Maggio 2019 – Deathspell Omega

 

Non facciamo a tempo a sbragarci per la fine di un mese sensazionale come aprile che subito ne finisce anche un altro e (possibilmente?) ancora migliore. Il 2019 sta prendendo una piega qualitativamente (e persino quantitativamente!) rosea -o forse sarebbe in questo caso meglio dire plumbea- oltre ogni previsione e maggio non solo riconferma quanto detto un mese fa, nonché precedentemente, ma finisce per essere un mese di quelli che si vedono ogni… mai.
Cosa si può infatti fare e dire se nell’arco di trentuno giorni vengono rilasciati nuovi dischi di Deathspell Omega, Kampfar, Sühnopfer e Misþyrming? E cosa può pertanto fare il vostro amato staff se non semplicemente prenderli e crearci, pari pari e nell’ordine, un articolo sul meglio del mese? Inutile e retorico persino girarci attorno e fare i misteriosi nell’introduzione, perché è già abbastanza incredibile che uno qualunque di questi quattro dischi possa finire per non guadagnarsi la copertina come effettivo disco del mese, considerato peraltro che è stata standing ovation dichiarata e totale per tutti e quattro.
Ovviamente, nemmeno a doverlo dire, l’affollamento di un mese tanto intenso e formidabile ha obbligato a qualche brutta esclusione a cui cercheremo di rimediare con un paio di menzioni d’onore in chiusura; ora però non si perda altro tempo, perché ciò di cui stiamo per parlare rimarrà (o quantomeno dovrebbe rimanere) il meglio che potete sentire per un bel po’ – partendo da sua nera maestà “The Furnaces Of Palingenesia” dei francesi Deathspell Omega, uscito il 24 del mese per Norma Evangelium Diaboli – che così facendo apre e chiude il magnifico cerchio di bellissimi di oggi.

 

 

Le mode vanno e vengono, il genio resta e si manifesta a suo solo piacimento: impossibile non utilizzare attributi declinati alle loro forme superlative massime quando in gioco ci sono i Deathspell Omega, se possibile ancor di più alla luce di “The Furnaces Of Palingenesia” che, mediante una sequela di soluzioni stilistiche indescrivibilmente fuori da ogni grazia divina, si piazza dritto all’apice dei lavori più completi, inquietanti, disarmanti e monolitici per sprezzanza ed insalubre alienazione mai partoriti dall’importantissimo gruppo francese. Cosa aggiungere, del resto, se dire che il settimo full-length di quella che a conti fatti è la band più geniale e importante degli ultimi vent’anni è con ogni probabilità e per molti versi il suo migliore di sempre (per valore persino pronto ad una sfida ad armi pari col fondamentale “Paracletus”) risulta persino poco alla lettura previo ascolto? Nessuno come loro.”

(Leggi di più nelle due colonne dedicate ad altrettanti brani dal disco, qui e qui.)

Le intricate e asfissianti trame di “The Synarchy Of The Molten Bones” si dispiegano rivelando al suo interno un grigio e desolato scenario: il caos lascia spazio alla marzialità, l’incubo alla razionalità, l’individuo alla meccanicismo gerarchico. Ma il paesaggio asettico che pare profilarsi si incrina, rivelando presto il carcinoma putrido alimentato dal paradosso di una società così perfetta da rendere schiavi gli stessi uomini che la compongono: le sinistre dissonanze, sempiterno strumento espressivo dei francesi, si susseguono più rigide e meno caotiche che in passato, spesso sciogliendosi in rallentamenti atmosferici e malsani in cui la parte inferiore dello spettro delle frequenze ribolle e vibra come un fetido liquido primordiale. La produzione magistrale esalta la magnificenza opprimente e opulenta degli ottoni e svolge un ruolo fondamentale nello sviscerare ed acuire i contrasti di un’opera così solenne e depravata; forse solamente l’indiscutibile portata di “Paracletus” priva a “The Furnaces Of Palinginesia” lo scettro incontrastato di una delle discografie più importanti del Metal odierno.”

Senza pietà può essere una buona descrizione associabile al nuovo “The Furnaces Of Palingenesia” rilasciato dai Deathspell Omega, un album che per tre quarti d’ora vi travolgerà come un vero treno in corsa. Difficile trovare una sola traccia che non spicchi o che spicchi sulle altre dato che il disco suona come un blocco unico, inscindibile, un nero ed eclettico monolite basato principalmente su un songwriting di pura classe come la band ha da sempre abituato i propri fan, specialmente nelle uscite più recenti.”

“Se il precedente lavoro si poteva paragonare ad un pugno diretto in faccia (pur sempre in chiave avanguardistica) per durata e costruzione, con “The Furnaces Of Palingenesia” i Deathspell Omega tornano per altri versi alla creazione di un più complesso labirinto, complice una tracklist molto più corposa, in cui attirano, ammaliano e poi annichiliscono l’ascoltatore con le loro più o meno classiche articolazioni sonore nevrotiche e i momenti di ferocia. Lasciate lo scream sporco di Mikko Aspa condurvi immancabile come una perfida guida in questa intricata e nuova manifestazione artistica.”

 

 

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“Ofidians Manifest” dei norvegesi Kampfar. Possibile che un disco simile non sia IL disco del mese? Incredibile ma vero, nonché altrettanto irrilevante una volta ascoltati i superlativi brani che lo compongono: l’ottavo full-length dell’ormai già storico quartetto è stato rilasciato il 3 maggio per Indie Recordings e non poteva davvero uscire loro un disco più ambizioso, emotivo e altrettanto distruttivo: standing ovation numero due.

“Non ve n’era il minimo bisogno, ma i Kampfar si riconfermano con “Ofidians Manifest” maestri indiscussi nonché artisti di prima categoria, di quelli rarissimi che giunti all’apice della fama e dell’acclamazione sono pronti a scegliere di fermarsi o azzannare solo e soltanto in base all’ispirazione più sincera; pertanto non è una sorpresa che un nuovo album sia un ennesimo centro – lo è però sempre il suono dei brani che lo compongono: oscuro più che mai, velenoso come i denti di un serpente, tentatore in eleganza, ferino nonostante maturità e raffinatezza crescenti e senza limiti in composizione e arrangiamento. Realizzare un disco del genere dopo “Djevelmakt” e “Profan” avrebbe dell’incredibile quando al terzo album in carriera; farlo dopo venticinque anni di dischi eccelsi ha del clamoroso. Élite.”

(Leggi di più nella recensione che lo ha eletto martedì disco della settimana corrente, qui.)

La testa decapitata ed esangue di Medusa giace al suolo atterrita e boccheggiante: sì, perché se c’è qualcuno che da sempre, con classe e discrezione, rifugge la pietrificazione gorgonica nonostante gli anni che passano questi sono proprio i Kampfar. Impavidi di fronte al proprio passato, non dimostrano il minimo timore nell’introdurre “Ofidians Manifest” con le stesse urla sguaiate e lancinanti che diedero il via a quel lontano debutto, consci di quel fil rouge che lega i quasi cinque lustri di attività della band e che costituisce la base della loro identità artistica. Ma lo strato nero e ancora fumoso di lava rappresa che avvolge il sound della formazione si fa sempre più spesso e iridescente, la necessaria pausa si riflette positivamente sul risultato finale della composizione: la strabiliante eterogeneità dei sette brani che i Nostri dimostrano nel passare dall’orrorifica e ardita “Dominans” alla squisitezza folkoristica di “Eremitt” li riconferma in splendida forma e aggiunge uno dei capitoli più affascinanti e riusciti della loro opera omnia.”

Impossibile sbagliarsi con i norvegesi Kampfar, gruppo che continua a sfoderare tutta la propria ambizione anche dopo oltre vent’anni dal debutto ufficiale. “Ofidians Manifest” accoglie nuove venature e scenari maggiormente noire rispetto alle uscite più recenti, affievolendo in parte l’impatto immediato del disco durante i primissimi ascolti ma destinandolo a crescere ancor di più man mano che si va ad approfondire l’opera.”

Mentre alcuni poveri stolti (tra cui il sottoscritto) attendevano “Ofidians Manifest” chiedendosi se i norvegesi sarebbero stati capaci di replicare la magia dei tre lavori precedenti, i Kampfar erano rintanati negli angoli più bui delle loro foreste intenti nella realizzazione di uno dei capitoli più cupi e malsani della propria discografia. Seguendo, se vogliamo azzardare un paragone, la stessa traiettoria emotiva percorsa dai Primordial ormai più di un anno fa, la band di Hemsedal passa dalla tetra epica che agitava molti episodi di “Profan” al trionfo dell’oscurità più impenetrabile. Non che in questi venticinque anni i Kampfar abbiano abituato ad orecchiabili melodie da canticchiare sotto la doccia, ma godiamo del lato più grezzo e fangoso del gruppo: i momenti più aggressivi mettono in chiaro la natura a tratti più diretta di “Ofidians Manifest” grazie all’eccellente sezione ritmica e ad un sempre più inumano Dolk, mentre nei passaggi meno tirati i musicisti sfogano le loro finora sopite influenze Doom con risultati veramente notevoli (un plauso va anche alle strepitose prove fornite dalle due guest vocalist). Se avete adorato le ultime prove in studio dei Kampfar, aspettatevi un ascolto forse stilisticamente più “accidentato” ma alla lunga ugualmente riuscito; se invece li avevate trovati troppo opprimenti, girate al largo.”

“Dopo un preoccupante periodo di silenzio durato quasi un paio di anni, in cui si speculava un loro ritiro dalle scene a tempo indeterminato, ecco che ritornano a sorpresa i beniamini Kampfar con “Ofidians Manifest” in cui riversano tutti gli stati d’animo che hanno accompagnato questi anni difficili; non a caso si potrebbe considerare questo nuovo lavoro come il più cinico, il più misantropico, nonché il più ferale della loro discografia. Testimonianza prima sono le urla di Dolk che sputano veleno nelle orecchie degli ascoltatori, seconda l’eleganza dei blast-beat di Ask (che contribuisce anche con l’ugola in “Natt”) e terza i riff rabbiosi, ma allo stesso tempo evocativi, di Ole in cui non manca nemmeno una dose di malinconia e dolore (specialmente nella conclusiva “Det Sorte”) a completare perfettamente un cerchio in cui si elabora il lutto in tutte le sue sfaccettature. Ben tornati o, per citare una delle loro canzoni più famose: let the lambs be wolves, once again.”

 

 

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“Incredibile questo non sia il disco del mese”, parte seconda: “Hic Regnant Borbonii Manes” dei francesissimi Sühnopfer, terzo full-length della regale one-man band di Ardraos uscito l’11 maggio per Debemur Morti Productions, non dovrebbe ormai più essere totalmente nuovo o sconosciuto a chi spulcia queste pagine. Tuttavia, non vi è davvero nulla che possa risparmiare alla sua fiera e brillante personalità la standing ovation numero tre di oggi.

Nobile, maestoso, spettrale, demolitore, dritto alla giugulare come una lama dall’affilata classe cristallina: “Hic Regnant Borbonii Manes” scaraventa l’operato dei Sühnopfer dritto oltre l’orbita del migliore, più oscuro, implacabile, duro e cattivo Melodic Black Metal in circolazione, nonché uno dei più originali e riconoscibili mai sentiti in generale. Dall’autore del già magistrale “Offertoire” era lecito attendersi molto, ma il terzo lavoro che porta la firma del solo Ardraos è un’opera di urticante complessità ritmica oltre previsione, accattivante freschezza compositiva di assoluto rilievo e di un ricco gusto melodico dall’aria classica di profondità e prim’ordine che mostrano un’impareggiabile maturazione sia personale che di genere.”

(Leggi di più nella colonna speciale dedicata alla première italiana del disco e completa d’estratto dall’intervista con Ardraos, qui.)

“Hic Regnant Borbonii Manes” è il disco della definitiva consacrazione dei Sühnopfer nel già ricco pantheon del Metal estremo francese. La tortuosa e chirurgica valanga di riff si rincorre frenetica e serrata, mutando repentinamente e mantenendo per tutta la durata dell’opera un elegante portamento regale pur senza mai perdersi in superflue leziosità, che rischierebbero di guastarne il crudo e fiero incedere. Ogni riferimento pregresso risulta stretto e sorpassato: la scuola melodica svedese non è che un blocco di marmo grezzo sul quale le sue mani elegantemente lavorano e modellano e l’aggettivo “medievale” si svuota del significato solitamente attribuitogli in contesto Black Metal, non perché esso calzi solamente per mera suggestione concettuale, ma perché permea visceralmente la struttura della composizione, frutto di ricerca e continua rifinitura.”

La medievaleggiante creatura di Ardraos ci guida in un immaginario che trasuda il termine Francia da ogni poro musicale (eccezione fatta per la bandiera bianca). “Hic Regnant Borbonii Manes” potrà non essere il disco che brilla per innovazione o varietà di per sé, ma può assolutamente vantare il fregio di un tiro che difficilmente chi scrive ha trovato in altre uscite recenti: assolutamente travolgente e coinvolgente durante ogni singolo minuto che costituisce l’album.”

Forse è ancora troppo presto per dirlo, ma è probabile che maggio sarà ricordato come il mese caratterizzato dalle pubblicazioni più ardue e impegnative, soddisfacenti soprattutto per chi rimane ammaliato da dettagli e atmosfere che motivino a continuare il viaggio. Il terzo full-length di Ardraos è la perfetta incarnazione di questa peculiarità, in quanto ciò che fuoriesce dagli altoparlanti una volta premuto play è un getto continuo di note a velocità quasi sempre elevata che, dall’alto dei suoi cinquanta minuti, rischia di far scappare a gambe levate anche i più volenterosi. Occorre però tenere duro, e basteranno un paio di tentativi affinché le vostre orecchie possano godere appieno dello spadroneggiare dell’anarchico guitar-work che impregna “Hic Regnant Borboni Manes”; le usanze borboniche regneranno incontrastate tramite riff in tremolo picking tanto selvaggi quanto eleganti, che sbriciolano qualsiasi idea di forma-canzone o ripetizione e rendono ogni brano un’epopea di melodie certamente (e purtroppo) molto fugaci, ma che come impietose frustate lasciano segni indelebili sulla pelle e la curiosità di sentire cosa accadrà anche nel solo giro di un imprevedibile attimo.”

“Con ogni probabilità “Hic Regnant Borbonii Manes” è il punto di svolta nella discografia del progetto borbonese, perché il lavoro di fondo è semplicemente metodico, con ogni singolo aspetto dell’opera curato nei più minimi dettagli: così l’antichità e la modernità si mescolano alla perfezione, non solo con il classico tema del Medioevo come portante (più lirico che visivo o banalmente musicale in questo caso), ma anche grazie al lavoro in fase compositiva più profonda di Ardraos, che ha rimodellato a suo piacimento melodie e spartiti originali medievali, ritrattandoli in chiave Melodic Black Metal in un fantastico turbinìo forsennato di ferocia, epicità e misticismo dei tempi oscuri.”

 

 

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“Incredibile questo non sia il disco del mese”, parte terza: la declinazione del personale verbo Misþyrming all’anno 2019, ben quattro primavere dall’uscita di quel sorprendente debutto intitolato “Söngvar Elds Og Óreiðu” che ancora non abbiamo dimenticato, risponde al nome di “Algleymi” pubblicato per Norma Evangelium Diaboli il 24 del mese e con la sua grande diversità si guadagna senza sforzi la standing ovation totale numero quattro.

I Misþyrming cambiano parte dell’approccio che aveva caratterizzato il debutto, replicandone però in pieno il botto con una cannonata di grande freschezza e intelligenza. Melodico, bombastico, ma anche rude e primitivo: se si ha amato e digerito progressivamente negli anni ciò che è stato morigeratamente fatto dal gruppo islandese, “Algleymi” con le sue atmosfere decisamente meno opprimenti e meno disarmoniche (escludendo sporadici momenti più storti e cupi nella prima parte di tracklist e la fenomenale tripletta conclusiva) potrebbe sulle prime spiazzare, riservando tuttavia una misura sempre crescente di sorpresa e soprattutto grande carattere procedendo con gli ascolti, dimostrando al netto contrario non solo una maturazione che li conferma tra i capolista assoluti nel Black Metal della loro nazione per effettivo talento, ma smentendo con un’avvolgente e totalmente soddisfacente prova di forza la ventilata ipotesi che l’exploit primo del gruppo potesse essere soltanto un fuoco di paglia ben piazzato.”

(Leggi di più nella colonna dedicata ad “Alsæla”, tratta dall’album, qui.)

La verità è che se la masnada di proseliti che i Misþyrming hanno raccolto dal 2015 ad oggi si fosse riunita per un primo ascolto collettivo di “Algleymi”, ci saremmo ritrovati davanti uno stuolo di espressioni dubbiose perché rimaste orfane di quelle rabbiose dissonanze che abitavano gli angusti cunicoli di “Söngvar Elds Og Óreiðu”. Ma l’approccio più epico, l’intrusione a tratti imperiosa delle tastiere e le sfacciate digressioni Rock ‘N’ Roll vanno gustati anche per la spontaneità con cui fluiscono: il sound più grintoso e arioso, la produzione piena e curata, non sono che il perno in grado di schiudere un substrato chitarristico estremamente denso e cupo e di districare la caotica tempesta che ci aggredisce pochi secondi dopo aver premuto il tasto play. I Misþyrming sono tornati con la spavalderia di chi conosce i propri mezzi e non intende ripetersi, consolidando la propria posizione al vertice del tanto celebrato Black Metal islandese con un disco fresco e irresistibile.”

Non delude il ritorno degli islandesi Misþyrming, band che si riconferma di grande livello con la pubblicazione dell’atteso secondo full-length. Davvero notevole è il modo in cui le composizioni ruotano attorno ad un’aura Black Metal ricca di sfumature Rock che rendono l’ascolto quasi ipnotico ma allo stesso tempo vivace e catchy. Altamente consigliato se vi siete persi il primo capitolo del gruppo e se cercate un sound islandese totalmente privo di paraculaggine hipster.”

Partite dal mood opprimente di “Ofidians Manifest” e insaporitelo leggermente prendendo in prestito un pizzico più moderato degli svolazzi chitarristici che adornano “Hic Regnant Borbonii Manes”: ciò che state ascoltando ora potrebbe non essere poi così dissimile da quanto contenuto nel sorprendente “Algleymi”. A partire dal comunque già valido esordio datato 2015, i Misþyrming qui aggiustano di un poco il tiro offrendo un lavoro capace di suonare diretto e intrigante senza per questo regredire al più sterile primitivismo. “Silent but violent”, come richiede la nuova scuola islandese, i quattro figuri minacciosi in realtà non si fanno molti problemi ad alternare alle bordate di puro caos anche qualche momento maggiormente riflessivo, mostrando oltre ai muscoli una notevole dimestichezza con fraseggi catchy e le possibilità che ne derivano. Non di rado ci troveremo a seguire con vivo interesse il dischiudersi di melodie dal carattere talvolta malinconico e talvolta vagamente epico, irretiti per oltre tre quarti d’ora da queste sirene intente a guidarci verso l’inevitabile tragedia.”

“C’erano molte, moltissime aspettative per un nuovo album dei giovani islandesi Misþyrming, complice anche la bellissima “Hof” posta in uno split album del 2017 coi conterranei Sinmara che lasciava presagire grandi cose. “Algleymi” fin dall’annuncio le ha alzate, sopratutto per il fatto di essere pubblicato da una signora label come la Norma Evangelium Diaboli, ma il gruppo le ha mantenute tutte, superandole anche di gran lunga, in un album dove si raggiunge un equilibrio lodevole tra fredde melodie e momenti più roventi, crudi e ferali. La buona produzione contribuisce alla riuscita dell’equilibrio spiegato, non da ultimo per i delicati strati di tastiera ben inseriti, che conferiscono maggiore atmosfera al tutto.”

 

 

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Se ricordate, assorti e beati al cospetto della qualità riservataci dall’indimenticabile ed indimenticato aprile, soltanto un mese fa, avevamo chiuso il recap chiedendoci sornioni se il mese che stava per arrivare sarebbe stato all’altezza; era una domanda legittimissima, per quanto in larga misura sapessimo già lo sarebbe probabilmente stato, ma era davvero difficile prevedere lo avrebbe potuto forse superare. Non vi è quindi nemmeno più bisogno di rispondere a quell’interrogativo oggi; i quattro dischi protagonisti dello scritto che state finendo di leggere lo fanno al posto nostro e molto meglio di quanto avremmo potuto mai fare noi con mille altre parole.
Ma vi abbiamo promesso in apertura un paio di altre menzioni, giusto? Pertanto procediamo con la prima esclusione che ha fatto dormire sonni disturbati al nostro Feanor negli ultimi giorni: “Far” dei nostrani Stormlord, uscito anch’esso il 24 ma per Scarlet Records, a suo giudizio un ritorno sorprendente e ispirato che li vede spingere sull’acceleratore in aggressività molto più che nel recente passato discografico; fugace ma onorevole menzione anche ai Lice di Niklas Kvarforth (Shining) e J. (Teitanblood) che confezionano in “Woe Betide You” (Season Of Mist, 10 maggio) un disco originale e ambizioso, sicuramente non privo di difetti o momenti discutibili, ma ricco di spunti sperimentali non da tutti e che avrebbe meritato probabilmente qualche ascolto più attento di quelli che gli abbiamo riservato.
Ora arriva il periodo estivo, solitamente più calmo discograficamente parlando; aspetto in questo caso non trascurabilmente gradevole per potersi godere al meglio tutte le prelibatezze arrivate nei lettori durante gli ultimi mesi – ma con un 2019 così imponente sembra non essere mai detta l’ultima parola, e difatti qualche uscita di rilievo nonché sicuro interesse per chi vi scrive inizia già a profilarsi all’orizzonte (buttate un occhio qui). Chi vivrà ascolterà?

 

Matteo “Theo” Damiani

 

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