Peste Noire – “L’Ordure À L’État Pur” (2011)

Artist: Peste Noire
Title: L’Ordure À L’État Pur
Label: La Mesnie Herlequin
Year: 2011
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “Casse, Pêches, Fractures Et Traditions”
2. “Cochon Carotte Et Les Sœurs Crotte”
3. “J’Avais Rêvé Du Nord”
4. “Sale Famine Von Valfoutre”
5. “La Condi Hu”

“Il existe certains coins comme ça dans les villes, si stupidement laids qu’on y est presque toujours seuls.”

Fra le rovine di una estemporanea Parigi devastata, posta a perverso emblema di una città-mondo ormai definitivamente incapace di attribuire con salda dignità un reale significato alle parole libertà, uguaglianza e fratellanza, marcia trionfale una nuova fiera portavoce: impostasi guida altrettanto carismatica e salda, la morte si erge con un colpo di Stato da maestri come unica legge, giudice e boia al contempo di una società allo sbando, beffardamente caotica e rumorosa ma amaramente vergata dal disincanto. Questo iconico sberleffo alla repubblicana Marianna, pari quasi solo a quello nei confronti di uno storpiato Delacroix, è il pittoresco, sgangherato lasciapassare di “L’Ordure À L’État Pur”, ennesimo tassello di una discografia, quella dei Peste Noire, che si mostra all’inizio del 2011 già forte di tre full-length ricchi di una tale quantità di suggestioni, umori e figure in grado di delineare un microcosmo e un modo di fare Black Metal che con squisito eclettismo e decadenti atmosfere fuori dal comune ha già fatto scuola nonché numerosi proseliti durante il primo decennio del nuovo millennio, ma che sarebbe stato mai come prima di quel momento ribaltato, scompaginato e violentato in ciò che a due lustri sua uscita viene ricordato come uno degli esempi più scardinanti e sconvolgenti non solo dell’arte malsana e grandguignolesca di La Sale Famine De Valfunde ma della musica contemporanea.

Il logo della band

Le declinazioni che un termine tanto poco semanticamente delineato quanto eternamente abusato come “avanguardia” assume nella Francia estrema in un tempo così ristretto come può essere il solo anno 2011 sono delle più pionieristiche e terrificanti, quanto tuttavia varie per natura e cornice estetico-contenutistica: i territori che si apprestano ad esplorare ad esempio i Deathspell Omega dell’ancora freschissima ed insanabile ferita “Paracletus” di fine 2010, con una dovuta edizione interamente dedicata a quell’uscita -che di minore ha unicamente il formato- quale la quasi segreta composizione “Diabolus Absconditus”, e i Blut Aus Nord con la rivoluzionaria trilogia 777 già a questo punto in fieri con il primo capitolo “Sect(s)”, uscito soltanto il mese precedente, possono sì trovare alla radice un fattore scatenante di sicuro retaggio geografico in quel sentimento esistenzialista che mosse gli ardori e popolò le notti insonni di grandi menti vissute fra i Pirenei e il Reno, e ciononostante artisti come questi hanno anche raggiunto nel 2011 un grado di astrazione che pienamente, nonché da tempo, trascende il contesto locale spaziando tra fumosi ed orrorifici non-luoghi dalla struttura astratta e metafisica; ciò che invece ribadiscono i Peste Noire con la loro spregiudicata forma espressiva è di voler affondare le unghie sporche ed animali nella loro personalissima Francia in cui e per cui “L’Ordure À L’État Pur” è orgogliosamente realizzato, abbracciata a tutto tondo in un Black Metal che s’incarna quanto più possibile nel reale per poi precipitare parossisticamente nell’eccesso della forma, in una degenerata ed alterata visione trobadorica della modernità veicolata senza alcun tipo di freno. Sistema d’argine che si rivela assente tanto nelle liriche, dilaganti in un ebbro, dissacrante flusso di coscienza mai e poi mai privo di un brillante acume ironico da fine paroliere, quanto nelle partiture musicali la cui qualità va questa volta più che mai di pari passo con la moltitudine straripante di registri, influenze e sperimentazioni.
Il quarto capitolo della discografia della formazione di Avignone è uno sputo sulla noblesse oblige reclamata a gran voce dalle orde di seguaci assuefatti da quel Rance Black Metàl di Francia fatto di fischi, rumori e gloriosi canti urlati a pieni polmoni e vomitati con la forza della disperazione: cosa succede quando quel grido si strozza in gola, dovesse anche essere vero per un solo istante, e si ha la terrificante e svuotante sensazione che quell’ideale per il quale si è versato copioso sangue sia infine mutato beffardamente ed incontrovertibilmente in vacuo vessillo, in un paragrafo ormai polveroso appannaggio di stanchi osservatori che ne ignorano frigidi la potenza del messaggio? Serpeggiante si insinua un soffocante sentimento d’inadeguatezza, di tradimento e rancore nei confronti di un cambiamento percepito come radicale, osservato come repentino e spiazzante, in grado di prendere il sopravvento e spazzar via gli ultimi resti in pietra di un’aurea e sognante patina gloriosa, rivelando spietatamente uno scenario urbano che riflette sull’asfalto i bagliori stranianti e brutali delle luride e periferiche banlieue, del dilagante disagio sociale, della definitiva perdita di un’identità personale e comunitaria.
La risposta di Famine è racchiusa in cinque brani che disperdono e disgregano quel chitarrismo sbilenco i cui malsani semi vengono gettati in “Folkfuck Folie” e che trovano definitiva nascita nelle scelte di suono sgraziate ma perfettamente calzanti di “Ballade Contre Les Ennemis De La France”, rendendolo flessibile ed elastico per mezzo di una distorsione più contenuta e percettiva nel dialogare ed indirizzare brani articolati in strutture libere nonché imprevedibili, dove la forma si perde nel disordinato avvicendarsi di danzerecce ritmiche Bal-musette e i cui fiati spesso declinano in ottoni tragici e minacciosi; un teatro del grottesco pronto a sprofondare da un momento all’altro fra sample e derive elettroniche che aprono tra l’altro la strada sensibile alla futura collaborazione con i connazionali Diapsiquir (in uscita lo stesso anno per End All Life Productions con “A.N.T.I.”, il cui amalgama sui generis tradisce tuttavia una certa affinità stilistica con il disco in oggetto d’analisi), tramite un riffing camaleontico nell’integrare squadrature industriali ad un drumming a cavallo fra il convulso batterismo in carne ed ossa, tra Punk e Jazz del fantomatico Vicomte Chtedire De Kroumpadis e l’ossessivo clangore di beat meccanici.

La Sale Famine Von Valfunde

Un filo narrativo fatto di frammentarie ed annichilenti prese di coscienza collega i brani, partendo con la dichiarazione d’amore allo spirito rurale e völkisch di “Casse, Pêches, Fractures Et Traditions”, un manifesto di sommossa contro l’aridità spirituale e l’industrializzazione sfrenata del ventunesimo secolo: una battaglia condotta imbracciando le improvvisate armi rurali di uno sciovinismo convinto ed esaltato anche nei suoi tratti più caricaturali, in atto nel trambusto folkloristico di musica popolare imbastita da giri di fisarmonica, épinette ardéchoise e trombone. Un avvio che sfocia in ritmiche in levare dal sentore Ska graffiate di furia nera, ma che nonostante l’assoluta poliedricità rappresenta anche uno dei lati più immediati e luminosi del disco nel suo essere pregno di un desiderio di rivalsa universale che andrà via via a scemare dinnanzi allo scontro durissimo con la realtà; una rottura che ha già inizio con le follie disumane di “Cochon Carotte Et Les Sœurs Crotte”, dove il comparto acustico si mette frettolosamente in disparte, lasciando completo spazio ad un perverso e torbido gioco di ruolo intavolato dai cordofoni nella loro incestuosa unione con una mefitica ed ossessiva base ritmica: i passaggi estrosi e tossici del basso di Indria tessono un greve tappeto sul quale la chitarra s’inerpica in saliscendi vertiginosi, sempre più acuti e spasmodici, mentre le urla del compositore primo si fanno sempre più sguaiate ed alterate. “J’Avais Reve Du Nord”, con il suo ampio minutaggio (ad oggi è ancora a tutti gli effetti il brano più lungo che i Peste Noire abbiano mai composto) assume un ruolo centrale nella struttura dell’opera, spostando la narrazione su un punto di vista in prima persona che si esprime per il tramite del Ludovic uomo e, di fatto, assume la duplice funzione di sciorinare in un’unica traccia grandissima parte degli sfaccettati umori cardine del corpus tutto, da un lato, e di andare a segnarvi un prima ed un dopo.
Da qui i toni dell’invettiva sfumano e l’atmosfera assume i contorni baluginanti ed offuscati del ricordo: caricatori di arma da fuoco e spari si giustappongono al martellare dell’industria; il sole cocente esalta e rende insopportabile il disgustoso olezzo dei rifiuti in una regione malsana dove le slanciate guglie delle cattedrali gotiche si confondono fra le fumose torri di raffreddamento e le nicchie a sesto acuto si macchiano del sangue della malavita spregiudicata e senza pietà. La voce cristallina di Audrey Sylvain squarcia il velo di torpore e offre la visione mistica di un nord che riflette ancora il suadente scintillio dell’Ultima Thule: non un luogo in cui scappare, ma un’ideale a cui tendere, un linguaggio in cui rifugiarsi e da sfruttare per veicolare catarticamente la propria rabbia e la propria frustrazione. L’epifanica rivelazione di un Métal Noir conduce alla definitiva presa di autocoscienza in “Sale Famine Von Valfoutre”, con una presentazione beffarda e priva di qualsivoglia inibizione che riversa fra le sue partiture un feroce individualismo, un’indipendenza sfrenata che va al di là del bene collettivo e del male canonicamente inteso, priva di alte aspirazioni superomistiche e che all’amoralità predilige una fiera condotta marcatamente immorale: fra note meno sperimentali e ibridate ma altrettanto incalzanti e ispirate, Famine veste i panni di un antieroe esaltato e rissoso, un disilluso à la “Seul Contre Tous” di Gaspar Noé, ma ben deciso a far scontare al mondo intero tutto il male ed il putridume che merita. Le distanti e tonde note di “La Condi Hu” tratteggiano, infine, una conclusione che più intimamente nera, disperata e nichilista non può esistere, in cui lo spirito goliardico e fuori dalle righe cede il passo all’amarezza della realizzazione e della comprensione; un epilogo che, nel suo spirito anti-umano alla radice, ricorda le conclusioni tragiche e distruttive de “La Coscienza di Zeno” con un miglioramento tanto vagheggiato dal dogma darwinista che si piega alla degenerazione della virtù, ad un uomo sempre più malato dentro e fuori, corrotto e quanto mai distante dai concetti di sopravvivenza e sussistenza, inevitabilmente destinato alla distruzione per mezzo delle sue stesse mani.

“L’Ordure À L’État Pur” anticipa con la sua coralità l’infinità dei tratti che caratterizzeranno i Peste Noire nella successiva decade e dimostra, fra le altre cose e qualora ve ne fosse bisogno, la cura, la dedizione e anche la consapevolezza che vi è dietro un lavoro dalle caratteristiche indubbiamente ambiziose: sotto alla divisa da hooligan strafottente vi è un musicista, un artista assolutamente conscio del potenziale della propria creazione, nel 2011 abbastanza maturo da saper placare il proprio innato reazionarismo per cedere il passo ad un trasformismo con cui sedare l’approccio lo-fi tout court affidando quella miscela frammentaria e estrosa alle mani necessariamente sapienti di Mika Jussila dei Finnvox, che riesce ad esaltare e far emergere tutte le sfumature di un lavoro improbabilmente complesso e fitto, in cui la massiccia presenza di strumentazione acustica fa già presagire per sentori quel desiderio di una ruralità atavistica che di bucolico ha il contesto a cui tende ma in misura decisamente minore i toni, quel che insomma verrà sviluppato in “Peste Noire” e “La Chaise-Dyable” in concomitanza con un approccio lirico in primo piano e dal quale emergono delle metriche sempre più prossime all’universo Hip-Hop. Un fil rouge che arriva fino a “Peste Noire Split Peste Noire” del 2018: forse unica release della formazione ad avvicinarvisi, ad oggi, per la sua quantità di caratteri stilistici in solo apparente stridore concettuale e lessicale, seppure saggiamente cambiata in percentuali, e nella quale le anime ambivalenti e sperimentali del progetto si paleseranno apertamente con rinnovato vigore.
A dieci anni di distanza dalla sua uscita, tra lo sforzo estemporaneo dei musicisti coinvolti nella nouvelle bande de crevards alla corte di DJ Famine e quello visivo non meno importante (la mis en images a visionaria metà strada tra il collage più dissacrante e la stampa medievale di Valnoir), il riso bieco e arlecchino di “L’Ordure À L’État Pur” continua così ancora a risuonare, mantenendo intatto il suo inestimabile valore di capolavoro a tutto tondo e serbando con premura un’unicità troppo singolare per essere realmente imitata, deformandosi presto in un grido di odio forse inascoltato, ma un irriverente gesto di sfida che tuttavia mai potrà essere rinnegato.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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