Ungfell – “Es Grauet” (2021)

Artist: Ungfell
Title: Es Grauet
Label: Eisenwald Tonschmiede
Year: 2021
Genre: Folk/Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “Es Grauet Überm Dorf (Wie S Niemert Het Chönne Ahne)”
2. “Tyfels Antlitz (Wie E Huerä Zwei Chind Empfanget)”
3. “D Schwarzamslä (Wie Us Däne Goofe Pfaffä Wärdet)”
4. “Mord Im Tobel (Wie En Hinterhältige Mord Begange Wird)”
5. “S Chnochelied (Wie E Beschuldigti Gfoltered Wird Und Visione Bechunnt)”
6. “Stossgebätt (Wie Das Wyb Als Häx Hygrichtet Wird)”
7. “D Unheilspfaffä Vom Heinzäbärg (Wie Tod Und Verdärbe Uf Das Dorf Iistürzt)”
8. “S Fälsebräche (Wie S Böse Begrabe Wird)”

Le pesanti porte nodose di una stamberga malfamata, intarsiate, umide e visibilmente imbarcate dalla dura escursione atmosferica che ogni anno si ripete tra l’inverno secco e la primavera fresca, da tempi che sfuggono alla memoria persino del più attempato abitante della valle un’altra volta sopravvissuto alle carezze della signora di nero vestita, si aprono rumorose allo sconosciuto forestiero non senza un udibile cigolio sinistro: gli schiamazzi pazzi, fortemente inebriati d’alcol ed ancor più inebrianti di colori lo divorano accogliendo ambivalenti il malcapitato spettatore come fossero il clangore d’armi spuntate, in verità anche un po’ arrugginite e mal prestate ad eventuali battaglie di gloria come intorpidite si mostrano, del resto, anche le fattezze di coloro i quali le brandiscono o che stringerle -ne fossero ancora in grado- dovrebbero; come se il ventre della terra fosse stato squarciato senza remore e la rossastra visione si aprisse parziale a bizzarre creature diaboliche che ai bagordi della notte si danno senza freno per scaldarsi nell’ancora fredda sera del villaggio nascosto dall’orografia della conca alpina, in mezzo ad alti monti e boschi oscuri. Tra demoni, spaesati umani, mostri orribili, religione, crimini nefasti e tradizioni che a questa sfuggono come schegge impazzite e veloci in ogni direzione, che corrono lontane da qualunque parvenza di ordinaria ragione, gli Ungfell alle prese con il loro terzogenito abortito mettono in musica gravemente visiva una storia fittizia dal carattere universale (immediatamente sottolineato, peraltro, dallo stesso non-nome parlante del non-luogo ove l’intreccio dei fatti narrati con personalità si disvela) ma dal sapore ciononostante estremamente locale: montana e svizzera come tutto ciò che più spontaneamente vi viene associato, ma originale come ad oggi non era mai stata.

Il logo della band

Nella quarantina di minuti d’unicità tormentata da ascoltare, da vivere e sentire d’un solo fiato, senza pause (peraltro evidentemente non previste dalla composizione a guisa di fiume della band) come si trattasse di un unico movimento fedelmente orchestrato mentre il cielo sopra l’apparentemente tranquillo kleines Dorf si fa sempre più nero e un insospettato pandemonio attende senza proferir preavviso, il curato e pittoresco concept album che attende in “Es Grauet” non può che affascinare in modo irrimediabile tutti coloro che dalle particolarità di “Mythen, Mären, Pestilenz” o anche solo di “Tôtbringære” sono già rimasti ammaliati: dallo sperduto borgo rurale, idilliaco soltanto se adocchiato dalla lontananza dell’ultima sommità lungo l’unica ed obbligata strada che vi conduce, in cui si susseguono gli orripilanti fattacci di gretta diavoleria incantata messi in musica con magie acustiche e terrore elettrificato da Menetekel e Vâlant, non v’è alcuna possibilità di autentico ritorno. E nella masnada di strambi diavoli pedinati in orrori senza tempo nella loro traversata assetata di sangue da un villaggio alpino all’altro, sotto a nubi che mutano in grigio cenere, uno in particolare fa sosta nell’isolato centro abitato per quella che finisce con lo svolgersi quale una fiaba dal sapore tetro a metà tra i più ripugnanti aspetti dei celebrati Fratelli Grimm e dell’altrettanto sconcertante e sottile Andersen, o le contemporanee passioni Folk Horror nella cinematografia dei cui stratagemmi visionari, sebbene cautamente privati di filtro in bianco e nero, così spesso e volentieri gli Ungfell fanno bandiera ed alabarda espositiva.
Questo si dimostra vero non soltanto nella comunque particolarmente efficace giustapposizione di lontani vagheggiamenti religiosi, di salteri e di un’arcaicità immediatamente premoderna che nondimeno suona pagana, stregonesca e popolare quando non direttamente tradizionale, ma innanzitutto con l’uso di un dialetto di non immediata comprensione anche per coloro i quali dovessero conoscere e padroneggiare la lingua tedesca (e che comunque lascia sempre trasparire, anche visivamente, una certa avvincente urgenza fin dalla prima pagina sfogliata e frase cantata), che carica di una ancor più grande, preponderante immersività l’ascolto – non limitantesi quindi alle caratteristiche inevitabilmente curiose che, attenti, ritmo e sapore dell’idioma creano all’orecchio sprovvisto d’abitudine al suo suono, ma stringente proprio per la qualità di detto-e-non-detto lirico a lasciare costantemente qualche ombra sulle reali intenzioni comunicative del duo (pareggiato probabilmente non a caso con la scelta, sulle prime straniante o quantomeno curiosa, di non fornire testi per il centrale brano numero cinque); come a voler coscientemente rimuovere un tassello dalla figura complessiva del mosaico e permettere così al lettore-ascoltatore di riempirlo a piacimento con l’uso della propria fantasia: l’ultimo vero baluardo d’insostituibile oscurità che deve necessariamente frapporsi tra il disco e la sua riuscita finale affinché questa possa diventare veramente personale, un’esperienza seriamente unica per coloro che vi si approcciano. In uno sforzo concettualmente non dissimile da quello dei più grandi interpreti del genere, la band arriva lucidamente fino ad un certo e volontario punto, mentre il resto del lavoro è coscientemente ed eloquentemente lasciato a chi il disco vuole farlo proprio – a partire da una copertina francamente favolosa. Perché, come d’altro canto la sua stessa storia insegna tramite la sequela di tragedie disumane e gotiche che colpiscono la piccola ma intimamente disgregata comunità cittadina sotto forma di deformità, omicidio (non sarebbe poi meglio utilizzare il plurale?), dell’incomprensibile e di accuse infondate che portano sia l’ascoltatore che gli addidanti fuori strada lungo il suo percorso di giudizio ottuso mentre orrori e dissolutezze impostesi in pubblica piazza superano l’ebete, bovina e ristretta comprensione degli abitanti locali – non tutto è come appare a prima vista e i semi del male si nascondono sempre dove meno li si aspetta.

La band

Ambiguità umorali e spirituali si susseguono quindi (si prendano in esame i grandiosi stratagemmi incastonati nella conclusione tra la spettacolare “D Unheilspfaffä Vom Heinzäbärg” e “S Fälsebräche”, ma anche soltanto quelli nella narrazione strutturalmente di passaggio in “D Schwarzamslä”) magnificamente deconcentrate, disturbate nelle pieghe imprevedibili che la musica compie ad ogni proverbiale angolo della scrittura e degli arrangiamenti che curatissimi la supportano infedeli; dalle più recenti medievali ampiezze regali dei Sühnopfer a quelle stridenti dei Misþyrming di “Algleymi” e degli Ultra Silvam di “The Spearwound Salvation”, passando per lo sghembismo d’innegata ed ormai più che ovvia matrice Peste Noire (non bastasse l’inizio del disco nella presentazione di toni ed atmosfere “Es Grauet Überm Dorf” confrontato con quello di “La Chaise-Dyable”, si prenda d’esempio anche solo la decostruzione dell’assolo convulso piombato senza preavviso dal nuvolone “S Chnochelied”) filtrato tramite la densità melodica così spesso iper-frenetica degli Abigor, in un bagaglio intricato, cupo ed euforico al contempo, gli Ungfell raramente ripetono con fedeltà d’iterazione sia le infiorescenze di ripugnanti riff melodici che le iperattive strutture ritmiche (nonostante entrambi gli aspetti, seppure fulminei, mutino ed evolvano rivisitati l’uno nell’altro non privi di gustosissimi passaggi più concreti – si ascolti anche giusto il cambio di tempo in “Tyfels Antlitz”) danzando costantemente al limitare tra l’estrema, nevrotica stimolazione percettiva, e l’impossibilità sempre data per scampata all’ascoltatore di trovare ganci e vie di comprensione nello svolgersi della musica per la rapidità frenetica che proprio nella sua travolgente cacofonia di furia e sbando si fa splendidamente magnetica ed immersiva.
La sfida all’ascoltatore non esagera pertanto mai nel provare a stupire e pungolare, a strafare per il mero gusto di osare; piuttosto, raccoglie costante tutte le sue forze nella tessitura atmosferica inedita che sublima nell’utilizzo continuo di sample non di corredo ma integrati nella forma delle canzoni, perfetti per far visualizzare gli eventi che occorrono in tempo reale nella narrazione (associata ai momenti d’interludio musicale nel booklet) tra un canto lirico e l’altro. Tra prosa e rima, così, gran parte del merito nella resa tanto vincente della formula va attribuito al sapore intimamente folkloristico che colora fin dalla sua concezione il particolare Black Metal degli Ungfell. E per molti versi questo è tanto spesso più un Folk Metal inquieto e grottesco che non Black Metal, come dimostrano -ben oltre le già dichiarate intenzioni che comunque emergono per tutto l’album, all’incorrere di ogni irresistibile ritornello a partire di quello del primo brano- le evoluzioni metrico-stilistiche di “Mord In Tobel” ma anche la parte che porta al break acustico della favolosa “S Chnochelied”; e conseguentemente l’organicità della produzione, il calore avvolgente con cui la band veste “Es Grauet” porta ad immergersi totalmente e naturalmente nei mulinelli e nelle rapide che la voce, al solito sopra le righe (ma oggi anche finemente corale, come dimostrano i grotteschi picchi drammatici ironicamente ingigantiti qua e là), completa sopra all’uso connaturato di violoncello (fortunatamente ben oltre l’episodio sprecato sul finale di “Raserei Des Unholds” nel precedente disco) articolato attraverso momenti unici di chitarra acustica, di un campanile a risuonar lontano dalla sua torre prima di cadere soprafatto dalle forze del male, imbrattato con eleganza di archi, dei fiati dal sapore medievale, da bombarde e tamburini, fisarmonica e scacciapensieri, nacchere e hackbett, persino del canto jodel (“S Fälsebräche”) in maniera del tutto insentimentale, sempre seppelliti (eccezione fatta per “Stossgebätt”) con la stessa frenetica velocità e rabbia con cui vengono introdotti e presentati.
Nell’estrema narratività sensoriale della musica, costanti vengono sputati i momenti memorabili in grado di far uscire da ogni movimento musicale -una nobile opera teatrale complessiva che veste panni dei più popolari- tutta la sua distinta personalità, tridimensionalità, il suo fascino alieno ad ogni collega in tracklist senza che nessuno possa tuttavia mettere in ombra gli altri in viziosi eccessi stilistici. Il dettaglio permette sì la memorizzazione immediata di passaggi e minuzie, ma tutto viene inserito con una praticità quasi accademica nel caos complessivo, ordinato come si trattasse di una composizione col gusto di musica da camera prestata all’esecrazioni popolari, al Progressive Rock settantiano privato di un qual certo barocchismo (i Tritonus di “Between The Universes” non solo citati ad alta voce come motivo d’ispirazione per il verso d’apertura della ballata “Stossgebätt”, bensì richiami al genere tutto incorrono imparentando “Nattens Madrigal” ai rumori dei Gnidrolog o incrociando tastiere moog nella seconda metà di “Mord Im Tobel”) comunque adattissimo per la polifonica consegna di messaggio e colori in favore della storia che sottostante galoppa poderosa, che si affretta e si svolge in colpi di scena sotto al dedalo degradato di tornanti, canzoni ed intermezzi che scorrono finalmente come unità inscindibile.

Ma in ultima analisi è proprio la commovente attenzione e profonda ricchezza folkloristica il cui valore è oltremodo intensificato come si trattasse della fabbriceria di stregoni in “Es Grauet”, ad elevarlo immediatamente al di sopra di qualunque altra prova dagli Ungfell in precedenza firmata, zoccolo cavo marchiato in calce, in una formula -in una dimensione irreale quanto propria, persino- che innegabilmente li propone oggi al loro attuale picco di ambizione creativa ed audacia artistica nonché al loro momento più longevo, riuscito e pungente: partendo dalla sempre più raffinata composizione di Menetekel per giungere alle rullate deliziosamente ‘90s di Vâlant a completarne i movimenti spezzati e circolari, giunti ad una sublimazione tale da riuscire a condensare potenziali ore ed ore ancora di scrittura estremamente diversificata quanto coerente in meno di tre quarti d’ora d’intensità, di agitazione e labor limae stipati in ruvida, deforme cornice. Non lasciando che la musica respiri mai troppo a lungo o troppo ampia, impedendo ai passaggi, ai paesaggi che crea nitidi come la morte e la perdizione piombati sul villaggio, agli stati d’animo che genera e persino alle note suonate di perdere d’interesse rimanendo sospese nell’etere per un certo periodo di tempo -ai fini della composizione sempre percepito dagli autori come troppo lungo- prima di lanciare un’altra scarica di centrifughe di riff e ciononostante, per mezzo di una struttura e mise en place pienamente centrata, rapire senza sosta raggiungendo splendidamente l’obiettivo di realizzare un disco d’atmosfera sempre enfatizzata e più unica che rara: odiosa, densa, colorata, completa, speciale.

Matteo “Theo” Damiani

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