Stormkeep – “Tales Of Othertime” (2021)

Artist: Stormkeep
Title: Tales Of Othertime
Label: Ván Records
Year: 2021
Genre: Symphonic Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “The Seer”
2. “The Citadel (Interlude I)”
3. “A Journey Through Storms”
4. “The Serpent’s Stone”
5. “An Ode To Dragons (Interlude II)”
6. “Eternal Majesty Manifest”

Persi tra cupi sottoboschi carichi di misticismo ed anfratti di cavità maledette per soli cinque minuti scarsi, con l’immaginazione coccolata da archi ed ottoni sintetizzati in ambientazioni scintillanti ed ingannevoli, oppure per un anno meno un giorno che sia, o invece per l’intera eternità – prima insomma che il mago veggente, il viandante e cercatore, si facesse strada fra le fronde incantate che hanno tenuto gli Stormkeep in pendente attesa nei reami di quel “Galdrum” tramite cui hanno cavalcato un’intera landa desolata, al fine di poter spezzare l’anatema che imprigionava il loro cavaliere nero in caverne di vetro dimore di re draghi, affinché questo potesse essere nuovamente accompagnato verso la scrittura e la successiva narrazione di racconti di un altro tempo: un viaggio tra tempeste mortali nella nevosa notte di un inverno eterno – e voci tanto strane nel soffiare duro di quel vento, che si lagnano funeree, che ammoniscono e piangono e gemono d’incantatori saggi e stregoni potenti i cui artifizi provengono dalle grotte di tempi oscuri e medievali; dal trono di tenebra incastonato di gioielli rosso sangue e costruito nel centro delle sale di pietra del grande castello psicotico, sulla cima di un monte rivestito di bianco e di presenza malvagia.

Il logo della band

Così il nuovo “Tales Of Othertime” assume i connotati quasi di una mappa imbrunita ma perennemente funzionale, la guida in un mondo che non cambia la sua toponomastica né la sua lingua col passare dei secoli e di millenni tanto pieni di accadimenti facili da decifrare perché, in un certo senso, impressi e marchiati a fuoco nella memoria collettiva e genetica di qualunque scrutatore del fantastico fin dalla nascita; un tomo arcano, un manuale di esplorazione e conquista per viaggiatori del sogno che gli Stormkeep, al contempo, scrivono e consultano con la più assoluta diligenza nel tentativo di espandere la mezz’ora abbondante del precedente “Galdrum” verso nuovi orizzonti creativi fatti della coesione strumentistica di un’armata, ma ancora più stretta, e di funambolismi che partono dalle concentriche aperture dal gretto sapore medievale, oscurantista di “Hordalands Doedskvad” per riportare il manifesto di una maestosità perduta in “Godless Savage Garden” ed “Enthrone Darkness Triumphant” – in “Soulblight”, in “Minas Morgul” e “Starfire Burning…”. Per riportare il bombastico nella grandezza di “In Times Before The Light”, in “In The Nightside Eclipse” col tramite di sé – non omaggiando una band, non uno stile, bensì una notevole pletora di sensazioni in qualche modo accomunabili per sentori e poetica, per sentimento musicale ed extramusicale, che partono sì dal Black Metal della metà del decennio che ha sigillato di nero lo scorso millennio ma arrivano senza soluzione d’esaurimento in territori tastieristici che mitigano proprio quel Symphonic con venature Progressive à la Yes incontrando le guglie dei Gentle Giant e la narratività cartografica ed atlantidea dei Greenslade o dei The Trip, finendo per diventare così una manifestazione artistica che fa dell’unione specifica di stili collaudati, apparentemente passatista, il suo motivo di unicità; unica proprio nel mariage d’identificati e selezionati stili gettati nel proverbiale calderone e rimestati come per forza di cose nessun altro nello specifico fa, pur preservando quell’inafferrabile e molto probabilmente inspiegabile elemento di lontananza e di reame che è contrada oltre le possibilità del tempo. Qualcosa che può sembrare essere il passato ma che è, dopotutto quanto piuttosto, leggenda nel vero senso del termine. Pertanto, qualcosa di provvisto di una vita a sé.

La band

Nella formulazione della loro second spell, la band capitanata dal Grandmaster Otheyn Vermithrax (lingua di veleno e screziate corde d’incanto il quale altri non è che l’Isaac Faulk di Blood Incantation e Wayfarer) impiega dunque il valore trasversale del perduto e del dimenticato in regni interiori ed esteriori, in praesentia come in absentia, riscoprendo nel farlo una facoltà commovente ed irrinunciabile del linguaggio artistico umano tutto: essere il tramite per parlare al fruitore dell’esperienza senza l’esperienza, alterando percezione ed emozioni mediante suono come moderni sciamani d’una età antica, col ritmo metrico di malefici e di una prosodia che diventa sortilegio a fior di labbra, di un’arpa che suona da sola per magia nera in una stanza remota di una torre. Tutto questo si manifesta nel passaggio soprannaturale fatto di fulmini e bluastre bufere di ghiaccio verso Arda, nel primo volume dei misfatti che macchiano Othertime: l’universo che prende forma mano a mano che gli stessi Stormkeep e la loro musica assumono identità sempre più completa ed inconfondibile, guidandone i passi tra le sue immense valli e venendo scoperto nel frattempo proprio da questi, evolvendo da scenario lirico necessario alle prime canzoni composte per “Galdrum” (“Lightning Frost” in particolare, già inclusa nel misterioso demo del 2018) ad una storia che vive e respira insieme ai suoi creatori mentre questi la scrivono, e che promette di crescere rigogliosa con le vicende dei suoi abitanti che la musica degli statunitensi così abilmente e visivamente va (e andrà in futuro, si può esserne certi) a mettere in scena. Distante e speciale, irraggiungibile eppure tanto familiari da sembrare ad un dito oltre la foschia come quella che esala da una pozione velenosa, in antichi mondi che persistono nell’ars obscura e nei codici cifrati di chi li custodisce tra ispirazione ed immaginazione; ed il songwriting eccezionale già nel precedente capitolo è qui di ancor più grande valore ed immersività, ricco d’intensità, imprevisti e idee da scoppiare, propagate in musica dal soffiare dei venti del nord mentre le chitarre da melodiche assumono in “The Seer” le arrembanti forme aguzze e contorte di gargoyle dalle sembianze di viverne, con marmoree fauci spalancate e pupille iniettate di un verde acido, scintillante e velenoso, ricco di presenza malvagia. Il gelo persistente attanaglia nella concretezza dello schiacciante riff che apre invece la polimorfica “A Journey Through Storms”: undici minuti abbondanti in cui le trasformazioni elettriche finiscono nel finale persino sui tempi medi dei Thyrfing e dei Moonsorrow di “Kivenkantaja” in “Jumalten Kapunki”, irti di pericoli e segreti fatti di scheletri solidi come l’Heavy/Power teutonico d’annata, al limitare della pianura tra cortecce nere e creature minacciose che tra queste si celano, e i cui soli occhi brillano nell’oscurità confondendosi con i colori falsamente allettanti di funghi, dorsi di rospo -umidi e scintillanti- e superfici d’acqua stregata, rafferma lì per divenire tomba idrica del viaggiatore incauto e del cavaliere errante che entrano nella cittadella. Vapori medievali su torce accese si sprigionano liberi nel primo interludio, e tensioni sospese nel secondo, prima che la fortezza venga presa d’assalto dalle forze del male dopo la splendida, defibrillante e galvanizzante “The Serpent’s Stone”; dove, non meno che negli altri quattro effettivi e pienissimi brani, i cori enfatici (nuovamente prestati dalla voce di Shield Anvil dei Caladan Brood ed ingranditi di ruolo e resa rispetto a quelli di “Of Lore…” nel precedente) fanno il paio con chitarre acustiche che intessono ricami tra il salterello e l’arcano svelato in una sfera di cristallo. E prima che l’ultima narrazione squisitamente rétro e pittoresca chiuda “Eternal Majesty Manifest” sulle ali di un laconico a new reign of terror had begun, doppi sintetizzatori intrecciati preannunciano la battaglia che volta l’ultima pagina del primo volume delle cronache di Arda nell’assedio e distruzione della cittadella fortificata e della sua rocca mentre gli schieramenti si assembrano ai suoi cancelli, si scontrano, e magie ed incantesimi collidono sul climax d’invocazioni all’assalto della voce femminile di fumo e cenere che pare presa di peso da un “Dusk… And Her Embrace”. E dalle macerie, a generoso ponte verso ciò che prenderà forma nel secondo volume delle cronache, le “Lost Relics” strumentali incluse nel disco bonus aggiunto nella versione in doppio CD fanno volare l’immaginazione ulteriormente oltre la narrazione.

Le visioni si rinnovano e prendono forma sempre nuova quindi, all’ascolto di “Tales Of Othertime”, nella mente che è in fondo il solo ed unico luogo in cui viene creata una identità a cui rispondere: quello stesso posto da cui, col più vario filtro delle più grandi menti succedutesi, proviene la totalità della grande arte di cui siamo fortunati testimoni per la forza di un’idea. In questo caso, quella di un universo medievale così come presumibilmente visto da chi lo abitava, tra diavolerie nell’aria, creature e fatti oggi bollate come mitici, e forze del male in agguato dietro ogni angolo; ma soprattutto pieno zeppo di poteri che superano ogni nostra comprensione e possibile conoscenza. Una metafora nemmeno troppo lontana di una realtà, di un mondo i cui misteri e le cui irrazionalità mistiche superano di gran lunga i confini possibili dell’uomo – e che dimostra dunque quanto non serva pedissequamente pesare e prendere le parole di un testo alla lettera per essere totalmente seri al riguardo, facendo notare come il Black Metal resti in extremis ancora oggi un modo per vagliare queste energie e questi misteri, negli anfratti meno illuminati e meno esaminati e che richiede all’ascoltatore di approcciarvisi ad un livello che sfida il direttamente conscio portandolo oltre il razionale e lo sterilmente scientifico. Qualcosa di lontano, non per caso, anche nella distanza dal mondano, da ritmi e chiacchiericci della sterile comunicazione social, fatto che da solo facilita enormemente l’immersione in un creato che resta universo a sé qualunque sia il suono scelto: possa essere la reverenza all’apertura mid-’90s ottenuta in “Galdrum” con Petras Vaznelis dei Velnias, o la modernità abbracciata e reinventata nelle sale di Michael Zech al mix (di Ascension, Secrets Of The Moon ed Odem Arcarum) insieme a Santura al banco del master (dei Triptykon, insieme agli infiniti altri passati dai suoi Woodshed Studios), affinché tutto quel che gli Stormkeep vogliono e possono trasmettere sia processato e compreso al di fuori dei parametri e della ricerca dell’immediato da cui l’ascoltatore moderno sembra essere così assuefatto – o deturpato; senza scendervi a patti, rendendo l’esperienza estremamente guidata (il valore estetico dell’album è del resto innegabile) eppure totalmente individuale tra nomi d’arte improbabilmente lunghi, tronfi di un’ambizione narrativa più grande di qualunque vita terrena ed un secondo capitolo d’assoluta importanza nonché bravura magistrale. Si dice in fondo che chi semini vento raccolga tempesta: e vale forse la pena aggiungere che chi questa la cavalca con la maestria di tripudiante, freddo e fiero Black Metal medievale proveniente dai sotterranei di un’altra e non più distinta età, riesca a portare gelo e fiamme sulla terra intera.

Matteo “Theo” Damiani

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