Saor – “Guardians” (2016)

Artist: Saor
Title: Guardians
Label: Northern Silence Productions
Year: 2016
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Scozia

Tracklist:
1. “Guardians”

2. “The Declaration”
3. “Autumn Rain”
4. “Hearth”
5. “Tears Of A Nation”

Se mi chiedessero quali sono i progetti che ho visto crescere e guadagnare favori più velocemente negli ultimi anni, sicuramente tra i primi della lista figurerebbero i Saor.

Il logo della band

L’ormai ben noto progetto scozzese di Andy Marshall torna sugli scaffali a distanza di due anni dal secondo album, “Aura”, con un terzo disco intitolato “Guardians” ragionevolmente carico delle aspettative di un crescente numero di estimatori, gravo in definitiva del compito di bissare o superare la qualità dei precedenti e apprezzati lavori.
Il nuovo full-length è anche questa volta distribuito dalla tedesca Northern Silence Productions e, come in “Aura”, ritroviamo alla consolle l’americano Spenser Morris (questa volta con il doppio ruolo di missaggio e mastering).
L’uscita è stata annunciata con un anticipo francamente esagerato, così come lo sono le tre anteprime rilasciate (ad oggi) su sei brani complessivi. Di conseguenza, molti dei lettori sapranno già esattamente cosa aspettarsi in fatto di sonorità da “Guardians”. Fortunatamente, pur senza particolari stravolgimenti, le sorprese nel resto del disco sembrano non mancare.

Andy Marshall

Ad una rapida occhiata notiamo che la durata complessiva non differisce quasi minimamente da quella del precedente capitolo, non ricalcando solo il numero preciso di brani ma bene o male anche la loro durata.
La title-track, con una leggera ma incisiva introduzione arpeggiata di chitarra riverberata in pulito e strumenti acustici, tra cui figurano per la prima volta in maniera così insistente le cornamuse scozzesi (distinzione tutto sommato inutile ai più, dato che l’utilizzo piuttosto elementare non le farà purtroppo differire minimamente, ad orecchio ineducato, dalle più canoniche abusate nel resto del Folk Metal), accoglie l’ascoltatore tra le spire variegate degli intrecci di chitarre soliste che ricoprono a arricchiscono sostenute ritmiche ronzanti e blast-beat.
Il chitarrismo solista, quasi assoluto protagonista del primo brano, sarà in realtà una costante importante del disco. Nonostante l’ impiego più ampio che in passato, il pregio è senz’altro quello di aver azzeccato ottime melodie, fermandosi appena prima di risultare eccessivamente ridondante. Un altro particolare immediato è il batterismo dal taglio più moderno (questa volta affidato a Bryan Hamilton dei connazionali Cnoc An Tursa), non sempre perfettamente integrato con le emozioni e le sensazioni arcaiche e malinconiche trasmesse. In particolare, i colpi di pedale sul kick, partecipi più volte nei rallentamenti, non vanno ad arricchire il disco ma a straniare per brevi momenti l’ascoltatore: se in “Aura” gli stacchi più lenti erano anche tra i più pregevoli, non si può dire esattamente lo stesso della totalità dei presenti in “Guardians”.
“The Declaration”, rilasciato come primissima anteprima, è uno dei brani più vari del disco e mostra tutto il suo lato più cupo fin dall’inizio. Lo stacco rallentato per favorire la crescita di apprensione qui è perfetto, marcante l’emotiva ripresa strumentale -tra le migliori composte dal Nostro– dove gli strumenti acustici (fiati e violini) sono impiegati con rara bravura dall’ospite John Becker.
Le parti cantate, in ognuno dei cinque brani, sono ridotte all’osso rispetto al passato e posizionate sempre nella prima metà, rendendo evocativamente strumentali tutte le sezioni finali: non ci è dato sapere se per presa di coscienza riguardo le abilità tutto sommato limitate (comunque discretamente appropriate) di Andy Marshall in fatto di screaming, o per via del fatto che ogni testo del disco sia preso dalla letteratura classica scozzese. In ogni caso l’esperimento può dirsi positivamente riuscito e in “Autumn Rain”, ad esempio, troviamo le parole di “Culloden Moor” (originariamente di Alice Macdonell) a rendere liricamente la malinconia di un paesaggio brullo e desolato, rappresentato parallelamente sul pentagramma tramite un più delicato mid-tempo impreziosito da un break centrale tra i più riusciti dell’album.
Segue “Hearth”, ed il neologismo è presto spiegato: il pezzo presenta somiglianze stilistiche con “The Awakening” dal precedente disco ma è il primo (ed unico) a contenere un ritornello orecchiabilmente corale in cui viene cantato -con fervente e quasi sibillino nazionalismo à la Burns– il sentimento di appartenenza alla propria patria; in chiusura troviamo invece una “Tears Of A Nation” che, con la sua progressione battagliera e quanto mai ricca di elementi costitutivi e pathos, in autunnale crescendo romanticamente wagneriano di una corrusca cavalcata di demoni celti, risulta essere senza ombra di dubbio il brano migliore dell’album (una dimostrazione di maturato gusto e sviluppata capacità nella gestione, ora eccellente, dei climax compositivi) nonché una conclusione di lavoro semplicemente perfetta.

La produzione è indicata, a tratti non troppo curata e lasciante alcune parti velatamente e volutamente caotiche, surclassando quella di “Aura” in quanto pienamente valorizzante il miglioramento innegabile nella composizione e nell’arrangiamento dei pezzi (con  l’esclusione di parti di batteria migliorabili in fatto di resa sinergica col contesto e feeling arcano del progetto). Tuttavia, nonostante “Guardians” funzioni per molti versi persino meglio delle uscite precedenti ad un ascolto attento, è altrettanto impossibile negare quanto sia “Roots” che “Aura” godessero di una natura decisamente più sorprendente; chi si aspettava un intuitivo passo in avanti troverà difatti soltanto un (buonissimo) album che va a limare e sistemare ogni difetto del precedente capitolo, superandolo solo in meri, seppur non banali, aspetti compositivi.
“Guardians” è in conclusione il disco dei Saor che con ottima probabilità accontenterà i più, ma non soddisferà appieno tutti, in quanto percorre un sentiero totalmente già tracciato – ora più che altro sgombro dai sublimi rovi che lo rendevano in precedenza più ostico, ma non meno affascinante; d’altronde, “there is a pleasure in the pathless woods”

Matteo “Theo” Damiani

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