Argenthorns – “The Ravening” (2023)

Artist: Argenthorns
Title: The Ravening
Label: Avantgarde Music
Year: 2023
Genre: Symphonic Black Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “Hänen Salissaan Kastoimme Unenhoureet Vereen (Intro)”
2. “The Manor Of The Demon Duke”
3. “In The Hoary Shadows Of The Blighted Gardens”
4. “I: Incursion / II: A Procession Of Spectres”
5. “Malefic Chronicle”
6. “Wings Of Psychomachia”
7. “The Grand Hallowing Of The Tyrant”
8. “Elpyminen (Outro)”

È un viaggiatore o un trovatore, un cantastorie o un esploratore di mondi lontani ed inimmaginabili, quella figura che non pare particolarmente impensierita dalla minaccia di spettri iridescenti attorno a sé, quasi gli fossero compagni in un tragitto magico in cui qualunque cosa può accadere?
Forse entrambe le cose sono vere nonché valide: forse questo ramingo fedele ai suoi passi e al suo bastone è davvero l’ultima voce in grado di cantare, di trasmettere una certa grandiosa storia di escapismo così difficile, così impossibile da comprendere se non si è provata almeno una volta nella vita quella sensazione di mancata appartenenza, di alienità, di alterità tormentosa o di più semplice misplacement -per dirla all’albionica- all’interno di un piano d’esistenza che non sembra realmente fatto per chi lo abita. Probabilmente, quello che gli Argenthorns nelle speranze e nelle forze d’un solo uomo che si fatica a percepire o pensare come proveniente dalla nostra stessa Terra si ripropongono di chiarire in musica così estranea allo spazio-tempo in cui è creata vuole proprio riesplorare quello che a tutti gli effetti resta un peculiare non-luogo musicale passandovi oltre, un portale in altre parole, come in un sogno già vissuto eppure sempre nuovo in dettagli come in finale, per poter narrare ciò che pare rimasto dolorosamente senza voce.

Il logo della band

Occorre pertanto fare un grande balzo da qualunque progetto di Juuso Peltola per poter capire le intenzioni del nuovo disegno a sette note dell’impersonificatosi Mason Rofocale e poterle così apprezzare tanto quanto meritano. Sicuramente, occorre farlo dalle sole velleità revivalistiche degli Old Sorcery di Vechi Vrăjitor, ma in verità anche dai forse più prossimi Warmoon Lord dello stregone fattosi Lord di una legione pronta a dar battaglia con magie assortite – per non pensare, forse indebitamente, alle altre band in cui il compositore finlandese prende parte ora come chitarrista, od ora piuttosto come tastierista per cucire in musica d’altri atmosfere in cui è evidentemente parecchio versato (si pensi a mero titolo esemplificativo ai nostrani Abhor della sottotitolata “Ceremonia Daemonis Anticristi” solamente lo scorso anno). Eppure questo è vero solo e soltanto se lo si legge -un po’ colpevolmente e superficialmente- alla lettera, senza andare troppo oltre con l’interpretazione che un simile sforzo creativo chiama come alleato: è difatti inconfutabile che gli Argenthorns siano senza troppo girarci attorno la migliore, la più completa ed originale (una caratteristica che andrà certamente contestualizzata e chiarita di qui a poco) incarnazione musicale di Peltola, qui accompagnato dalle peripezie ritmiche niente affatto trascurabili dell’inaspettato ex-Urn, il Revenant Strigoi ch’è Janne Jokinen; allo stesso tempo, quel salto funambolico e circense che intercorre, tanto effettivo e vigoroso, tra il novello progetto autore dell’affascinante debutto “The Ravening” e le sue altre due facce non casualmente citate è in parte anche un riuscito amalgama, se non dei tratti francamente non troppo distintivi degli altri due, quantomeno un compendio di ogni riproposizione stilistico-concettuale (quandunque non direttamente poetico-estetica) sembri affascinare nel profondo il compositore originario di Lahti.

Mason Rofocale

Se infatti l’anima dei Warmoon Lord chiama in causa i tratti più ferini, lo-fi e in un certo senso codificati nello spirito refrattario all’innovazione del Black Metal finlandese, e di contro il nome Satanic Warmaster in fatto di approccio alle parti vocali e anche -sebbene questo solo in parte- al riffing quando questo si fa più diretto e meno arzigogolato (si voglia pensare alla distensione più dritta nella parte finale di “In The Hoary Shadows Of The Blighted Gardens”, per non parlare del suo inizio sincopato), meno barocco come mero tappeto grattante il trionfale ascendere di archi, ottoni, timpani e chi-più-ne-ha-più-ne-metta di elementi provenienti dal mondo sinfonico ed orchestrale tout-court, è quella per l’appunto degli Old Sorcery a specchiare piuttosto l’attitudine alla creazione di atmosfere che trovano nel magico, nello stregato, nel fantastico o nell’antico mescolati come in un sogno dai contorni sfumati la loro ragion d’essere per quanto riguarda l’obiettivo finale da raggiungere.
È insomma come se tutte le prove del rinato Mason Rofocale collaborassero in un nuovo, diverso e singolare piano che trova un punto d’incontro impensabile tra tripudi di lambiccato, portentoso enfatismo Bal-Sagoth (anche senza pensare alle sole narrazioni di quell’adorabilmente posticcio vocione à la role-play game d’annata) e il dinamismo high-end e per così dire kolossal dei Dimmu Borgir anno 1997 (eccezionale è l’oscuramento superbo in “The Grand Hallowing Of The Tyrant”), riempendolo di tutta la sofisticata grettezza messa in mostra in un “Aamongandr” (per restare su evidenti, quasi dichiarate quanto effettivamente atte coordinate geografiche) per poi ricomplicarle negli ardui virtuosismi ritmici propri dell’estremizzazione sinfonica in quell’eclettismo tra un più ovvio “Anthems To The Welkin At Dusk” con le atmosfere camaleontiche e stralunate di Tartaros ed Obtained Enslavement benché portate a sublimazione, invero in particolare, dall’oscurità fagocitante di “Totschläger” (un disco a cui “The Ravening” guarda più di ogni altra influenza tradendosi fin dall’introduzione di gran piano a coda di “Hänen Salissaan Kastoimme Unenhoureet Vereen”).
Nondimeno quella originalità davvero paradossalmente quasi Avantgarde di dissonanze e stranezze un po’ Diabolical Masquerade a cui si faceva riferimento risiede proprio nel modo alieno (e si legga il termine davvero in ogni senso: si pensi ad esempio alla sequenza di accordi così reminiscente dei Darkspace all’attacco effettivo di “Wings Of Psychomachia”, pur lasciando curiosamente stare lo sguardo smaccatamente astrale di Odium e Limbonic Art su simili coordinate) in cui ogni riferimento citato viene inglobato con rispetto solo per essere nel mentre spazzato via dalla prepotente visione di un artista che non fa sua una palese passione per il mero e sterile gusto di riuscire a replicarla, ma che sfrutta al contrario ed encomiabilmente mezzi pure -in partenza- innegabilmente d’altri per mettere in scena un mondo divenuto delicatamente proprio, impossibile da ritrovare altrove. Non ci si riferisce, nel dir ciò, solamente al comunque pregevole ed esclusivo concept di creazione del finnico quasi-tuttofare e mente creativa, bensì in primo luogo all’estrema perizia con cui ogni elemento selezionato dagli Argenthorns per dipingere questa storia viene fatto confluire nel successivo con una naturalezza che musica così effettivamente complessa (“Malefic Chronicle”, tra disarmonia ed epica medieval-cavalleresca, in contrasto col finale Doom di “A Procession Of Spectres”) davvero troppo raramente possiede.
Insomma: “The Ravening” non è assolutamente un disco per così dire novantiano, e non soltanto perché una cosa simile negli anni ‘90 è impossibile da trovare. Il suo sinfonismo tanto ricercato, tanto preponderante e tanto sofisticato in suono, veridicità orchestrale e verosimiglianza fragorosa, è il medesimo di quella inclinazione che ha fatto della terra dei mille laghi un crogiolo di sensazioni a cavallo tra la colonna sonora e il Metal – estremo e non; è lo stesso di un non troppo dissimile “Nifelvind” dei Finntroll, ma persino di degli insospettabili Nightwish più evoluti, e questo è vero tanto in “The Manor Of The Demon Duke” quanto in “Incursion”, come in pressoché qualunque brano dell’intenso e ricchissimo disco. Un tale aspetto non può essere trascurabile neanche volendo ignorare la qualità della musica fuori da qualunque discorso: praticamente nessuno era infatti mai suonato tanto serio e così per nulla pacchiano, allo stesso tempo così poco umanizzabile (tra la quinta e la settima traccia si assiste a qualcosa di seriamente magistrale) con un tale quantitativo di elementi preponderantemente sinfonici in cui tuttavia il Black Metal non è né compenetrato complemento d’arrendo, né struttura abbellita e ingentilita, quanto piuttosto un tutt’uno con le rigogliose tastiere e i tanto verosimili VST (infiniti, dettagliatissimi, ricercati, selezionati, impiegati e sfruttati tanto bene quanto fosse a disposizione la Filarmonica di Vienna al completo e arricchita di tutto ciò che accade fuori dallo studio di registrazione!) da cui parte la composizione stessa.

S’è vero dunque che anche “The Ravening”, così come un presumibile “Tyrannemord”, un già citato “Aamongandr” e persino un “What Once Was…”, quanto forse e più di molti altri di quei grandi lavori che negli ultimi anni si sono felicemente inseriti nell’alveo di una vera e propria reinassance di Black Metal sinfonico dall’anima squisitamente tardo-novantiana ma dalla testa e sguardo perfettamente rivolti al presente quando non al futuro delle possibilità di un linguaggio (vedi: “Galdrum” e “Tales Of Othertime”), è un innegabile figlio di un certo “Totschläger” del riverito trio austriaco che ancora una volta sembra aver fatto troppo silenziosamente ed irriconosciutamente la differenza all’interno di tendenze palesi benché testardamente lontane da riflettori e dai più grandi onori della critica, il gusto speciale che un simile debutto conserva nell’andare non a seguire bensì a dialogare e contribuire, a coadiuvare le possibilità esplorate da tutti questi dischi che paiono esplorare i reami meno battuti di un discorso interrotto sul più bello nello shift millenario, è quello di un vagabondo che viaggia in terre ospitanti i fantasmi di un discorso comune: una storia in più capitoli da leggersi scritta da più e più autori. Più penne che inconsapevolmente si prestano ad un fine più alto che non sia arricchire di gioielli discografie più o meno quantitativamente ricche, di artisti più o meno anagraficamente esperti, ma tutte qualitativamente eccelse; bensì tutti insieme, anche se ognuno rigorosamente per conto suo e in gara con sé stesso –“The Ravening” in ciò capofila-, per raggiungere e narrare a proprio modo la visione di quelle rovine illuminate dalla luce verde di due spicchi di luna che, all’unisono come risplendono sopra quelle rocce cariche di mistero, sono di un mondo splendidamente altro e rimasto orfano di cantori che sono oggi tornati più forti e agguerriti che mai.

Matteo “Theo” Damiani

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