seconda possiamo invece rimediare fin d’ora: non fanno (più) Death Metal.
Non solo fanno Black Metal, ma di un tipo che non si sentiva più da secoli e che -con quel tocco- raramente è stato ripreso da altri. Prendete estro ed eleganza degli Arcturus di “Aspera Hiems Symfonia” (Sverd ed Hellhammer insieme rimangono pur sempre Sverd ed Hellhammer insieme) e sorprendetevi ad indurirli tramite la malevolenza delle voci e delle sonorità dei Kvist: otterrete qualcosa di non molto dissimile per risultato ascoltando la title-track nonché opener dell’imminente full-length di debutto di quello che sono i Mortem Anno Domini 2019, disponibile come pregevolissimo pezzo in anteprima da questa settimana per farci un’idea su questo come-back tanto inaspettato e sorprendente su carta quanto (per una volta) nei fatti.

Lo trovate su YouTube.

Tracklist:
1. “Ravnsvart”
2. “Sjelestjeler”
3. “Blood Horizon”
4. “Mørkets Monolitter”
5. “Truly Damned”
6. “Demon Shadow”
7. “Port Darkness”
8. “The Core”
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Per la seconda parte della colonna non solo rimaniamo in Norvegia, ma lo facciamo con un altro pezzo che guarda innegabilmente al passato – per lasciare il segno su un presente radioso e possibilmente costruire un futuro che splendente lo sia altrettanto. Nelle intenzioni.
Solo che da loro proprio non ce lo saremmo mai aspettato. Non che siano la band più irrispettosa o scardinante del pianeta, ma gli Slagmaur sono sempre stati maestri di stranezza industriale  e, a loro modo, di sperimentazione dai tratti avanguardistici (pur generalmente sempre volti ad un’opprimenza principlamente costruita con loop asimmetrici e altri escamotage nonché scelte di suoni care al mondo Industrial). Però quello che abbiamo tra le mani con “Wildkatze” grida “Jesu Død” a squarciagola e senza alcuna vergogna. Dagli Slagmaur? Possibile?
Ancora: non che le intenzioni del gruppo (forse per colpa di una comunicazione in inglese non esattamente limpidissima) siano proprio chiare ultimamente, ma è tuttavia innegabile la sorpresa – anche al netto di uno stop annunciato prima del rilascio di quello che sarà (forse?) l’ultimo album della band prima di dedicarsi alla sola pubblicazione di brani sparsi (??) prima o poi; quel che però ancor di più sorprende è che anche a sforzarsi è compito davvero difficile criticare l’atmosfera e il risultato di ciò che sembrerebbe introdurci come fantomatico singolone di lancio nel mondo prossimamente in arrivo presso una chiesa delle vostre parti aka “Karolls Ovze Horrors” (in altre parole, il quarto disco del gruppo di Fosen in uscita prima o mai probabilmente per Osmose Productions).
Perché ai norvegesi uscirà anche particolarmente facile e forse senza troppi sforzi, ma quel ritmo, quella metrica e nondimeno quella distintiva manina alla chitarra, così ipnotica, trascinante e soprattutto credibile nonostante tutto, può venire da un solo paese al mondo. E anche se non è apparentemente lecito capirci qualcosa di più sull’eventuale futuro della band: benvenuti in Norvegia.

Lo trovate su YouTube.

Tracklist:
1. “Wildkatze”
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Matteo “Theo” Damiani

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