Artist: Blut Aus Nord
Title: “777 – Sect(s)”
Label: Debemur Morti Productions
Year: 2011
Genre: Avantgarde/Industrial Black Metal
Country: Francia
Tracklist:
1. “Epitome I”
2. “Epitome II”
3. “Epitome III”
4. “Epitome IV”
5. “Epitome V”
6. “Epitome VI”
Il 2011 è un anno senza pari di prolificità o riuscita per i Blut Aus Nord e per Vindsval, che vi intraprende uno dei suoi progetti più ambiziosi, personali, titanici e persino remunerativi dell’intera carriera; è l’anno dell’approdo a quella che si dimostrerà ben più di una casa discografica per l’entità creativa originaria di Mondeville – è l’anno in cui, con la comprensione, con la passione incondizionata ed il supporto totale di Debemur Morti Productions, questa intraprende (e nelle intenzioni conclude anche, fatta eccezione per quel “Cosmosophy” che, per motivi organizzativi, uscirà a metà del 2012 nonostante fosse previsto immediatamente consecutivo ai primi due capitoli) la strada verso una trilogia senza pari nell’avanguardia della musica estrema più sperimentale e del Black Metal.
Quello che già sulla carta sembra uno sforzo compositivo impossibile dal momento che soltanto il 2009 vede il collettivo riscoprire le sue venature più lineari, progressivamente melodiche e dialoganti con gli astri nella seconda manifestazione sotto l’insegna “Memoria Vetusta”, per di più a distanza di tredici anni dalla prima, si dimostra un progetto ancor più eccitante nell’ampiezza delle sfere musicali che va effettivamente a coprire. La necessità creativa non è nascosta: scrivere e comporre, senza sosta, ogni giorno, eppure sottoporre al costante e brutale controllo qualitativo infanticida il proprio operato; i Blut Aus Nord non sono un lavoro -sarebbe blasfemo per il padre creatore anche solo pensarli tali- ma non sono un hobby, non sono un passatempo né uno svago, è catarsi delle più anelanti alla rappresentazione concreta di una evoluzione spirituale e filosofica. L’ispirazione diventa così fede granitica, la composizione un tempio, e l’aderenza di questo peculiare credo al tessuto compositivo a sua volta un potere infinito, una fonte prima ed ultima di motivazione nell’armonia degli opposti. In quel tentativo costante di arrivare all’estremo delle possibilità linguistiche momentanee da un polo all’altro dello spettro di una musica tanto oscura, viscosa, dello snervante e dell’allettante, di un “Mort” da un sudicio lato e di un “Dialogue With The Stars” dall’altro per bilanciare, si annida il movimento naturalmente ondulatorio, simbolico ed altamente metaforico della serpe che nel giro di un anno verrà ritrovata come motivo conduttore principale per tutta la durata della triplice epitome; nella sua prima sala segreta la setta del tempo e della gloria che fu dei padri dell’uomo, dei creatori che hanno inoculato il sangue dei santi di zolfo e del principio della frammentazione, congiura contro l’ascoltatore un album ultraterreno tutto fuorché accogliente.
L’inchino dovuto è richiesto del resto fin dalla comprensione dello studio che dà il via alla concezione strutturale del lavoro in tre parti: l’approccio alla religione e alla credenza ad ampio raggio è osservato ed esasperato nel primo septṃ dal lato delle conseguenze e non delle azioni che a queste conducono. Nel particolare, la graduale negazione dell’istinto (sia anche quello di guardare verso l’alto, peccando di presunzione, del precedente full-length in linea cronologica) a favore dell’insidiosa paura del tempo: la fobia biologica del ticchettio e dello scorrere imperturbabile dei secondi nel silenzio figlia di Cronos, un invincibile terrore atavico dell’istante ma in fondo non dal tempo stesso partorito – e “Sect(s)” in qualche inconscio ed anche perverso modo riesce a ricordarci infatti che proprio noi abbiamo creato quel concetto di tempo, quel nemico acerrimo fatto di ore, di minuti, di ere e di millenni, quella fantasticheria così preziosa alla ricchezza, utile alla grandezza, indispensabile all’evoluzione, eppure altrettanto sfuggente tra le dita ed inarrestabile, opprimente; e che l’umano ne subisce quindi più tardi le conseguenze psicologicamente tremende che, con apprensione spettrale, allontanano come sabbia spazzata dal soffio del momento il principe rinascimentale del creato intero, una volta udito l’eco impreceduto del lavoro di Dio, da quella vita oltre la vita che sfuma in un vortice di grande male calcolato dall’abitante primo della Terra, contato e tradotto in odiosi numeri:
“[…] une abstraction suprême qui laisse le dogme du temps créer sa propre illusion, créer sa légende et son ennemi.”
Il primo 7 di una trinità privata della sua componente sacrale, la disparità euclidea ma completezza in sé, il numero dei materiali reputati indistruttibili per la trasmutazione alchemica e nell’ordine celeste ed infernale mediorientale, assume così il significato amaro di una desolante ammissione di un fallimento, di una sopravvalutazione delle proprie forze e possibilità invero limitate, di un fatale errore di calcolo che lascia l’umano senza voce per raccontarlo o anche solo per disperarsene tra sé. Al suo posto, troppo alieno per essere realmente provocatorio, la caduta cognitiva viene asetticamente narrata da un monstrum, una fonte di non-vita lontana e meccanica che preserva la sua luce divina nel tragico, brutale suono della perdizione prima del secondo capitolo a cui -da qui- ancora pare impossibile giungere; quello che si tradurrà nella rappresentazione di una nuova possibilità concessa tramite la desantificazione di sé e dei propri dogmi per poter finalmente realizzare, in via unica, la propria visione senza più illusioni castranti, senza più tenere in conto seriamente null’altro.
Eppure le chiavi per la comprensione del primo tassello sono già tutte qui, senza rimandi, all’interno di una qualunque copia fisica di “Sect(s)”: la musica, chiaramente, ma nondimeno le allusioni scelte dall’autore, i laconismi poetici che sfiorano l’assurdo in lingua madre, le immagini che da qui in avanti si faranno sempre più sbalorditive ed uniche al mondo grazie alla consegna delle proprie visioni malate all’occhio e alle deviazioni spirituali di Dehn Sora (nella prima metà del 2011 ancora ad opera di Daniel Valencia prima, poi seguito dallo sbalorditivo Valnoir). E la musica resta un’esperienza personale – e nel caso dei Blut Aus Nord anche rigorosamente solitaria ai fini conoscitivi: un ascoltatore la riceve intonsa con i propri riferimenti, fatti di esperienze uniche ed un passato individuale plasmato proprio da quel tempo avversario di sé, con la propria anima, e da qui il lavoro di Vindsval e gregari si conclude lasciando carta bianca al fruitore, esposto alla passione evidente degli artisti spersonalizzati per le filosofie di tutto il mondo, orientali in testa, e di tutte quelle chiavi magiche (le occidentali solo una di tante) che sono atte alla comprensione occulta del progetto tripartito. In ciò i francesi, maestri di sperimentazione al limite estremo del possibilmente veicolare per inclinazione quasi nazionale, si rifanno al principio più essenziale del misticismo, ovverosia quello di meditare in privato su tutto ciò che sta oltre il velo, vale a dire oltre i simboli dietro a cui l’artista, vettore materialmente egocida tra ispirazione e risultato finale, senza più volto sceglie di nascondere il proprio percorso logico.
Il punto di convergenza di ogni mito, di ogni sistema religioso e credo presa in analisi da “Sect(s)” e di cui i suoi sei capitoli sono imbevuti è una deumanizzazione già avvenuta, di cui l’album conserva gli esiti puramente formali (da “Odinist” fino allo spartiacque “The Mystical Beast Of Rebellion” e ritorno – omaggiato come matrice stilistica da band e label con una ristampa proprio all’inizio dello stesso anno, per il suo decennio compiuto, in un doppio album con -non casualmente- tre nuovi capitoli di musica aggiunta per espanderlo e completarlo), condividendo con il solo “Mort” l’impossibilità di lasciare chiunque altro agente esterno interferire nell’anima e nella carne del lavoro; le atonali suggestioni meccaniche impazzite che lo aprono nel primo capitolo sono piuttosto figlie di quell’esplorazione clandestina e parallela negli esoterici e cripitici liber che vengono creati in contemporanea ed escono in formato minore come trilogia parallela a quella maestra, i quali forniscono per di più quel ritualismo scabro nella destrutturazione imperterrita del linguaggio Black Metal che poi qui tra le mani della setta -e mai altrove con altrettanta importanza- avviene. Gli sviluppi che dal corpo del primo brano portano al suo finire possono benissimo partire dall’evoluzione già intercorsa da “The Work Which Transforms God” (con il cui automatismo industriale ma soprattutto matematicità “Sect(s)” condivide più d’una intuizione compositiva di partenza sebbene non di arrivo), ma l’intrusività straniante ed inquietante sul suo finire da parte di tastiere e sintetizzatori sinistri a performare melodie profonde allargandosi, respirando nella generale opprimenza, ad aprirsi striscianti basi di un figlio illegittimo tra Trip-Hop e Dark Ambient, sono piuttosto quelle dei Massive Attack che trovano il gorgogliare cervellotico dei Morbid Angel prima (originaria sezione del terzo episodio su tutti) e la pesantezza lenta dei Godflesh poi (la fenomenale sezione “Epitome II”), degli Abigor del binomio “Fractal Possession” (2007) – “Time Is The Sulphur…” (2010) a guidare anche concettualmente lo spirito di Diamanda Galás e dei Dead Can Dance (incestuosi con sghembismi à la Deathspell Omega), oltre che a far sperimentare per la prima accanto ai latrati mostruosi, sul finire del quarto e più corposo segmento di album, premonitrici armonie vocali vicine allo spiritismo ascetico di Wovenhand. Le origini sono multiple e proliferano innestandosi, inseminando il suono che così facendo non viene schiacciato dal peso dei secoli nell’avvenire con l’uso di una tecnologia che si fa soltanto mezzo in pugno alla mente umana, non utile per diluire l’efficacia del processo artistico bensì per innalzarlo – nella consapevolezza che, laddove questa esiste, nulla può veramente annacquare l’arte e che la forza di quest’ultima può e deve piegare la macchina ai suoi comandi.
Proprio nella sua completezza asfissiante, nel suo mischione ribollente di riff schizzati, beat annichilenti dai riflessi incondizionati e pattern di pesantezza magnetica, e specialmente nella sorprendente ricchezza delle sue melodie a voragine nelle trame inumane, “Sect(s)” è -senza nemmeno la necessità di una retrospettiva decennale al riguardo- effettiva introduzione a quasi tutti gli aspetti che verranno rispettivamente esasperati e singolarmente incoronati nel continuo della trilogia, ma soprattutto quelli della densità armonica e dell’assurda consistenza melodica dei due album che lo seguono: dalle strambe, notturne ed inusuali declinazioni Dark del capolavoro moderno “The Desanctification” fino alle atmosfere rarefatte, noir, jazzy ed eteree del superlativo “Cosmosophy”.
Mai, nonostante qualunque evoluzione d’intransigenza ed unicità, prima dell’avvenuta pubblicazione di “Sect(s)” i Blut Aus Nord sono infatti suonati tanto artistici, tanto indipendenti: incuranti della forma, veneranti la sensazione e la sostanza, orgogliosamente padri tanto di “Ultima Thulée” quanto di “Odinist” e rifiutanti l’annessione al set di regole, la concupiscenza di suono e la devozione ad uno stile come le sole tre leggi della non esistenza nella gabbia del limite che uccide la creazione. Compreso questo, si comprende quanto e come i Blut Aus Nord nel 2011 suonino Black Metal. Nella considerazione di una forma d’arte senza limiti -che non vengano imposti dall’interno- si coglie come il tanto inspiegabile feeling del genere più nero al mondo, quello della paura e dell’ignoto, sia qui e non altrove, a braccetto con la sovversione e l’autentica opposizione.
La desantificazione ha già inizio in queste sei tracce: l’uomo prende un profondo respiro ed orfano urla a pieni polmoni la sua irriconoscenza all’autorità, a Dio; “The Desanctification”, istante di solitudine monumentale, triste ed ipnotico rituale apotropaico per la riscoperta dei valori e per il tentativo di distruzione di una catena logica non propria, ne mostrerà l’effettiva e splendida reazione in musica. Ma è l’intera trilogia che si sarebbe nel giro di una manciata di mesi dimostrata uno spaccato di creato estremamente coeso nel suo eclettismo, coerente nel suo spietato moto circolare destrutturante e massivo nella messa in musica del suono, forse della voce dell’universo – e con ciò “Sect(s)” l’inizio di un precedente spesso irriconosciuto che, qui forse più evidente rispetto ad altrove proprio perché meno scardinante nel particolare, più di qualunque altro ha sottilmente segnato le evoluzioni asettiche ed espansioni elettroniche nel Black Metal durante l’ultimo decennio.
– Matteo “Theo” Damiani –