Febbraio 2019 – Nasheim

 

Febbraio, ti abbiamo amato. Sul serio. Sei finito come tutte le cose belle, è vero, ma ci hai lasciato una scia incredibilmente consistente di grandissimi dischi che al contrario difficilmente dimenticheremo e tra cui ci siamo ritrovati (seriamente!) in difficoltà a scegliere per l’usuale articolo con la selezione del meglio del mese. Ti saremo grati per un bel po’.
Ebbene sì, mettetevi il cuore in pace fin da ora voi che state leggendo, perché ogni album dei quattro che trovate premiati e consigliati nella selezione di oggi avrebbe ampiamente meritato la copertina e di essere protagonista assoluto di un suo articolo di questo tipo in un altro mese. Sono per di più -sicuramente- assenti alcuni grandi esclusi tra quelli che possono essere stati invece i vostri preferiti. Meglio così, no? Quelli in fondo li conoscevate già.
Confessiamo candidamente di averne in ogni caso accantonato a malincuore qualcuno anche noi (o almeno, qualcuno di noi); tuttavia, su chi meritasse il primo posto siamo stati abbastanza sicuri e concordi. Trattasi del plurinominato (anzi, in questo caso nominato proprio da ogni redattore) “Jord Och Aska” degli svedesi Nasheim, uscito ufficialmente il 22 febbraio per Northern Silence Productions.
La one-man band di Erik Grahn e di quelli che sono i suoi collaboratori per l’occasione ci ha regalato un viaggio di emozione e personalità purissima che, dopo ad aver superato le nostre migliori attese dopo il già fenomenale “Solens Vemod” del 2014, ci auguriamo stregherà anche molti di voi; ma è comunque solo il primo di una serie di album gentilmente offerti da un mese che difficilmente troverà pari tra i prossimi (tanti, tanti…!), perlomeno per quanto riguarda le più diverse e ottime sfumature ed interpretazioni di Atmospheric Black Metal. Ma non si è certo limitato a questo: vi ha aggiunto dello splendido folklore a profusione e anche un pizzico di rumoristica difficoltà d’approccio che non guasta mai.
Procediamo quindi alla scoperta del primo dei quattro…

 

 

Ci sono dischi in grado di lasciare, se vissuti senza fretta e nel profondo, cicatrici indelebili nell’anima dell’ascoltatore. “Jord Och Aska” è uno di questi. Dalla terra, bruciando ardente fino a diventare nient’altro che cenere; da fertile cenere, rigenerandosi e tornando alla terra, in un tripudio di classe e originalità che sfondano di gran lunga e senza la minima difficoltà i confini dell’Atmospheric Black Metal con innegabile unicità, i Nasheim perfezionano e poi superano una formula difficile da credere migliorabile dopo i risultati di “Solens Vemod” e l’arricchiscono di colori, stile, maturando ulteriormente, creando un unico mastodontico e ininterrotto fluire di oltre quaranta minuti d’assoluta intensità e spessore, partendo da una semplice e apparentemente insignificante idea – ripetendola, integrandola, malleandola, coltivandola fino a diventare bellezza struggente da far male. Una di quelle folgoranti che a volte possono cambiare intere carriere. O quantomeno dovrebbero.”

(Leggi di più nelle due colonne dedicate ad altrettanti brani dal disco, qui e qui.)

Con -apparente- estrema semplicità e naturalezza gli svedesi Nasheim ci regalano un’ode di notturna ed elegante melanconia. Le tre composizioni interconnesse ed inseparabili che costituiscono “Jord Och Aska” sono di una classe cristallina e denotano un costante stato di riflessione e introspezione che si riversa senza filtri negli animi di chi ascolta. Inevitabile menzione particolare per la conclusiva “Sänk Mig I Tystnad”: brano di rara bellezza che difficilmente fallirà nell’intento di emozionarvi.”

“Jord Och Aska” è terreno, sofferente e vitale: l’infinita progressione che nasce dalle continue variazioni di una linea melodica si protrae per tutta la durata del disco scavando solchi sempre più profondi nell’anima di chi la fa sua, di chi riesce a smarrirsi in un’uscita unica; secondo capitolo di una discografia di cui non ci si poteva non sentire orfani dall’uscita del debutto. Si ha l’impressione di ritrovarsi osservatori esterni di un processo di maturazione personale, in cui lo stesso dispiegarsi del pezzo rappresenta il tortuoso percorso di un essere vivente che muova i suoi faticosi passi su questa Terra e che una volta raggiunta la piena consapevolezza di sè si abbandoni all’ultimo brusco spiro, straziante, doloroso e svuotante per noi spettatori, ma liberatorio e agognato per natura. La classe dei Nasheim e un songwriting curato nel più minimo dettaglio ci pongono dinnanzi ad una delle sicure migliori uscite del 2019, nonché una delle più intense e sublimi opere degli ultimi anni.”

Non dev’essere stato facile uscirsene con quasi tre quarti d’ora di ottima musica utilizzando come base d’appoggio una linea melodica di quattro note in croce; ma con “Jord Och Aska” il nostro Erik Grahn propone esattamente questa ardita formula, arricchita da un songwriting di altissimo livello. Il flusso continuo del disco, composto da tre simbolici pezzi ma unicamente percepibile come un solo blocco grazie a fraseggi ricorrenti e assenza di pause tra un brano e l’altro, non lo rende paradossalmente affatto pesante all’ascolto ma ne esalta anzi l’atmosfera a metà tra l’onirico e il drammatico: sensazioni che molte band cercherebbero di veicolare tramite melodie tronfie e over-the-top, mentre al compositore svedese bastano una manciata di secondi e quattro note per demolire emotivamente l’ascoltatore. Il tutto con un’eleganza esecutiva inimitabile.”

“Ritorna dopo ben cinque anni di attesa una delle realtà underground più interessanti per quel che riguarda l’Atmospheric Black Metal, ovvero il progetto della mente svedese Erik Grahn che risponde al monicker Nasheim. “Jord Och Aska”, proprio atmosfericamente parlando, ci presenta un’evoluzione in diverse differenze rispetto al precedente “Solens Vemod”: l’essenza del suono si fa meno monolitica, meno opprimente, ma allo stesso tempo riesce nel compito di affermarsi anche più malinconica e intimista. Erik si destreggia particolarmente bene nell’alternare il suo scream e la sua voce pulita, che proprio in questo nuovo album raggiunge l’apice in tutta la sua più tragicità espressiva.”

 

 

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L’imperdibile quarto capitolo dell’ormai appassionante saga scozzese Saor, intitolato “Forgotten Paths”, uscito il 15 febbraio per Avantgarde Music. Andy Marshall non necessita ormai di presentazioni: conosciuto dagli appassionati come garanzia di assoluta qualità, sfida nuovamente sé stesso e porta la formula oltre quel tanto che basta per scrivere un altro album memorabile. Numericamente, persino un ex-aequo con gli svedesi.

“Forgotten Paths” è un compendio stilistico di tutto ciò che di meglio lo scozzese ha fatto nei dischi precedenti; recuperando il feeling più aggressivo del debut e migliorandolo con i pregevolissimi risultati compositivi raggiunti nelle ottime prove passate, il materiale è pertanto portato a un livello di maturazione e rifinitura notevolissimo. I tre effettivi lunghi brani che compongono l’album (un po’ più breve del solito) spingono per essere tra il materiale migliore mai composto -e soprattutto, realizzato- a nome Saor, pescando anche dalle sperimentazioni non unicamente limitate al progetto principale di Marshall. Il risultato è con ogni probabilità un disco che offre i nostri al pieno meglio delle loro possibilità: magari senza rischiare eccessivamente, ma scrivendo sicuramente musica immediatamente distinguibile, sentita e graffiante.”

(Leggi di più nelle due colonne dedicate ad altrettanti brani dal disco, qui e qui.)

Laddove “Guardians” in parte difettava, “Forgotten Paths” convince appieno: snellito degli ingombranti e stucchevoli eccessivi contrappunti di chitarra, il sound si rinvigorisce, saldo e ruvido sul rinnovato sottofondo di cupo layering. L’apporto grandioso dell’impianto acustico, ora fondamentale in ogni traccia e mai abusato, s’integra perfettamente con la sua funzione evocativa, riespressa nella migliore delle sue forme e in grado di dipingere paesaggi e atmosfere lontane nello spazio e nel tempo, elevando ai massimi livelli quel sentimento di arcaica astrazione che da sempre suscitano le composizioni della formazione scozzese. Aggiustando e ponderando in base alle esperienze passate, scegliendo forse scaltramente dei capaci ospiti vocali e un minutaggio contenuto, Andy Marshall ci offre quaranta minuti che vanno a posizionarsi fra le massime espressioni contemporanee di Black Metal atmosferico.”

Ritorno di gran carriera per gli scozzesi Saor. La band evidenzia un importante miglioramento compositivo e qualitativo, in particolare per quanto riguarda la resa sonora. Anche il songwriting appare più ispirato e le melodie risultano più evocative, così come anche il cantato che è fattualmente meno associabile ad un abbaiamento. I tre principali brani più outro che costituiscono “Forgotten Paths” sono un vero e proprio piacere; l’unica pecca riscontrabile è data dalla sensazione di trovarsi di fronte a tre lunghi, ricchi ed ottimi singoli, senza che tuttavia ci sia un’effettiva sensazione di evoluzione tra le canzoni.”

Con la costante crescita dei consensi e l’ulteriore visibilità garantita dalle ancora sporadiche esibizioni on-stage, c’era il rischio che questa nuova prova in studio soffrisse del proverbiale pilota automatico di una band ormai saldamente sulla cresta dell’onda. Anche se il feeling principale non si discosta poi molto da quanto già ascoltato, specialmente sul precedente “Guardians”, “Forgotten Paths” è un’ulteriore prova dell’innegabile classe compositiva di Andy Marshall quando spinge al massimo il pedale della melodia più epica ed avvincente. Escludendo infatti i cinque minuti scarsi dell’outro, il resto dell’album consiste in un’impressionante sequenza di momenti da ricordare; siano essi riff spumeggianti come quello posto in apertura o episodi più quieti, ma ugualmente da pelle d’oca, grazie ai quali l’attenzione dell’ascoltatore rimane costante per oltre mezz’ora in attesa della prossima pensata del trovatore scozzese.”

“Il nuovo e quarto full-length “Forgotten Paths” per certi versi può essere considerato come un perfetto sequel di “Roots” (primo album del progetto scozzese che fu pubblicato col primo monicker Àrsaidh) ed è la prova che le prosecuzioni (anche quando involontarie) possono essere all’altezza del primo capitolo, se non addirittura superiori. Tutto ciò che era infatti presente in “Roots”, sotto forma di diamante ancora grezzo, viene tramite esperienza ripresentato in una nuova veste di brillante raffinato: con una produzione migliore, con la conferma di uno stile molto personale in cui si mescolano variegate le emozioni durante l’ascolto, tra malinconia, rabbia e romantico patriottismo. Impreziosito dalla prova vocale di Neige nella title-track e dalla soave voce di Sophie Rogers nel ritornello di “Bròn” (autentico cavallo di battaglia), il disco è un’avventura che parte spedita per poi finire con la dolcezza di “Exile” alla fatidica conclusione del viaggio.”

 

 

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Standing ovation dello staff per i campioni estoni Metsatöll, che con il nuovo attesissimo “Katk Kutsariks” (uscito incredibilmente autoprodotto settimana scorsa dopo l’ormai prevedibile fine della firma con un’etichetta orribile come Spinefarm Records) giungono a quota otto celebrando vent’anni di carriera con uno dei loro migliori lavori di sempre; sorprendendo e ribadendosi con diverse novità all’assoluto vertice dei maggiori e più unici interpreti Folk Metal di sempre.

Un disco Folk Metal che definire tale è altamente riduttivo: concettualmente ricercato, ritmicamente progressivo, oscuro ma brillante, ricchissimo di qualità e varietà stilistica, modulazioni di colori e umori che si traducono in sincera diversità dall’inizio alla fine. Il semplice, onesto e raffinato eroismo dei quattro musicisti è temprato dal freddo pungente delle foreste estoni durante la stagione invernale, dalla magia tetra degli acquitrini scintillanti durante le cangianti estati e dalle suggestioni cupe striscianti nelle macabre storie di quel folklore nel sangue di chi combatte fino all’ultima goccia per tramandarle e rendere loro l’onore che meritano; chi ha già avuto il piacere di godere di un album dei Metsatöll sa bene quali inimitabili atmosfere (dal visuale al musicale) questi siano in grado di creare e quali storie raccontarvi; quel che non sa è che quella tramandata nell’eccelsa scrittura delle dodici tracce di “Katk Kutsariks” s’infiltra nella loro illustre -ed invidiabile- discografia scalandola da subito come una delle loro prove più complete, variopinte, trascinanti e riuscite. Forse, senza esagerare, davvero la migliore. Grandiosi.”

(Leggi di più nella colonna di domenica dedicata alla title-track “Katk Kutsariks”, qui.)

Quasi inaspettatamente ci ritroviamo un’altra volta rapiti dalle variopinte e movimentate vicissitudini del folklore estone, narrate dalle vigorose e famigliari corde vocali di Markus: i racconti di un popolo sì fiero e antico, ma spesso svuotato e sbiadito da serpeggianti e umbratili sciagure, si traducono in musica in una delle release più varie e riuscite dei Metsatöll. Ormai pienamente consci dei propri mezzi, ci scaraventano sul volto un dinamismo sfrenato, capace di variazioni frenetiche cadenzate dal massico riffing Heavy, che più volte sfocia con rabbia in galoppanti, abrasive virate Black. Se l’etichetta Folk Metal, dei quali i Metsatöll si ergono instancabili araldi forti di un apparato acustico quanto mai organico nella forma canzone, rischia di rimanere non solo fortemente fuorviante ma addirittura preventivamente indigesta per qualcuno, va esplicitato che sarebbe semplicemente stupido perdersi l’irresistibile e cangiante compendio di tradizione, dedizione e originalità che una band all’apice della sua forma artistica è in grado di esprimere.”

Mentre i lavori di Saor e Nasheim concentrano la loro poetica sul lato più prettamente atmosferico, con il trionfale ritorno dei Metsatöll questo febbraio ci regala anche qualcosa di più muscolare e graffiante, come da tradizione per il gruppo di Tallinn. La sezione ritmica svolge un lavoro eccellente rendendo il disco dinamico e dotato di un ritmo avvincente, specialmente quando la velocità aumenta e la testa inizia irrefrenabilmente a dondolare a tempo. Ma come ogni proposta Folk che si rispetti, è nella descrizione sonora della propria terra che risiede il punto focale che dona personalità all’act in questione: e potete stare sicuri che i cinque anni di silenzio non hanno minimamente intaccato l’innata capacità degli estoni di riprodurre le suggestioni delle campagne Nord-Est europee, le loro sfuggenti superstizioni cantate dal sempre eccellente Markus Teeäär.”

“I Metsatöll sono uno di quei pochissimi gruppi Folk Metal che vale la pena ascoltare in questi ultimi anni, specialmente ora che la moda del filone sembra ormai tramontata; ragion per cui gli estoni avevano tutti i motivi per presentare ancora un nuovo lavoro degno di nota, dopo il meno esaltante “Karjajuht” di cinque anni fa. Ci sono riusciti? Totalmente, perché “Katk Kutsariks” è un lavoro assolutamente splendido, in cui il loro tipico stile di Folk Metal viene contaminato da altri generi musicali, dove ad esempio è impossibile resistere ad alcuni riff di matrice Thrash Metal ormai perfettamente integrati, o ai continui, inaspettati ed improvvisi blast-beat della batteria (particolarmente notevole e dinamico il lavoro dietro alle pelli del nuovo batterista). L’album è tra l’altro realizzato coi fondi per la cultura del loro paese, ciliegina sulla torta che conferisce al tutto un bel sentore di folklore nel narrare con attaccamento la propria nazione.”

 

 

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Infine, un altro disco che in un simile articolo di qualunque altro mese avrebbe sicuramente conquistato il suo meritatissimo primo posto. Fa quindi quasi male al cuore vedere il valore degli straordinari debuttanti danesi Morild sul fondo della lista, perché il loro “Så Kom Mørket…” (fuori dal primo del mese via Indisciplinarian Records, per il momento incomprensibilmente solo in vinile) è una delle cose più emozionanti e particolari uscite negli ultimi tempi.

Il debutto dei danesi Morild ci regala un fantastico viaggio tra atmosfere inesplorate, oscure, a volte spaziali ed evocative ma sempre graffianti ed in grado di mantere alto il nostro interesse: qualità piuttosto importanti (ma rare) tra chi si vuole distinguere nel filone di Black Metal atmosferico. La traccia di apertura potrebbe trarre in inganno per la sua scarsa definizione sonora, ma tutto ciò che viene dopo è un vero e proprio muro sonoro trascinato (per citarne solo alcuni) da un significativo comparto vocale, da efficaci strutture ed approcci melodici di chitarra, ma soprattutto da ambientazioni indubbiamente affascinanti.”

Rumorosi, strazianti, roboanti: i danesi Morild compongono con “Så Kom Mørket…” un disco per cui le descrizioni si sprecano: un piccolo grande gioiello che più che un debutto è già un’affermazione per grandezza di stile e numero d’idee. Se poi vi aggiungiamo anche un suono acqueo, freschissimo e indipendente tra Black atmosferico, Noise, dettagli psichedelici, riverberi assordanti, vocals da unghie sulla lavagna, eclettismo e sperimentazioni tra ovattato etere ed onde di fisicità… Il risultato non può che essere uno solo: un intrigante ed assolutamente coinvolgente viaggio in cui le affascinanti luminescenze a capolino fra le ombre del Mare del Nord diventano una metafora poeticamente esistenziale.”

(Leggi di più nella colonna di domenica scorsa dedicata a “At Dø Eller Blive Fri”, qui.)

Se la timida Danimarca è sempre stata poco presente fra queste pagine, state certi che da oggi avrà, almeno in casi come questo, puntato un occhio di riguardo: a stagliarsi spavaldo fra le uscite più interessanti di febbraio vi è infatti il fascinoso estro dei giovani Morild, i cui pattern musicali si intrecciano, convergendo e rincorrendosi in pieghe e soluzioni ritmiche ascrivibili alle frange più moderne ma sgranate del Black Metal. La furia del chitarrismo e l’aggressività della voce iper effettata s’infrangono come flutti d’acqua gelida sull’onnipresente atmosfera rarefatta e ovattata dei sintetizzatori, restituendo atmosfere eteree e dal suggestivo feeling onirico. Un debutto che lascia senza fiato per facilità di espressione, capacità compositiva e spiccata personalità: ne sentiremo sicuramente parlare.”

 

 

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Insomma, questo monumentale mese sembriamo averlo dedicato in particolare allo svisceramento di questi quattro dischi -diversissimi e ugualmente affascinanti- che si sono scontrati in artistica amicizia e soffiati a vicenda continuamente quella copertina iniziale, pur meritandola nella pratica tutti senza la benché minima ombra di dubbio. Consoliamoci innanzitutto scoprendoli o riscoprendoli, ma anche parafrasando quel detto (effettivamente quanto mai attuale e sensato) per cui, in fondo, perdere contro il migliore non suona affatto come una sconfitta.
Del resto questo è solo un nostro piccolo gioco per consigliarli, e anche se sicuramente dispiace che tre di questi non abbiano guadagnato quell’illusorio primo posto, quel che conta è che non sia stato loro negato questo minimo spazio per ciò a cui serve; in ogni caso, chi poteva aver sentito mancare quel qualcosa in più a gennaio ora non potrà proprio lamentarsi – come invece sta facendo dietro le quinte il nostro Caldix che avrebbe voluto includere oggi anche i Vanum, il cui apprezzatissimo secondo full-length è fuori per la stimabile Profound Lore Records con il titolo “Ageless Fire” (fatto che comunque gli ha risparmiato la scrittura di un quarto commento e rivalutare pertanto la delusione per l’esclusione degli statunitensi dai runners-up).
Ma nella vita di cose ne vogliamo tante. Non sempre accadono. Potrebbe però intanto succedere che marzo non conceda minimamente tregua… Ci credete?

 

Matteo “Theo” Damiani

 

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