Kampfar – “Ofidians Manifest” (2019)

Artist: Kampfar
Title: Ofidians Manifest
Label: Indie Recordings
Year: 2019
Genre: Black Metal
Country: Novegia

Tracklist:
1. “Syndefall”
2. “Ophidian”
3. “Dominans”
4. “Natt”
5. “Eremitt”
6. “Skamløs!”
7. “Det Sorte”

Inarrestabili.
Eppure, a ben vedere, la storia ormai più che ventennale dei Kampfar non è assolutamente nuova a periodi di stasi che somigliano a veri e propri punti d’arrivo, buchi neri in cui la proverbiale luce in fondo al tunnel sembra impossibile da ravvisare.
Quanto, ma soprattutto come, pesano quindi momenti simili sulla vita di un gruppo? Possono finire per divenire indispensabili catalizzatori d’ispirazione? La stessa band non ha mai fatto mistero riguardo l’incertezza o la diretta assenza di vita durante i break intercorsi tra le pubblicazioni di “Fra Underverdenen” e “Kvass”, prima, o quella -se non temporalmente, strutturalmente- ancor più rilevante tra “Heimgang” e “Mare” che vide la dipartita dello storico chitarrista Thomas Andreassen.

Il logo della band

Da quel momento di anni ne sono ormai passati quasi dieci e la band norvegese capitanata dal carismatico Dolk ha, nel frattempo, cominciato e concluso una trilogia che ha visto progressivamente il suo sound farsi sempre più elegante e oscuro, intimista nonché ricercato, pur senza perdere un briciolo di quella efferatezza che contraddistingue il Black Metal dalle inconfondibili tinte pagane in riffing e atmosfere dei nostri fin dal lontano debutto; la freschezza prepotente di “Profan” nel 2015, complice sibillina l’assurda qualità a stretto giro del suo predecessore “Djevelmakt”, sembrava veramente essere un punto d’arrivo compositivo per i Kampfar – non sorprende, pertanto, che l’inattesa e non meglio chiarita o specificata uscita di scena della (fino a quel momento) sempre più attiva band abbia spaventato i fan in tutto il globo.
Indeterminatezza, angoscia, malattia, drammi personali – più semplicemente la vita; ma i Kampfar con il loro allontanamento ricercato e necessario hanno palesato al mondo ben più di una sfortunata ed opprimente concatenazione di eventi di natura personale e professionale. “Ofidians Manifest” non è infatti solo reincarnazione e cambiamento necessario come parafrasi delle celebri metamorfosi di Ovidio (la cui vicinanza morfologica al tema dell’intestazione dell’album è più di una piacevole coincidenza), o la muta della pelle vecchia e morta di quel rettile che dona direttamente il titolo al disco; l’ottavo full-length della band di Hemsedal è la dimostrazione, o lezione in sette capitoli, che l’assenza di costrizioni social e di qualunque ragione fa miracoli sulla creatività e sull’indipendenza che ne sta alla base. Un concetto sulla carta così ampiamente condiviso e riconosciuto quanto in realtà assolutamente mancante di messa in pratica da regolarmente chiunque: non dire nulla se non hai nulla da dire; non aggiungere nulla che non sia strettamente indispensabile; non farti vedere in giro se non sei in grado di sopportare e sconfiggere il carico di attesa degli sguardi che ti circondano. Ma soprattutto: qualunque cosa tu faccia, falla per te stesso e segui le tue regole.

La band

In quest’ottica il titolo e i suoi sette capitoli assumono tutto il carico di significato pensato, e ancor più sentito, dalla band – un manifesto eretto in onore di quel serpente tentatore che sussurra all’orecchio e suggerisce resa (si possa questa osservare indifferentmente come asservimento a logiche aliene all’estro artistico, alla fama, alla routine o invece all’atto creativo comandato in generale) e che viene prima scacciato ma poi allo stesso tempo omaggiato perché è proprio il suo sibillino ed insistente vociferare a permettere previa sconfitta una rinascita ancor più vigorosa.
Per aspera sic itur ad astra?
Eppure “Ofidians Manifest” non è propriamente un album di rivalsa, di speranza o con una conclusione a lieto fine: sette capitoli di ambizione ma privi di riconquista finale che non sia piuttosto una ricca catarsi, o comprensione e accettazione, abbandono, altresì carichi di sconforto e morte (le aspettative del vessillo alto di “Syndefall” non sono tradite), che proseguono in quella evoluzione calcificata nei tre dischi precedenti verso una direzione sempre più nera, sofisticata, elaborata, di sicura eleganza, classe e conseguente magistrale sprezzatura epica – senza tuttavia mai suonare artificioso, innaturale o snaturato di quell’essenza genuina e rampante che contraddistingue l’operato dei Kampfar in qualunque forma.
Non fosse per l’altissimo valore delle singole sette composizioni, della grandiosa varietà di dettagli che permette ad ognuna di esse di ritagliarsi non solo un posto nella tracklist dell’ottimo disco ma uno di grande personalità nell’intero corpus del gruppo, si direbbe infatti che è proprio questa la più grande qualità di “Ofidians Manifest”: mutare, evolvere, migliorare una formula rifuggendo le tentazioni più sicure, più facili e consuete, continuando a calcare la propria personale strada fedeli e sinceri a ciò che dice il cuore e nient’altro – e proprio per questo crescere.
Ma sarebbe altamente riduttivo: le prove vocali, tutte, lasciano senza parole. Un Dolk letteralmente invasato è soltanto il capobanda (sia quando morde, sgolato, velenoso e sporco, sia quando maestoso nella potenza dei puliti), Ask Ty segue impreziosendo in longevità una varietà di registro e risultato che sembra quasi innecessaria di fronte al lead-vocalist, per non tacere della stupefacente Agnete Kjølsrud ospite in “Dominans” che incarna alla perfezione quell’ofidia tentatrice con tutto il veleno che conserva (raramente nel Metal si può godere di un così magistrale e performante impiego della voce femminile, un risultato raro che riporta alla mente i momenti più caustici e storti della Christmas insieme agli apparentemente lontani Cult Of Luna).
La musica, dal canto suo, rasenta il sublime per riuscita e sorprese: irresistibile, nerissima va a comporre il disco essenzialmente più cupo (ma allo stesso tempo tra i più approcciabili?) del gruppo, senza rinunciare né alla grezza ferocia distruttiva di “Profan”, né all’eleganza mid-tempo di “Djevelmakt” e annessi squisiti arrangiamenti (enorme l’importanza nella cura di ogni strumento tra cui violoncello, pianoforti e l’imponenza degli ingressi di tastiere e sintetizzatori), riassumendoli e portandoli alle estreme conseguenze sia nelle parti più veloci che in quelle -davvero da maestri- in cui la sezione ritmica Ask/Jon rallenta e su cui le sei corde di Ole possono intessere i loro ricami più fantasiosi e pieni di perizia melodica (“Ophidian” e svariati altri episodi), parimenti quando commutano l’infuocata tradizione folkloristica in modi sempre meno scontati e più nascosti (i toni più lampanti in questo senso sbucano sui cori della completissima e dantesca “Eremitt”), o quando è portato ad annerire il tutto verso le armonie minori in pura sinergia con il gusto raffinato e melodico del batterismo (in modi differenti in “Skamløs!” e “Natt” su tutte), anche per questo incredibilmente memorizzabile.
Il risultato è una prova di rara impeccabilità sotto ogni punto di vista, che quasi paradossalmente non manca di feeling o emozione finendo -al contrario- per apporre la firma sul materiale, nel complesso, più largamente emotivo di tutta la discografia dei Kampfar (“Det Sorte” potrebbe -ma non dovrebbe- bastare praticamente da sola, oltre a confermare l’assoluta capacità del gruppo di plasmare finali da urlo per i suoi dischi; questa volta più raffinato, atmosferico e luttuoso che mai).

È davvero il minimo, pertanto, riconoscere in “Ofidians Manifest” i germi di una inarrestabilità che non sembra conoscere freni, di un talento cristallino e di un affiatamento tra musicisti, artisti ed esseri umani che trascende la musica e la creazione di note per andare a forgiare quello che per i Kampfar è un effettivo testamento alla carriera; quel disco che in molti, troppi, ambiscono a scrivere e realizzare, ma che in pochissimi eletti finiscono per pubblicare in una vita intera. Pertanto, giù il cappello e in alto gli applausi per una band la cui fame artistica, la cui importanza e consistenza, dopo venticinque anni, va ben oltre la mera longevità ma continua piuttosto a crescere imperterrita ad ogni indispensabile e fondamentale uscita.

Matteo “Theo” Damiani

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