Ateiggär – “Tyrannemord” (2022)

Artist: Ateiggär
Title: Tyrannemord
Label: Eisenwald Tonschmiede
Year: 2022
Genre: Symphonic Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “De Dunkli Ort (Intro)”
2. “En Stille Feind”
3. “Iserni Plag”
4. “Us Lyschegiftig Schlaf Verwached”
5. “Die Nacht Droht Fyschter Mir”
6. “Chron’ Und Tod”
7. “Din Lyb Ziert De Altar”

La messa in musica di una storia, di una qualsiasi vicenda possibilmente affidabile alle cure predilette di quell’Apollo che, nella credenza dei greci antichi, sovrintendeva protezione e simpatia per coloro i quali si deliziassero nella manipolazione del suono con valore ricreativo o contemplativo, qualunque essa sia da ultimo e di qualunque natura o monito nel profondo, necessita sempre di una ricalibrazione attenta e di un’ispezione approfondita del proprio parco strumentale da parte dell’autore che se ne prefigge il compito. Più questo musicista possiede dunque uno stile definito e delle abitudini meccaniche in costruzione a cui è solito ricorrere con più o grande puntualità per creare i propri brani, maggiore emerge dal sacro e spesso imperscrutabile pozzo dell’invenzione la statura del compito di piegarli in favore non più della sua inclinazione singolare (nel migliore dei comunque erronei casi) – bensì in funzione delle più particolareggiate sfumature che proprio e solo questa storia, questo racconto musicato, se così vogliamo chiamarlo, deve ancora possedere una volta traspostosi su pentagramma in modo da poter essere realmente trasmesso. O almeno che questa musica, la quale dovrebbe infine dargli vita, abbia la capacità atmosferica necessaria a ricreare immagini e sensazioni veicolari di quel preciso resoconto, di quella sola narrazione, con i meri simboli musicali e anche senza l’ausilio dei testi come più esplicito sottotesto al fluire delle note.

Il logo della band

Una storia di potere, d’intrigo, di cospirazione e di osceno tradimento, di presumibile affetto -ancor prima che di una corona ed un trono- usurpato non meno terribilmente di quanto spaventosa possa essere l’oscurità gettata nelle vite dei suoi sudditi dagli atti ed ordini di un tiranno, la vicenda di un regicidio in cui si fatica a distinguere i confini tra bene e male, compiuto all’interno di un luogo sacro per figura e devozione, è sicuramente qualcosa di evidentemente non troppo alieno o impossibile da comunicare coi pregiati ed al contempo cacofonici, sincretici, distorti e taglienti mezzi del Black Metal. Nondimeno, rimane forse evidente come pochissimi artisti siano nella squadra degli eletti che, al momento di mettersi alla prova con una qualche forma di narrazione o cronaca in musica, non falliscono miseramente – scadendo ora nella banalità dei soli e pigri campionamenti, nell’aiuto di posticce narrazioni esterne; oppure, banalmente, nella creazione di canzoni che, al di là di un testo apparentemente incollatoci sopra senza troppo calcolo, non riescono minimamente a portare alla mente altro che immagini vaghissime (ammesso poi ne presentino alcuna), assolutamente comuni ed indistinte piuttosto che la singolarità nitida della predeterminata storia. Anche di quelle storie che, in apparenza, come quella appena tratteggiata, meglio potrebbero prestare il proprio corso ad un determinato linguaggio qualora davvero posseduto dal musicista in questione.
Quello che fanno gli Ateiggär, peraltro già ambiziosamente nella creazione in contemporanea del loro primo full-length, scalcia ed urla per differire dal più solito concept album: scegliere una storia affascinante, magari poco battuta, che tormenti dapprima in prima persona e che lasci l’autore a studiarla, soffrirci e rimuginarci in (non troppo difficili da immaginare) notti insonni trascorse sulle pagine di libri illuminate dal lume di una solitaria candela; solo più tardi, analizzare i propri stessi mezzi con spietata freddezza e capire se e quali di questi possano essere adeguati alla creazione musicata di un’unica entità che faccia amalgamare e dialogare nel nome dell’arte quello studio e i propri brani.

La band

Pertanto, gli autori di “Us D’r Höll Chunnt Nume Zyt”, sfavillante e non poco elettrizzante EP di lancio del progetto nel 2019, ricalcolano con estrema e fortunata attenzione ciò che è stato fatto in quei cinque brani comprensivi d’introduzione, senza timore alcuno di staccarsi da qualcosa di già abbastanza acclamato e cambiando così facendo, fin dal proprio debut, svariate carte in tavola in termini prospettici e -come d’anticipazione- stilistici. In questo modo selezionati e persino meno comuni aspetti della vicenda mortale di Leone V l’Armeno, sanguinario reggente della corona dell’Impero Bizantino dall’813 alla notte di Natale dell’820 d.C. che ne vede il brutale assassinio, si fanno strada non dalla musica finemente intessuta da Fauth Temenkeel e Fauth Lantav, non dalle loro invocazioni per i più criptiche perché in quel particolare dialetto svizzero-tedesco che abbiamo imparato proprio grazie a loro a decifrare parzialmente ed apprezzare su queste pagine, bensì all’unisono con musica e parole come parte terza che guidi gli Ateiggär -in precedenza, a voler essere proprio severi, qualcosa di non troppo distante dagli Ungfell che suonano i Kvist– verso un risultato di coesiva, elegante e straordinaria bellezza armonica seppure piegata ad un contesto tanto torbido e sanguinoso.
La parentela con i sonici terroristi alpini di “Es Grauet” continua a manifestarsi più che altro nella tensione costante verso l’inafferrabile, verso quel punto fermo che è da sempre nemico fedelmente giurato sia dei Taake che degli Abigor, delle schizofrenie compositive di Misþyrming, Sühnopfer e degli stessi altri progetti portati generalmente avanti dai due menestrelli svizzeri. E sebbene sia vero ciò, è altrettanto evidente come gli Ateiggär questo punto fermo lo abbiano più in considerazione di tutti i nomi elencati messi insieme, così come delle loro altre incarnazioni: nella graniticità del riff portante nel cuore di “Iserni Plag” (o forse ancor più in quello che gustosissimo rallenta “Us Lyschegiftig Schlaf Verwached” tra corali melodie arabeggianti, se rapportato alle storture chitarristiche proprio di memoria Hønefoss anno 1996 dell’EP di debutto), in una costruzione del pezzo generalmente molto più solida – dove, vale a dirsi, i ritornelli di delle gemme come “Mord Im Tobel” e “De Türst Und S Wüetisheer” fanno qui la fortuna di un album che sfrutta il potenziale della reiterazione e della ripresa molto più che qualunque altro sforzo artistico di Menetekel e Vâlant. Non la sola “Die Nacht Droht Fyschter Mir” fa infatti raggiungere in questo senso e col suo trionfalismo epico risultati ad oggi inediti nel corpus dei rossocrociati, benché sia una vetta in questo preciso senso davvero difficilmente scalabile dagli altri brani che puntano infatti e molto sapientemente ad altri obiettivi; ma anche la defibrillante opener “En Stille Feind” delizia con riprese da capogiro come scheletro di quei riff che sono arabeschi acidi (si ascolti attentamente il lavorio del basso che fermenta, sempre a contrappuntare gli spazi del suono, per rendersi conto di quanto originale e raffinato sia il lavoro melodico), mentre il tutto è ammantato da riverberi e da fumi che sembrano trovare il reale spazio e compimento che era evidentemente stato solamente esercitato in separata sede nei Kvelgeyst (“Alkhaest”, 2019).
Tutta una serie di inserimenti vocali diversificati in timbro, fattezza, proporzioni nel mix e significato come fossero i colori stranianti di una enorme vetrata istoriata, le cui parabole sono fermamente legate tra loro da solide fondamenta di un ferro battuto e nero come il carbone, come il peccato, si piegano al volere della storia di un assassinio brutale, della quasi cinematografica congiura che lo porta a compimento e delle sue conseguenze se possibile ancor più nefaste; e le nuove invocazioni, dal tono medio di un Death Metal sepolcrale ed oscurissimo come lo insegnano Grave Miasma e Dead Congregation (già esercitato in maniera più prossima nei Lykhaeon ed Arkhaaik), che dapprima in un contesto così dinamico e snello possono suonare quasi come una zavorra stilisticamente parlando, dettano in realtà nel giro di qualche sparuto ascolto più attento il reale carattere di un disco che anche quando non punta sulla stravaganza eclettica di un qualche tipo finisce per suonare sempre estremamente originale, caratterizzato e pienamente riconoscibile. Difficile infatti afferrare il singolo e preponderante motivo di un artificio simile, eppure un brano come lo strepitoso “Din Lyb Ziert De Altar”, forse su tutti, tra un pure forte e non insolito funambolismo ritmico-melodico per gli autori, rende chiaro con urla e scalpitio come la paura distillata in “Tyrannemord” sia tutta e solo degli Ateiggär: mitica, prepotente, dalle sfumature arcane ed oscurantiste, eppure splendidamente umana, vicina e reale.
Le partiture chitarristiche che reggono il gioco al resto della strumentazione sono non meno regali e maledette all’unisono di quelle del 2019 (vedi “Chron’ Und Tod”), ma il terrore di una cospirazione segreta che si cela e si alza come nebbia marcia dall’ombra fetida di sale laccate le carica oggi di una cupa frenesia – nel lato più oscuro del potere secolare, nei saloni di perdizione in cui annidano confidenti oscuri a cui viene data voce aurale con i sintetizzatori e le tastiere più sinfoniche sperimentate dal duo: un aspetto che le fa narrativamente risuonare dapprima maggiormente simili ad un tappeto, sebbene col passare degli ascolti si comprenda quanto queste dettino la strada al fluire -sempre torrenziale, questo sì- degli altri strumenti. Impossibile infatti non sentire come il suonare dei tasti bianchi e neri si faccia sempre più spettrale verso la fine del disco, per enfatizzare non solo gli ultimi due brani in scaletta, ma più crucialmente la stessa fine dell’esistenza del quinto ed ultimo del suo nome nella stirpe reale degli armeni, intonata su cori diafani e necromantici tamburi riecheggianti a lutto che gelano il sangue e sembrano fermare per sempre un istante nel tempo con drammatismo eccelso. E se le chitarre vi si spendono sopra in giri di grande complicatezza che potrebbero altrove fare la fortuna di intere discografie senza particolare sforzo, come avviene con la più grande soluzione di continuità nella già citata quinta traccia (semplificate qui con notevole sapienza nei momenti in cui un refrain deve portare a casa un risultato di memorabilità che ha dello squisito), pad e digital bell arcturiane guardano all’oltremondano: alle stelle e all’alchimia di suono non coi più soliti Emperor, su similari coordinate, bensì con la grandezza atmosferica ed immaginativa che il circolo Helvetic Underground Committee sta mattonando con pazienza disco dopo disco, uscita dopo uscita.

Con il furor melancholicus tipico dei figli di Saturno, insomma, coloro che ormai sono a pieno titolo due tra i più attentamente seguiti musicisti estremi di Svizzera compongono un portentoso primo lavoro esteso in cui si respirano nitidi i miasmi della vera perdizione terrena, della corruzione, di malefatte imperdonabili e -con esse- tutta la polvere mortale di antiche cattedrali la cui oscurità mal nasconde il peggio dell’animo umano sotto la coltre marmorea delle migliori intenzioni costellate di forza, supremazia, tirannia su tirannia e tutta quella cupidigia che viene mascherata da tattica politica. Gli Ateiggär, con un disco dell’importante statura di “Tyrannemord”, ci ricordano costantemente nei suoi tre quarti d’ora spaccati di frenetica passione che cupi tempi verranno, e che cupi sono i tempi che vennero prima di questi – ma per un motivo molto semplice: cupi sono gli abissi dell’uomo, cupe sono le sue inclinazioni e prospettiche intenzioni, cupi sono gli atti e le azioni messe in moto per raggiungere enorme parte dei suoi obiettivi, come quelle che in una sacra notte di fine dicembre fecero piangere lacrime di sangue ad un attonito Santo Stefano che le osservò dal suo sepolcro di pietra. Ma il potere è vanità – la sovranità è vanità – l’ambizione è vanità – tutto il dominio in terra è in fondo nient’altro che vana, vanissima vanità.

Matteo “Theo” Damiani

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