Vreid – “Wild North West” (2021)

Artist: Vreid
Title: Wild North West
Label: Season Of Mist Records
Year: 2021
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Wild North West”
2. “Wolves At Sea”
3. “The Morning Red”
4. “Shadows Of Aurora”
5. “Spikes Of God”
6. “Dazed And Reduced”
7. “Into The Mountains”
8. “Shadowland”

Ombre angoscianti si allungano verso l’esterno marchiato dal diverso e dall’avventura lontana dalla comunità, verso l’esteriore ed il discordante che si contrappongono estranei, altri e quasi alieni a ciò che respira latente e recondito dentro il selvaggio nord; all’interno di quell’amato quanto spietato north west che vi sta accanto nella cartina mentale dei Vreid, differente eppure parente al resto della comune anima scandinava che gli infonde vita, proni a rendere costantemente omaggio all’epica cronistica, mitica e soprattutto personale della propria terra sia intesa come nazione dalle coordinate geografico-narrative che come ben più ristretto nucleo familiare, agricolo e pastorale, macchiato di ascendenza storica, di stirpe, di lignaggio. Esiste del resto il mondo reale, quello che sta fuori, e poi v’è quello realmente incontrollato, un po’ nascosto persino a noi stessi, impossibile da addomesticare ed imbrigliare che sta invece dentro – quello della follia, della demenza, della reclusione mentale, della matta lotta con le proprie nemesi e quello delle proprie pulsioni e seti troppo spesso castrate, dei propositi frantumati o preclusi all’animo artistico e di ciò che disastroso per la psiche ne consegue sul lungo periodo; i norvegesi però, veterani non anagrafici bensì tali per vittorie e meriti conseguiti in prima linea sul campo di battaglia, maggiormente animati ormai non si coglie più bene se dallo spirito del più testardo dei do it yourself o da quello della propria e da sempre malcelata life-hunger, a piangersi addosso e divenire vittime delle circostanze -tantomeno di loro stessi- non ci sono mai stati. Tenuta da conto quindi la particolare situazione sociale globale senza precedenti in cui questo trova la sua genesi, non stupisce troppo che per la pubblicazione del nono passo in sala di registrazione la band intraprenda un progetto che da quelle strette mura fuoriesce, che fugge persino dai 1184 Studios quartier generale della scrittura, e dal controllo di qualunque mano esterna per divenire un più grande piano di creatività e coerenza artistica fattosi disco.

Il logo della band

Un nuovo album, una nuova storia da narrare, ma anche un film: “Wild North West” prende quasi tutto ciò che è stato fatto dai quattro musicisti di Sogndal a nome Vreid nella quindicina d’anni abbondante dal debutto, non solo musicalmente, e lo reinventa rivedendolo tramite le attuali lenti e le correnti possibilità d’esplorazione singolare del proprio nord-ovest metaforico, allungandolo tra passato e futuro nel tentativo costante di proseguire sempre oltre i propri precedenti limiti e persino, come peraltro già accaduto in quasi ogni episodio discografico del gruppo, oltre quelli fisiologici dell’età e del tempo che scorre. L’intento, nel particolare, è di sicura ambizione e difficile riuscita; otto tracce che non soltanto narrino una ricostruzione pericolosamente danzante a metà del limbonico girone tra il mondo del vero e del fictional, del concreto e dell’irreale, dell’evento biografico e del patriottico o della pura immaginazione malata o direttamente distopica, ma che bensì accompagnino la ripresa di un effettivo corto-mediometraggio insieme al regista Håvard Nesbø di cui i tre quarti d’ora compatti e variegati del lavoro numero nove del casting Hváll, Sture, Steingrim e Strom vi aderiscano quali colonna sonora effettiva, suonando pertanto strutturalmente filmiche eppure lavorando generosamente, in un autentico azzardo compositivo degno dei musicisti più scafati nel genere, su due distinti piani di possibile ricezione; da un lato, quello più profondo ed avvincente del concept narrato, del viaggio verso la fine che il protagonista innominato alla volta serale del misterioso, dell’eccitante e pericoloso nord-ovest abbandonato compie, risvegliandovisi intrappolato forse per sempre e scoprendo che il mondo di dentro come quello di fuori possono essere i più duri dei contesti (e si badi, questo è vero nonché facilmente afferrabile senza la benché minima necessità del film a corredo) – dall’altro, quello di pezzi evidentemente ed appositamente scritti per suonare particolarmente godibili ed orecchiabili nella tradizione del gruppo, catchy tuttavia perché frutto dell’enorme e naturale alchimia strumentale tra i pochi, fedelissimi musicisti e tecnici coinvolti tanto nella crescita della band quanto nella realizzazione del suono. Al novero fraterno dei quattro si aggiungono infatti letteralmente solo le tastiere addizionali di Espen Bakketeig, di fama Mistur (già parte del gruppo sul palco all’epoca del tour celebrativo dei Windir e del Sognametal nel 2014), e la produzione a sei mani di Anders Nordengen, di Helge Bentsen responsabile del mix e dell’ingegneria di mastering di Tony Lindgren presso i rinomati Fascination Street di Örebro.

La band

In un riuscito gioco di contrasti e revisione, è ciononostante proprio dall’impalcatura audio che i Vreid scelgono di risultare questa volta meno cristallini ed immediatamente intelligibili rispetto alle esplorazioni più palesemente melodiche sia di “Lifehunger” che di quelle più intricate, dure e progressive di “Sóverv”. Il pregevolissimo lavoro armonico di basso si ritaglia netto e più tangibile che mai nelle trame sporche tanto nelle accelerazioni quanto nei più concitati momenti travolti da cavalcate e repentini blast-beat serpeggiandovi negli stretti meandri, ora veloce per anticipare subliminale ed introdurre silenziosamente gli assoli dello shredder Strom, ora lento e rigoglioso per intrappolare tra le sue spirali paludose in minore: si vogliano prendere come esempio in particolar modo gli inserimenti ritmici fulminanti della title-track che apre il disco -incastonati sullo squisito stacco melodico centrale dopo un vero gioco di prestigio di batteria, ma anche duettanti in modo raro con la voce nel ritornello- o quelli della partenza defribrillatrice del proiettile sottomarino “Wolves At Sea” (per apporto melodico interno all’orchestra di caos e distruzione, l’episodio più grandioso dell’album insieme al maestoso brano finale) – tutti sono avvolti da una patina di suono piacevolmente ovattato e rétro che rende meno nitido l’operato in particolar modo su piatti e grancassa, quindi quasi stordente sulle prime. E “Wild North West”, fin dall’apertura omonima, fa così l’orlo alle similari precedenti composizioni (tanto ad una “Black Rites In The Black Nights” quanto ad una “Way Of The Serpent”) non senza il merito di una rinvigorita carica Black ‘N’ Roll centrale alla scrittura che, da qui, rimanda diretta agli inni in mid-tempo sciorinati in particolare tra il 2006 ed il 2011, mostrandosi in perfetta comunione con il tono spesso virante dal cuore di freddo stilisticamente nordico (quello dell’eloquente “Into The Mountains” che include persino materiale demo scritto da Hváll insieme a Valfar nel 2003 e per forza di cose mai concluso, e coerentemente l’omaggio più esplicito e vicino ai Windir della storia del gruppo) in polverosi territori da Folk western (non solo con le chitarre che aprono, comunque ben poco ermetiche, le polveri dal gusto seghettato dei palm-muting smaccatamente Metallica del quarto brano). Dopo la sperimentazione straniante di “Hello Darkness” in “Lifehunger”, in questo senso, i Vreid non scelgono infatti fortunatamente né la vicina strada dei Tribulation o dei Cloak -per intendersi quella del suono Watain prestato al mondo Rock– né quella più complessa e tecnica degli ultimi Death vestiti di nero nell’ormai lontano “Welcome Farewell”, bensì quella estremamente personale di una giustapposizione sottile che si evolve con fare altrettanto naturale nella solitudine beatamente confusa di una “Dazed And Reduced” a dimostrazione di una band la quale, nel bene quanto nel male, ha ufficialmente fatto pace coi suoi demoni del passato -da “Empty” del 2004 ad oggi- e dunque si trova più a suo agio che mai in panni classic e ‘70s, con tanto di voce stralunata à la Bowie che flirta con il carattere perso di uno Snake nei Voivod di “Into My Hypercube” o “Angel Rat” prima di annerirsi con umbratilità goth; discorso ancor più vero in “The Morning Red” dove la circolare pesantezza Heavy iniziale rilascia in sviluppo la tensione accumulata verso la tessitura di un’atmosfera da incubo spezzata dalle ombre dell’aurora, tra Thrash e Speed Metal sporcati di nero verso le porte che aprono alla seconda parte di album nel modo più violento possibile: l’inferno attende all’ingresso del manicomio in musica che è la tiratissima “Spikes Of God”, morsa cerebrale alienante per violenza e per l’intensità accumulata dalla band a quell’ansiogeno punto della narrazione, puntualmente aperta dalle urla effettate di Sture divenute meccaniche e fredde come il ghiaccio nella trasposizione dell’essere mortale che cerca la perfezione allontanandosi irreversibilmente dalla sua preziosa umanità nello sforzo di raggiungere la potenza e l’infallibilità di un dio. Arpeggi disarmonici, tirate atonali e un’atmosfera tutta sinistra fatta di elettroshock ritmici e gustosi ricami solistici finali sono gli ingredienti ricercati della valicata musicale che, senza pretesa di una ormai inutile omogeneità, porta dritta ai risultati dei dieci minuti conclusivi: la perla “Shadowland” fa in tutta ammissione attendere fino alla sua seconda metà per mostrare il suo intero enorme potenziale melodico – e tuttavia quando lo fa, insieme alle suggestioni d’inizio disco e specialmente a quelle immerse nella velocità della micidiale “Wolves At Sea”, porta finalmente i quattro a superare con successo selezionate e raffinate caratteristiche che fino ad ora erano rimaste proprie solo del mai troppo celebrato “V”.

Lontani forse, in termini generali, dai colpi da maestro compositivi anche solo di un “Milorg”, nonché dall’aver confezionato il loro album migliore di sempre per via di un’aderenza musicale, di una motivazione sfrenata alla narrazione che -sebbene sia lodevole e rara, senza per di più neanche avere necessità d’impiegare l’escamotage di sample o rumorismi ambientali- se si vuole è un po’ croce e delizia dell’album al contempo, nonché per l’assenza fisiologica alla comprensione del concept della madrelingua norvegese (che, come ormai abbondantemente assodato nel non solo -ma principe- esempio del longevissimo “Sólverv”, permette ai quattro di veicolare su metriche più naturali al meglio anche la proposta della musica), i Vreid in “Wild North West”, mai effettivamente paghi nello sfidarsi e nel cercare di mettersi di fronte a nuove prove da superare, ne realizzano tuttavia uno superiore forse a qualunque altro loro capitolo sotto il punto di vista della grande funzionalità e fluidità di ogni sperimentazione e di tutto ciò che dovrebbe -sulla carta- essere strattone stilistico e che invece, in un progetto tanto stimolante che prende forma in otto diversissimi capitoli, funziona con enorme naturalezza e vasta prospettiva evoluzionistica nonostante vi sia presentata la più grande eterogeneità spuria mai inclusa in un album dalla band; possibilmente tutta quella del luogo selvaggio ed incontaminato della creazione che sta tra Norðri e Vestri -ma si faccia attenzione: quello squisitamente visto e vissuto dai Vreid e da nessun altro- distillato nei solchi di un album che canta tanto di azzardi e rischi quanto di completezza, di canzoni dalle evoluzioni senza precedenti nel loro operato, nessuna esclusa e quelle più atipiche finalmente in testa; come pure di una sempre più enorme capacità di usare colori e sensazioni per creare immagini da cui qualcuno torna vivo ma traumatizzato, alcuni non tornano fisicamente affatto ed altri -non più fortunatamente- in una bara di legno marchiata da una familiare falce bipenne.

Matteo “Theo” Damiani

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