Paysage D’Hiver – “Im Wald” (2020)

Artist: Paysage D’Hiver
Title: Im Wald
Label: Kunsthall Produktionen
Year: 2020
Genre: Ambient/Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “Im Winterwald”
2. “Über Den Bäumen”
3. “Schneeglitzern”
4. “Alt”
5. “Wurzel”
6. “Stimmen Im Wald”
7. “Flug”
8. “Le Rêve Lucide”
9. “Eulengesang”
10. “Kälteschauer”
11. “Verweilen”
12. “Weiter, Immer Weiter”
13. “So Hallt Es Wider”

Poche creazioni umane diventano col tempo profonda manifestazione tanto precisa, lucida, ed intensa autodidattica di un fenomeno prettamente naturale che viene vissuto, compreso in solitaria analisi e solo successivamente inderogabilmente distillato con cristallina chiarezza nella manipolazione di onde con la fedeltà tassativa che le parole non potrebbero mai restituire, e con cui al contrario Wintherr dà genesi alla sua opera; il grado di imitatio tale da divenire metafora sensoriale della stessa fenomenologia in analisi. Una miniatura a specchio d’ispirazione dal carattere trascendente e mistico, di estrema, estatica ed esasperata lontananza dall’umano, dell’insormontabile mistero; del momento intoccabile, altresì, in cui tutto dorme e si rivela per ciò che esattamente è – puro, spaventoso ed infinitamente più vasto della vita.
Poche cose al mondo sono pertanto sicure quanto lo è lo stile inemulato di una nuova uscita targata Paysage D’Hiver. Eppure, per qualche ragione che ha quasi dell’inspiegabile, dell’insondabile ed inafferrabile qualora analizzata con i più meri mezzi tecnici, la ripetizione vuota viene sempre scansata; vecchio, al contempo nuovo – uguale, al contempo diverso, il pericolo della riproposizione stantia elegantemente allontanato dalla singolare percezione nonostante la quasi perfetta aderenza ad un canone estetico, emotivo ed espressivo che è rifugio confortevole del viaggiatore solitario (mai per questa ragione fermo, perché l’esplorazione è interiore), una forma prediletta che viene coccolata, accarezzata -protetta e al contempo protezione- nonché autentica ossessione artistica divenuta piattaforma veicolare da ormai venti anni abbondanti.

Il logo della band

Si potrebbe quindi discutere a lungo sulla retorica questione per cui quasi nessuno sia ad oggi riuscito a trasmettere immagini e sensazioni di alienante gelo, ad incarnare proprio grazie alla mancanza di carne e volto gli aspetti più ruvidi, violenti, inflessibili e minacciosi dell’inverno, di quelle coltri glaciali eterne che ben poco hanno del calore inevitabilmente umano, quanto riesce Wintherr nei suoi Paysage D’Hiver (come del resto l’alter ego Wroth nei Darkspace, con sensibilità -o quantomeno gioco dialettico- neanche troppo dissimile); ma difficilmente si afferrerebbe in parole la via ad un’atmosfera. Quell’incantesimo stilistico che richiede la rimozione di quasi tutta la soggettività e della deplorevole carne umana da un’opera d’arte, che necessita di avere una visione così forte, così solida da congiurare nella mente uno spasmo di completo ed assoluto isolamento all’interno del cuore della natura incontaminata per consegnarne la visione con la convinzione e l’onestà di un artista che è consapevole quanto l’esploratore svizzero è; ed “Im Wald” è in ciò titanico, mastodontico non tanto in violenza o distruttività rispetto al passato illustre del progetto, bensì in espansione quanto nessuna manifestazione precedente del pur largamente quanto piacevolmente prolisso artista è mai stata. Ma l’espansionismo senza ridondanza che i due dischi di “Im Wald” propongono è anche quello compositivo che riparte da “Das Tor” e vi stipula contratto con la maggiore intelligibilità di “Schnee III”, un crocevia evolutivo che mostra per la prima volta la presenza del guanto senza tuttavia interrompere la magia del gioco di prestigio, senza intaccare la foschia che rende più facile entrare in contatto con il mondo spirituale: quell’assenza di luce che, spodestata la predominanza del visivo, lascia più risorse agli altri sensi e all’immaginazione. Il freddissimo tono ipersaturo di gain delle chitarre indistinte che tagliano odore nell’aria. La neve dei sample ambientali e dei sintetizzatori gelidi, che da ultimo smorzano tutti i suoni per assordanti che siano; riassumendo, tutto ciò che nel marasma di frequenze inspiegate dà spazio all’utilizzo del sesto senso non fisico, che sua volta, all’affronto del negativo, del ghiaccio e dell’oscurità interiori, di tutto ciò che mette a disagio, permette di svilupparsi – proprio lì dove non vorremmo ma occorre guardare, perché il significato più profondo brama sempre la trasformazione.

Wintherr

E così l’inumano -quanto di più inumano si possa immaginare- si fonde all’umano nella misura esatta in cui senza il secondo non esisterebbe il primo; nella misura in cui l’immaginazione che dà luogo ed offre vita alle immagini veicolate lungo i centoventi minuti complessivi di “Im Wald” è -non potendo non esserlo- prerogativa umana, unicamente ed immancabilmente umana. Nella stessa misura in cui e per cui l’inestimabile osservato non può esistere, nemmeno in concetto, senza l’insignificanza dell’osservatore.
In “Im Wald”, selva metaforica dell’Io nella tradizione europea, metodologia dell’indagine della natura, tempo e spazio diventano da rituale iniziatico una cosa sola, inafferrabile, e l’esperienza supera come sempre il momento – la novità innegabile al suo interno un perfetto esempio di come funzioni l’ordine cosmico delle cose, come nella differenza tra fiocchi di neve: al microscopio ognuno di essi è unico, eppure il pattern talmente specifico e rigido da rendere impossibile non percepirli come tali nella figura complessiva.
La meditazione è pertanto alla mercé delle forze che dipingono dettagli più intuitivi di quanto non siano effettivi, di melodie nascoste nel cacofonico mix, occultate ma anche a tratti prorompenti più che mai (i brucianti arpeggi acustici di “Alt”, i cori eterei e trascinanti della clamorosa “Stimmen Im Wald”), canale primo di una meditazione fatta suono pieno di ostacoli, irto di spine e frequenze che sfidano costantemente l’immaginazione, che scatenano e stimolano l’inconscio con la monotonia spezzata da ricami (le urla centrali dalla cima della sesta montagna in ordine di avvistamento) che non interrompono mai l’ipnotismo e -al netto contrario- lo rendono ancora più assuefante nel suo profondo enigma.
Lo stordimento all’ascolto che, al solito, le quantità disumane di hi-gain frigido forniscono è il necessario contraltare da cui ammirare l’algente bellezza pungente che vi sta sotto, si tratti di trame melodiche di basso inaspettatamente udibili ed incalzanti o dell’afflato fieramente epico nel comparto melodico tra primo e secondo brano (sintetizzatori in avanscoperta e potenti nel condurre, dai richiami addirittura psichedelici in “Im Winterwald”), o ancora l’impotenza totale di fronte alla sublime tragicità da pelle d’oca che apre ed accresce lungo “Le Rêve Lucide”; colui che all’anagrafe risponde al nome e cognome di Tobias Möckl ce lo mostra, ci sussurra con i suoi latrati strazianti, inumanamente distorti ed indecifrabili, che qualunque cosa sappiamo è solo un’infinitesimale parte di ciò che in realtà là fuori esiste ancora da conoscere; che così tanto ancora si cela fortunatamente nel buio e così tanto da temere v’è ancora nel comparto droning che lo nasconde. I Paysage D’Hiver lo svelano con parsimonia tramite meno monoliticità (ripresa tuttavia senza sconti con il magistrale ipnotismo e l’altrettanta rumorosa durezza in crescendo ordinato tra “Kälteschauer” e la dolorosa fine del secondo disco), con una minore compattezza nelle pur strettissime maglie sonore che si palesa fin dalla struttura (svariati gli interludi che aggiungono enorme qualità immersiva al lavoro) ed una maggiore variegatezza in soluzioni sperimentate che accompagnano l’algido trademark da immemore tempo inconfondibile.

Forse dunque meno difficile che in passato nelle singole composizioni perché arricchito dai maggiori spunti a cui l’orecchio può aggrapparsi, “Im Wald” compensa con un lunghissimo viaggio in due parti che alle prime battute si gusta ancor meglio se sezionato (“Flug”, che con i suoi dieci minuti di distensione strumentale spezza a metà o congiunge i due mastodontici movimenti, può essere un buon momento di fine primo tempo, di bivacco o ripresa). Pur sempre dispendioso ed estremamente impegnativo, ne consegue, ma mai inutilmente pretenzioso, il nuovo capitolo estemporaneo del viaggio dell’innominato vagabondo è l’ennesimo che gioca con l’ascoltatore e lo sfida a trovarvi una sua collocazione nel corpus produttivo che è l’intera storia sempre in divenire, e che non può perciò mostrare disgiunzione tematica né stilistica; ma che mostra al contempo un eterno progresso sulle ali di una comprensione della magia e nella manipolazione della materia Black Metal che ha dell’encomiabile proprio nel testardo impiego del verbo più smaccatamente lo-fi, facendola sempre crescere senza mai tradirne il significato ontologico ed i motivi d’utilizzo. Preservando insomma quell’atmosfera straniante, cruda ed unica che è centro focale della poetica Paysage D’Hiver e dell’essenza che questa vuole e soprattutto riesce a trasmettere, nonché della natura caliginosa e proprio per questo d’insuperabile interpretazione arbitraria del progetto.
Un viaggio che è universale ma allo stesso tempo singolare, intimo e diverso da qualunque altro a seconda del cambio di prospettiva e storia personale tra creatore e fruitore, che hanno medesima ultima ratio regum nel processo; un mondo osservabile come un prisma in sfumature e proiezioni di ghiaccio -e di sé- in cui non si tratta di comprensione, bensì di percezione. Oggi ancor più di ieri, dunque, usare l’immaginazione: questo l’imperativo. Perché toltaci questa non resta più nulla.

Matteo “Theo” Damiani

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