Aprile 2021 – Fyrnask

 

Nel pellegrinaggio spirituale tra mondi all’interno del 2021, con il finire del suo quarto ed invero corposissimo capitolo di aprile, si segna per i sottoscritti un punto di demarcazione importante che difficilmente verrà replicato in un similare apporto qualitativo in alcuno dei prossimi appuntamenti di questo tipo: quattro dischi ognuno sfregiato in maniera speciale dall’ampio apprezzamento di oltre metà dello staff, con i picchi raggiunti passando di eremita in eremita, di solitario viaggiatore ed osservatore del mondo fisico in anacoretico nomade ecumenico, partendo dal quarto album dei tedeschi Fyrnask -già dal primo ascolto peraltro scelto come l’assoluto disco del mese (ma probabilmente non solo) per la quasi totalità del manipolo di chi scrive su queste pagine d’oscura antichità virtuale- e proseguendo con il terzogenito abortito dagli svizzeri Ungfell – strambi diavoli pedinati in orrori senza tempo nella loro traversata assetata di sangue da un villaggio alpino all’altro, sotto a nubi che si fanno grigio cenere, dagli spiriti dei connazionali Paysage D’Hiver nel nuovo, appropriatamente infestato “Geister” (Kunsthall Produktionen), e dagli altrettanto reduci di mille e più battaglie sulle asperità di monti e fiordi; quelli della brigata norvegese nero pece dei Vreid con i freschi orizzonti creativi dell’ambizioso “Wild North West”.
Ma volendo tornare ad aprire adeguatamente le danze con l’operato sublime del rinnovato collettivo di Fyrnd, Rune, Alghol, Exord e Fhez nel clamoroso “VII – Kenoma”, uscito per l’usuale sospetta Ván Records il 30 del mese (per inciso – nello stesso identico, preciso ed affollatissimo ultimo giorno d’aprile insieme ad Ungfell e Vreid), tra degenerazione materiale ed altezza spirituale di mondi che si svegliano e sputano lava nera come sangue sul candore d’ala d’una colomba, tra carne ed anima, tra esistenza e straziante, soverchiante concetto di sacrificio e dolore, chi ne sarà realmente degno (ed ancor più chi già aveva amato nel profondo l’indimenticabile “Fórn” del 2016) potrà trovarci un disco superlativo: una caduta verso il lamento dell’abisso spaventosamente udibile ed una successiva risalita da pelle d’oca. Qualcosa d’impossibile da rendere realmente in parole, com’è giusto che sia, per ciò che arriva a trasmettere fin dalla sua apertura in un miracolo di lavoro tutto ornato di complessità e profondità musicali, concettuali, riflessive e visuali potenzialmente senza limiti. Qualcosa che darà da riflettere per anni ed anni a venire.

 

 

[…] L’eremita, l’anacoreta che con cuore aperto e ferito, ancora seduto su un vello insanguinato in cima all’enorme montagna immagine centrale di “Fórn” cantava sermoni di vuoto e fuoco sputando l’amara acqua della terra e del profano, del concreto e del visibile, arriva infine al cospetto di quella stessa perdita metafisica, di quel sacrificio trasposto nell’ennesima ma ancor più grande immagine, nella sua forma visiva forse definitiva – del κένωμα in cui il Demiurgo respinge il suo disobbediente arconte Iblīs, Shaytan, la luciferina figura che sulle rovine del suo perduto impero si dispera e cerca una nuova via tra bene e male che sfocano e si mescolano nel settimo passo verso l’eternità: qui il cercatore impara metaforicamente dell’esistenza dei due mondi distinti ma complementari e li vediamo distendersi enormi nel rito sacrificale officiato da “Hrævaþefr” alla visione terrificante del “Blótguð”; qui la profezia di tutto il sangue che sarà presto o tardi fuoco si compie nel potere dell’assurda intuizione compositiva di “Kenoma”, nella comprensione totale di cosa appartiene al progetto e di tutto ciò che questo può dunque regalare all’ascoltatore. Il sangue ribolle e scende impetuoso dalla montagna come fiele, vulcanico – e noi pieni di terrore lo osserviamo come gli occhi ci fossero finalmente stati prestati. Ancor più che in “Fórn”, indescrivibile arte totale.”

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I fumosi e caliginosi silenzi di “Fórn” si caricano di una tensione dai risvolti sempre più totalizzanti: quelle che in precedenza furono violente e rabbiose rivelazioni, in “VII – Kenoma” si amalgamano in psichedeliche progressioni, spirali sempiterne di grigia cenere incanalate nell’impervio sentiero sospeso fra nero abisso e bagliore accecante, intrappolate in un perpetuo e doloroso stato liminale. Fra ipnotico layering Drone, rumorismo Dark Ambient che fa vibrare il denso, cavernoso sostrato di basse frequenze e chitarre che con tono ieratico e apocalittico traforano implacabili la carne viva schizzando di sangue scarlatto l’altare sacrificale, i Fyrnask si dimostrano capaci di raggiungere nuovi picchi di sconcertante drammaticità, racchiusi in sei lunghi brani pregni di pathos e dalla struttura intrinsecamente ermetica quanto suadentemente espressiva.”

Sembra non trovare sosta la continua evoluzione artistica dei Fyrnask, capaci in “VII – Kenoma” di raggiungere quello che ad oggi è l’apice della propria carriera musicale attraverso una serie di composizioni a tratti fuori da ogni logica immaginabile. L’atmosfera si aggrappa ad su un forte senso di ritualismo ottimamente prodotto da chitarre effettate, cori ed una impeccabile componente ritmica, assolutamente perfetta per spaziare tra aggressività e solennità. Questi ultimi due aspetti si riversano anche nelle maestose e sfrenate cavalcate in stile Black Metal che lasciano invece veramente poco spazio all’immaginazione: l’unica possibilità che si ha è restare immobili, immersi in uno stato di trance ed impotenza nei confronti del vero spettacolo al quale stiamo assistendo. Se in passato chi scrive poteva, ad esempio, aver sempre trovavo qualche microscopico dettaglio intralciante il proverbiale urlo al miracolo quando si trattava di un disco della band, in questo caso ogni cosa è infatti letteralmente al posto giusto; ogni spigolo è stato limato alla perfezione e la progressione che si vive dal primo all’ultimo secondo di album è godimento allo stato puro.”

“La lunga attesa di cinque anni -tanto abbiamo dovuto aspettare per una nuova uscita discografica dei Fyrnask dopo quella meraviglia oscura di “Fórn”– suona come mezzo secondo ed un’eternità al contempo avendo tra le mani “VII – Kenoma”, in cui si ritorna immediatamente a respirare la tipica ma evoluta musica rituale del gruppo, sospesa fra zolfo e misticismo, in cui parti dissonanti e ferali ben si mescolano alle sezioni pacate e spaventosamente ambientali avvolte dal timbro vocale versatile del leader e fondatore Fyrnd, capace di rendere ogni pienissima canzone diversa con una sua precisa identità. Non era affatto facile riconfermarsi dopo un disco come “Fórn”, ma il suo successore va in realtà ben oltre e ha tutte le carte in regola per far fare ai suoi creatori il decisivo passo per la conquista del trono del panorama Black Metal tedesco.”

“Es Grauet”, terzo full-length del duo di svizzera più apprezzato degli ultimi anni, fuori per Eisenwald. Doveste aver già fatto vostri i fasti in “Mythen, Mären, Pestilenz” del 2018, o persino gli esordi in “Tôtbringære”, il curato e pittoresco concept album che vi attende non potrà che affascinare in modo irrimediabile: dallo sperduto borgo in cui si svolgono i fatti di sangue e gretta diavoleria incantata messi in musica da Menetekel e Vâlant non v’è ritorno.

[…] Le porte nodose ed imbarcate di una stamberga malfamata si aprono udibili al forestiero: gli schiamazzi pazzi, inebriati d’alcol ed inebrianti di colori accolgono come fossero clangore d’armi spuntate, anche un po’ arrugginite e mal prestantesi ad eventuali battaglie di sangue come intorpiditi sono del resto coloro che le brandiscono; come se il ventre della terra fosse stato squarciato e la visione si aprisse a bizzarre creature diaboliche che ai bagordi si danno senza freno. Tra demoni, umani, mostri orribili, religione e tradizioni che a questa sfuggono e veloci corrono lontane da ogni parvenza di ragione, gli Ungfell mettono in musica squisitamente visiva una storia dal carattere universale ma dal sapore estremamente locale, alpina come tutto ciò che più immediatamente vi viene associato ed originale come non era mai stata. Una quarantina di minuti d’unicità tormentata da vivere e sentire d’un solo fiato, senza pause (peraltro totalmente non previste dalla composizione a fiume della band) come si trattasse di un unico movimento mentre il cielo sopra l’apparentemente tranquilla Dorf si fa sempre più nero ed un imprevedibile pandemonio attende senza preavviso…”

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Come se il ristoro rurale di un villaggio di montagna rendesse ipoteticamente ancora più strazianti ed inattesi i biechi orrori del Maligno, gli Ungfell scelgono suoni più avvolgenti e un registro che nella sua varietà ed eterogeneità piega con autorità narrativa i vertiginosi e sfrigolanti saliscendi di cui sono ormai maestri, raggiungendo una coesione specchio di una maturità a questo punto definitivamente raggiunta. Con un Meneketel infervorato nell’evocare ed assestare riff acuminati a valanga e un Vâlant che si conferma il compagno d’armi ideale nell’interpretare le travolgenti variazioni ritmiche di “Es Grauet”, il terzo disco degli svizzeri si presenta, a dispetto della sua brevità e della tracklist visivamente così frammentaria, sintesi e in realtà massima espressione di quel bailamme folkloristico dal piglio tanto sguaiato quanto mortifero ed ammantato di arcane e abominevoli sfumature.”

Terzo disco per gli Ungfell che ci iniettano in vena la loro ormai familiare dose di folklore e stregoneria intrisa d’un contraddistinto aroma medievale. “Es Grauet” mette a fuoco tutti i vari spunti presentati a piacere nei due precedenti dischi ma li rielabora nuovi in un mix tanto scorrevole quanto piacevole. La successione di sonorità dovuta agli intermezzi scorre questa volta senza intoppi e si contrasta e completa ottimamente con un Black Metal melodico e ricercato ma privo di eccessivi fronzoli inutili all’evocazione d’immagini nitide. Un album perfetto soprattutto se volete una nuova uscita in grado di placare immediatamente la vostra sete di sonorità bucolico-pestilenziali che, altrove, fin troppo spesso sebbene volentieri resta di derivazione tutta francese.”

“Nonostante non siano mancate valide alternative anche tra le compagini affiliate in quel di Zurigo, fa comunque un gran piacere risentire in azione l’act principale dell’Helvetic Underground Committee, capeggiato da quello che ormai è un autore tra i più ispirati nell’attuale scenario centro-europeo. Non fatevi troppo distrarre da apprezzamento o meno che sia della curiosa copertina e sguazzate invece nel trionfo di composizioni allestite dal gusto sopraffino di Menetekel, inarrestabile alle sei corde almeno quanto il selvaggio Vâlant ai tamburi: finalmente meno Peste Noire e stranamente più Sühnopfer, si potrebbe anche chiosare di fronte agli ultimi sviluppi in fatto di scrittura, di produzione e vocals – eppure proprio l’aver trovato un punto medio tra due entità così distinte garantisce agli Ungfell una buona dose di personalità, ad innalzare ulteriormente una proposta comunque perfettamente calibrata e dalla longevità sempre elevatissima.”

“Ritorna in pompa magna il duo medievale più diabolico dell’intera Svizzera, con un terzo colpo maestro initolato “Es Grauet” che sostanzialmente non cambia di una virgola le loro fattezze più caratteristiche, fatte di riff al fulmicotone ma dal sapore folkloristico che puzzano di zolfo, ritmiche estremamente forsennate e voci ossessive al limite del pazzoide – ma in questo terzo episodio, concettuale e narrativamente ricercato, il tutto assume anche una caratteristica più bucolica, tradizionale in senso geografico, quasi come nel voler descrivere fin dalla superfice i tipici e bellissimi paesaggi elvetici con i loro costumi umani, al cui interno risiedono bestie e demoni di ogni sorta: un ottimo gioco di sfaccettature fra queste due visioni convogliate in musica che rende il loro nuovo album assolutamente degno di nota.”

Wintherr per il tramite Paysage D’Hiver, questa volta alle prese con una splendida variazione audiovisiva nel programma acausale che sussurra i passi al suo viaggiatore spirituale. “Geister” è l’incontro di quest’ultimo con noi, fantasmi umani: aberrazioni deformi e spaventose oltre ogni dire, ogni inverno ed ogni freddo. Potrà anche essere un sogno, ma la processione dell’orrore delle tschäggätta che parte dalle valli del Lötschental per finire nell’anima fa vittime in carne ed ossa.

[…] Un disco meno sognante, più palpabile, concreto e brutale per la sua natura lirica efficacemente traspostavi, eppure al solito sfaccettato, profondo, graziato da svariati livelli di lettura, forse persino più fine di altri acclamati capitoli nel modo in cui nasconde svariate idee musicali sotto alla coltre di monotonia alienante: “Geister”, vento che spazza pietraie e monti d’arido bianco, proprio nella coerente immedesimazione e descrizione del corrotto, del degenerato, nell’homo homini lupus e nel lupus est homo homini riesce ad essere altrettanto gelido e sottile come d’attesa e speranza di percorso, ma persino più energico che mai; riesce a creare un monolite di diversità compatta nel catalogo ad incastro del suo autore e allo stesso tempo ad espandere la sua inconfondibile firma, la sua visione ed unico taglio di Black Metal nell’intero panorama con nuove tinte ad oggi ancora inesplorate in un simile contesto – non più musica per vagabondare, sebbene sia al solito musica per l’anima e non per il corpo, ma per balli indiavolati accerchianti pire rituali nella notte e mascherate per le viuzze tinte d’incolore, a cui il nomade forestiero dimensionale solitario prende parte suo malgrado e paralizzato dal panico, interrompendo per un’ora e dieci di grandiosa storia nella storia il suo cammino prima di tornare infinitamente più ricco in prospettiva e comprensione sui suoi passi.”

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In un contesto di totale astrazione ed inumana immersione prerogativa cardine del linguaggio dei Paysage D’Hiver, dove una visione antropocentrica cede solitamente il passo alle sensazioni universali e archetipali scaturite dall’impenetrabile maestosità della natura, un album come “Geister” segna invero un cambio di prospettiva, caratterizzato da suggestioni più tipicamente umane: in un processo che da concettuale si fa in linea diretta musicale e stilistico, la paura assume i contorni più scarni e diretti della raffigurazione, tuttavia pervasi di quell’irrazionalità totemica che tradizionalmente infiamma le leggende e le avvolge del suono apotropaico di campanelli indistinti nel vento. I brani particolarmente corti in minutaggio e un approccio meno stratificato, per quanto altrettanto ipnotico e ossessivo, non traggano in inganno: un’attenta visione d’insieme sarà in grado di disvelare un nuovo mondo di pattern e suggestioni inedite per il progetto svizzero quanto affascinanti.”

Un nuovo, esteso lavoro marchiato Paysage D’Hiver ma a distanza di meno di un anno dal precedente album: un evento che in tempi recenti ha quasi dell’incredibile e che in effetti lascia un po’ esterrefatti soprattutto di fronte alla qualità sonora che da sempre contraddistingue questo progetto e che continua a farlo in questa pure anomala tormenta di neve; se “Im Wald” poteva essere paragonato ad un viaggio silente, in mezzo ad una foresta inesplorata in pieno inverno, con tutte le sue scoperte e sfaccettature, il suo successore cronologico è la perfetta rappresentazione in musica di una ferale tempesta di neve più compatta ma vista da occhi di spiriti inquietanti, dove la chitarra e la batteria sono le assolute protagoniste contrariamente alla più solita visione d’insieme dilatata, con lo scream di Wintherr che echeggia da molto distante quasi ad impersonare il vento ululante nella tormenta di neve. Un album sicuramente molto più diretto rispetto al passato, non da ultimo per il minutaggio totale (anche se definire poca o ristretta un’ora complessiva di musica suona come una barzelletta), corredato ovviamente dalla solita produzione gretta e difficilmente intelligibile che vi soffia l’alone lo-fi per favorire astrazione, e che sa di novità e riconferma ormai nemmeno necessaria.”

I Vreid, giunti al capitolo numero nove della loro saga di vita, morte e tutto ciò che vi sta in mezzo, tra i paesaggi lunatici e riservati al solo intrepido che attendono pazienti spalancando le porte sul loro “Wild North West”. Season Of Mist ne spalleggia l’uscita discografica, loro girano un intero mediometraggio in supporto di storia e musica a dimostrazion d’essere una band con un amore per la propria creatività che ha pari in quello di poche altre al mondo.

Ritornano i norvegesi Vreid con il loro nono album ufficiale andando a rinvigorire una personalissima vena Black ‘N’ Roll che negli ultimi progetti discografici aveva concesso il ruolo di protagonista a soluzioni invece fortemente incentrate su orecchiabili linee melodiche. Con “Wild North West” si ha il giusto compromesso tra quella melodia, il gusto Rock ed il Metal estremo più annerito, dimostrando ancora una volta il perfetto grado di consistenza di questi artisti. Giusto per accontentare tutti troviamo anche alcune delle tracce più vicine ai Windir che si siano mai sentite produrre dai Vreid, come la penultima “Into The Mountains”, soprattutto per la qualità visiva delle liriche e delle atmosfere di trasportarci mentalmente proprio nel mezzo di quegli stessi monti esplorati dalle band della regione di Sogndal. Si tratta quindi senza dubbio di un album di un gruppo ormai navigato, anche di facile fruizione se si conosce la band, ma sicuramente piacevole e longevo grazie a qualche sperimentazione interessante (su tutte “Dazed And Reduced”) nonché fatto di apprezzabili richiami al passato.”

[…] Mai effettivamente paghi nello sfidarsi e nel cercare di mettersi di fronte a nuove prove da superare, i Vreid in “Wild North West” realizzano un album che, sebbene sia lontano dall’essere il loro migliore di sempre, è forse superiore a qualunque altro capitolo sotto il punto di vista della grande funzionalità e fluidità di ogni sperimentazione e di tutto ciò che, in un progetto tanto stimolante che prende forma in otto diversissimi capitoli, funziona con enorme naturalezza e vasta prospettiva evoluzionistica nonostante vi sia presentata la più grande eterogeneità spuria mai inclusa in un album dalla band; possibilmente tutta quella del luogo selvaggio ed incontaminato della creazione che sta tra Norðri e Vestri distillato nei solchi di un disco che canta tanto di azzardi e rischi quanto di completezza, di canzoni dalle evoluzioni senza precedenti nel loro operato, nessuna esclusa e quelle più atipiche finalmente in testa; come pure di una sempre più enorme capacità di usare colori e sensazioni per creare immagini da cui qualcuno torna vivo ma traumatizzato, alcuni non tornano fisicamente affatto ed altri -non più fortunatamente- in una bara di legno marchiata da una familiare falce bipenne.”

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“Come da copione per i quattro strumentisti, il “Wild North West” da essi tradotto su pentagramma si articola in scorci di grande personalità e ricchezza espressiva, questa volta accomunati però dal songwriting essenziale che ne puntella quasi tutti i capitoli. Rare sono infatti sia la rudezza catchy della trilogia bellica che le atmosfere notturne degli ultimi due lavori, magari sacrificate in nome di un concept di natura non soltanto musicale; qualche episodio risulta perciò meno immediatamente appagante (specie nelle fasi centrali, forse divorate dalla bizzarra piega presa dal racconto stesso), sebbene tanto nell’ottimo inizio quanto nell’affascinante conclusione i Vreid confermino la loro invidiabile caratura artistica e l’ispirazione intatta anche in un progetto di questo tipo, passo importante quanto riuscito in vista di una decima prova in studio che sappia evolvere i notevoli spunti qui seminati.”

Passiamo in conclusione a quelli che potrebbero essere giustamente bollati quali i grandi esclusi della rassegna, nonché possibili altri consigli ritagliati su misura in base all’esigenza personale del lettore: gli incubi più neri dei Syning (con il loro omonimo album di debutto forgiato dalle menti dell’iperattivo Tor-Helge Skei, aka Cernunnos nei Manes, e nidarosiani sodali V. Einride dei Whoredom Rife più Levninger dei Knokkeklang dell’apprezzato “Jeg Begraver”) ed il grigiore dei polacchi Mānbryne di “Heilsweg” (solo e soltanto in caso dopo due anni non siate ancora comprensibilmente riusciti a togliere dallo stereo per più di un paio di giorni “Age Of Excuse” dei Mgła – a patto di essere ben consci di poterlo ora alternare con qualcosa di non esattamente paritario in qualità) riservati ai più fedeli sostenitori delle sensazioni Terratur Possessions; i sempre apprezzabili Odal per chi invece della Germania a tinte pagane non ne ha mai abbastanza (con il loro solido “Welten Mutter”, fuori sempre per Eisenwald), e persino le fredde, parallele suggestioni ambientali alpine in onoranza del crepuscolo da parte degli ingiustamente poco reclamizzati Rauhnåcht (ricordate “Unterm Gipfelthron”?), condensate a fine mese in una lunga e riflessiva parentesi stilistica su full-length uscita per Antiq Records ed intitolata “Winterstille” – magari adatta come completamento a piacere dopo aver goduto di una serata a base proprio delle visioni d’Ungfell e Paysage D’Hiver?

 

Matteo “Theo” Damiani

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