Paysage D’Hiver – “Geister” (2021)

Artist: Paysage D’Hiver
Title: Geister
Label: Kunsthall Produktionen
Year: 2021
Genre: Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “Schattä”
2. “Bluet”
3. “Wüetig”
4. “Undä”
5. “Äschä”
6. “Wärzä”
7. “Anders”
8. “Schtampfä”
9. “Gruusig”
10. “Schuurig”
11. “Geischtr”

Nel cadaverico transito intercorso dalla morte di dicembre a quella fine che sancisce anche il decesso di aprile, dal passaggio del solstizio d’Inverno ai fuochi pagani della mitica Notte di Valpurga ardenti nella tenebra più lunga, nell’interminabile e nel suo rovescio, nel momento dell’inversione e del ribaltamento in cui i cancelli del mondo di sotto, quello dell’Inferno dei morenti e dei viventi si aprono e tutte le forze del male hanno finalmente il passo libero per compiere la loro fugace apparizione sulla terra inerme, addormentata, osservata, spiata ed infine strangolata nel sonno, così come in quello conseguente in cui una leggendaria, divina figura femminile dona nuovamente vita all’astro più luminoso del sistema in cui il globo terrestre è incluso rispedendo i demoni nel loro regno di ghiaccio bruciante, si demarca lineare la possibilità mitologica di un nuovo inizio – una soglia virginale e vestale oltrepassata, uno spostamento della realtà dai contorni inafferrabili, frastagliati, e persino l’evenienza per lo svizzero narratore solitamente extradiegetico d’impadronirsi con la forza bruta di mezzi che sono invece anche intra nonché omo-diegetici, da semplice autore onnisciente che tutto vede e tutto sa, dalla conoscenza complessiva estemporaneamente esclusa al fruitore, tramutatosi dialettale rimatore intrusivo che viene avvertito ed osservato a sua volta in un raffinato gioco prospettico.

Il logo della band

Il punto di vista pertanto cambia, ma non il terreno su cui si svolge e rivela la nuova – vecchia – probabilmente stessa – vicenda squisitamente aliena al tempo: è davvero il sogno ad occhi aperti del viandante, che nel suo distendersi in forma aurale incontra creature ignote da un’altra dimensione di conoscenza, o è forse piuttosto l’irriconosciuta realtà che impertinente fa capolino dal velo? Sono in fondo esseri spaventosi, quelli osservati con deferenza turbata dal viaggiatore protagonista del mondo Paysage D’Hiver in “Geister”, o siamo in realtà noi? Oppure, più presumibilmente, le due ipotesi coincidono e viene qui tratteggiata e sfumata un’umanità per qualcuno fatta di fantasmi, di concreti viventi terrestri che diventano obbrobri incomprensibili all’occhio puro dell’asceta. La meraviglia dell’eremita perso nel processo di esplorazione dentro ad “Im Wald” è di rimando sorvegliata con attenzione malsana da queste strane anomalie, pericolose ma bizzarre, spiriti ed ombre speculari all’umanità, alieni alla razionalità da sempre bandita dai reami dell’intangibile progetto svizzero; ominidi vestiti in maniera terrorizzante dalle tradizioni dell’uomo stesso ma sfuggiti all’uso e costume di quest’ultimo perché infine dotati di una vita propria come fossero oracoli bestiali il cui lungo, incolto pelo bianco che li mischia e sottintende parte integrante del regno delle belve, che li assimila alla licantropia, e i cui volti sdentati sono sporcati di nero come il manto nevoso dall’impronta più riconoscibile della terra.
È la figura del mostro: il non umano, il non animale, ma ciononostante corredato dalle caratteristiche comuni ad entrambi. Le tschäggättä visivamente impiegate da Möckl ne sono esempio lampante. La maschera non stravolge i connotati del viso d’uomo, né del grugno ferino togliendone e smussandone una qual certa brutalità, bensì come ogni esagerazione utile al veicolo della comprensione elementare evidenzia in modo molto semplice alcune caratteristiche che già sono presenti ed immediate – che già esistono tanto in noi abitanti della Terra per il mistico Der Wanderer quanto nelle creature le quali davanti ai suoi occhi increduli infestano i sobborghi sperduti e gli stretti antichi vicoli, terrorizzandone la popolazione indigena e lo stesso viaggiatore capitatovi durante l’ascesso allucinatorio, che impaurito ed immobile osserva e viene osservato da mostri ricoperti di pelo irsuto e folto, pellicce di capra, di porco e toro scuoiati per sopravvivere come solo loro possono al freddo disumano delle loro povere abitazioni di legna accatastata: sguardi vuoti, osceni, incorniciati di capelli così bianchi e candidi da sembrare argentei alla luce delle torce, adorne di campanacci e sonagli dal suono ripugnante nel canto ambientale della natura che spazza e domina il paesaggio circostante i grandi, affilati denti e le corna di vacca sui loro capi – sopra stravaganti volti fatti di legno di pino cembro plasmati dal carattere irruento in una processione spontanea di undici celebrante i riti dell’inverno, trasportando al di là dei pericolosi confini tra umano e fantastico che -storicamente, dall’ecocriticismo alla filosofia epistemologica e naturale- proprio nella razionalità e nell’annoso quesito sul bestiale, sull’animale, sul degenerato presente e sopravvissuto nell’uomo risiedono.

Wintherr

Ma è invero il passo oltre, verso un’angoscia che nasce nell’uomo e dal suo involucro esterno si espande, rifratta come frequenze imperscrutabili sul manto candido che ricopre gli alti monti che accolgono la vallata del Lötschental, del Canton du Valais, sulla vita e sulla non vita attorno a sé – finendo per diventare esistenza in sé, ormai incontrollabile ed ancor più fobica. I nostri orrori raramente prendono la forma che attendiamo scaramanticamente, e quelli di Wintherr sono affascinanti, sgangherate versioni di krampus sdentati, deformi, sformati, del folklore che cerca di dare risposte alle domande che non afferrano l’inspiegabile, il mostruoso, che creano le urla disumane e distorte che respingono inquietanti, che danno vita alle degenerazioni crocevia di bestia e uomo, forti degli aspetti non migliori ma peggiori di entrambi. Non è una parodia, “Geister” è in un modo sottilissimo eppure impossibile da ignorare ricoperto ed intriso al tempo stesso di località (del folkloristico in cui risiede il cuore della trasformazione – sociale o fisica che sia), in una lingua incomprensibile, in suoni pieni di minaccia, aspri come tozzi denti acuminati che tagliano, spezzano e macinano carni ed ossa – come assassini nella foresta, come ombre e grigi membri di una congrega d’incubo, terrore reso udibile in uno squarcio pendant le rêve lucide che apre quella seconda metà di viaggio nella foresta precedente l’apparizione, al suo centro, di questi insoliti spiriti terrestri. L’aspetto fiabesco è qui unilateralmente rovesciato, gli stilemi atmosferici Paysage D’Hiver seguono di conseguenza, ma quel che non ha necessità di essere slogato è l’immaginario popolare, perché primordialmente già spaventoso di suo: non fantasia ma realtà vista tramite gli occhi del mito dalla comunità. Così tra i passaggi serrati e diabolici, quasi sabbatici di “Anders” i passi pesanti di presenze tremende sulla coltre fredda prendono vita, hobgoblin ridono, fantasmi ululano come vento, spettri tremano come fiaccole nella notte, fantasie abominevoli e figure stregate appaiono in forme di ogre che nella crudelissima “Wüetig” e nei suoi rintocchi letali cuociono futuri cadaveri d’infanti urlanti sulle loro graticole tra i crepacci sulle montagne, donne informi e maligne ingrassano i loro prigionieri affinché siano succulenti per le tschäggättä a valle, in una iperbole di tagli e sacrificio dove ogni elemento diventa strutturale nonché strettamente necessario. Lo dimostrano i timing oltremodo contenuti che sottolineano loro volta una compressione, una concretezza terrena assolutamente inedita per i Paysage D’Hiver, lo confessano l’importanza e consistenza viscosa del bass work ipnotico (“Schattä”, con i suoi gustosissimi movimenti concentrici ed evoluzioni atmosferiche sotterranee), i tempi medi e pieni di groove di ogni brano nonché l’accumulazione di aspetti d’arrangiamento per trasmettere melodie forti, così forti da sembrare già assimilate dense nel sangue dell’ascoltatore – “Bluet”, tra inaspettati riff Black ‘N’ Roll di scuola primi Disiplin (peraltro non alieni al resto dell’album, basti l’inizio di “Schtampfä”) gioca finanche con mordi e fuggi d’industrialismi tastieristici à la Darkspace -la cui latitanza compositiva si fa presumibilmente sentire più forte del previsto tra le tenebre di “Geister”– e quasi assimilabili alle aperture dei Samael del tutelare “Passage”.
Lo stile diverso ma non stravolto mostra come tra la trasfigurazione umana, quella materiale e mortale del vagabondo, e quella dell’orrore dei prodigi fantastici, delle manifestazioni che popolano i solchi di “Geister”, non vi sia una reale dicotomia – i mostri sono del resto antropomorfi, ma possono sentire la voce e vedere la luce della ragione solo perché provvisti di forma umana? Vi è una metanarratività sublime nel nuovo parto di Tobias Möckl, in cui la fiaba dei precedenti capitoli in ordine cronologico si guarda allo specchio, in quel riflesso opaco di ghiaccio e neve a perdita d’occhio e cerca di trovare risposte nel mistero di “Wärzä”, nei rallentamenti di “Undä”, così come nel fuoco raw, battente e strepitante della trascinata “Äschä”. L’intertestualità con “Im Wald” è grande, ma non meno impressionante è quella con lo stesso altro progetto di Wintherr nei panni diversamente extraterrestri di Wroth: quando, con un’insistenza pari solo a quella di un paio di capitoli di “Winterkälte”, voliamo oltre le sfere del materiale e del terreno verso il mondo degli spiriti che osservano per una volta l’umano orgoglioso della sua goffa antropocentricità fallace per quel che realmente è -un abominio immane- deridendolo dall’alto della loro incorporeità finale, lo storyteller usa tutti i mezzi a sua disposizione per dipingere sulla tela di suono una storia nuovamente differente, in cui ogni brano termina come un sogno torbido abbandonato allo spirare gelido del vento, prestato al canto di demoni di cristallo d’immortaliana memoria fattisi roitschäggätta, ancora una volta inno all’abbandono della razionalità e dell’analisi, i cui privilegi sono gradualmente smantellati in favore di quelli ancor più aguzzi della percezione.
E non meno squisito è dunque come sul finale la fantasticheria degli esseri spiritualmente travestiti inizi a vacillare per restituire l’esploratore, non dimentico protagonista dell’universo tematico del musicista svizzero, al suo mondo ultraterreno: l’incanto seducente degli arpeggi che allargano “Gruusig” riavvicinano non per caso al finale maestoso ma non disponibile a chiunque di “Im Wald” (“Kälteschauer” e “Weiter, Immer Weiter”), gli ampliamenti magnetici alle chiusure iniziali e la lentezza Doom di “Schuurig” e la rarefazione della conclusiva, interessantissima distensione d’Ambient in dieci minuti intitolata “Geischtr”, riportano tutta l’ipnoticità dei Paysage D’Hiver nel lettore pronta a fare da ponte ancora una volta con il resto della discografia in cui “Geister” va incluso in soluzione necessariamente atemporale.

Fermarsi, soffermarsi con pazienza a cercare ciò che da Wintherr è stato meticolosamente, diligentemente nascosto tra le immagini inedite congiurate in musica lo-fi per una necessità espressiva che (servisse!) è qui tradita e svelata a più riprese, tanto nel rumore quanto nei silenzi e sussurri atmosferici pieni di significato e di paura, di fascino e di quel limbo tra i due che repelle quanto attira pericolosamente a sé, e pertanto tanto cacofonico e difficile sulle prime quanto additivo e seducente col passare degli ascolti – questo resta l’imperativo ieri quanto oggi per la comprensione di qualcosa che sicuramente si propone diverso per struttura e dinamiche da ciò che potrebbe essere considerato un più usuale o solito lavoro targato Paysage D’Hiver dall’ascoltatore occasionale (come se, del resto, le sottili differenze di approccio e sfumatura legate alla narrazione tra “Schattengang” e “Kristall & Isa”, per dirne soltanto due, non serpeggiassero poi nell’intero operato dell’artista elvetico), ma non tale nel sentimento né nell’anima.
Un disco meno sognante, più palpabile, concreto e brutale per la sua natura lirica efficacemente traspostavi, eppure al solito anche sfaccettato e profondo, graziato da svariati livelli di lettura, forse persino più fine di altri acclamati capitoli nel modo in cui nasconde svariate idee musicali sotto alla coltre di monotonia alienante: “Geister”, vento che spazza pietraie e monti d’arido bianco, proprio nella coerente immedesimazione e descrizione del corrotto, del degenerato, nell’homo homini lupus e nel lupus est homo homini riesce ad essere altrettanto gelido e sottile come d’attesa e speranza di percorso, ma persino più energico che mai; riesce a creare un monolite di diversità compatta nel catalogo ad incastro del suo autore e allo stesso tempo ad espandere la sua inconfondibile firma, la sua visione ed unico taglio di Black Metal nell’intero panorama con nuove tinte ad oggi ancora inesplorate in un simile contesto – non più musica per vagabondare, sebbene sia al solito musica per l’anima e non per il corpo, ma per balli indiavolati accerchianti pire rituali nella notte e mascherate per le viuzze tinte d’incolore, a cui il nomade forestiero dimensionale solitario prende parte suo malgrado e paralizzato dal panico, interrompendo per un’ora e dieci di grandiosa storia nella storia il suo cammino prima di tornare infinitamente più ricco in prospettiva e comprensione sui suoi passi.

Matteo “Theo” Damiani

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