Kampfar – “Mellom Skogkledde Aaser” (1997)

Artist: Kampfar
Title: Mellom Skogkledde Aaser
Label: Malicious Records
Year: 1997
Genre: Black/Folk Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Intro”
2. “Valdogg”
3. “Valgalderkvad”
4. “Kledd I Brynje Og Smykket Blodorm”
5. “Hymne”
6. “Bukkeferd”
7. “Naglfar / Ragnarok”

Quella che nella calda estate di venticinque anni esatti fa inizia timidamente ad affacciarsi dagli scaffali dei negozi specializzati, e dalle mensole delle camerette dei sempre crescenti appassionati ad un movimento musicale dalla demografia nel frattempo fattasi via via più variegata, è una copertina che -magari senza nemmeno intenderlo- rivela moltissimo non solo sul manufatto a cui si accompagna, ma pure sulla visione con tutta probabilità ancora da definirsi di chi quel lavoro lo ha scritto, eseguito e messo su compact disc: un duo emerso bene o male dal nulla, e che nella Norvegia abbagliata non più dalle chiese in fiamme ma dai riflettori dei rotocalchi si muove come una mina vagante a piede libero tra boschi impenetrabili e fiumi in disgelo preservando l’attitudine aristocratica evangelizzata da quelle parti un lustro prima.
Seppure i meglio informati già parlino d’altra parte di un fugace EP omonimo messo sul mercato da una giovanissima Season Of Mist alla sua terza pubblicazione ufficiale, quando non della manciata di tracce lasciate al passaggio di una misteriosa entità chiamata Mock, per la maggioranza assoluta degli utenti la strana coppia formata da Dolk e Thomas rimane una dei pochissimi monicker nordici capaci di mantenere intatto lo stesso fascino ancestrale ed elitario il quale li aveva in principio condotti agli Immortal e ai Satyricon; almeno prima che il ruolo pionieristico di questi ultimi li rendesse qualcosa di troppo grosso per essere recintato nella nicchia del culto riservato a pochi intimi.

Il logo della band

Un buon punto di partenza per comprendere i Kampfar dell’appena venticinquenne esordio su formato esteso, ovviamente sotto infiniti punti di vista ben distanti da ciò in cui essi si sarebbero evoluti anche solo di lì ad un paio d’anni, sta nel metterli a confronto con l’altro grande act ai giorni nostri sopravvissuto alla golden age norrena ed anzi tra i pochissimi capaci ancora oggi di replicarne seppure in maniera differente gli antichi splendori: ovverosia gli Enslaved autori praticamente in contemporanea del rivoluzionario “Eld”. Se difatti il terzo parto degli esploratori dell’Haugesund, al netto dei mastodontici passi compositivi in avanti, non nasconde mai (nel 1997 come più tardi) una certa propensione alla luminosità o comunque alle suggestioni di ritrovata spinta scenografica dopo la cappa claustrofobica del più classico e norreno dei possibili Black Metal, il battesimo del fuoco per i due girovaghi sbucati fuori da Fredrikstad un triennio addietro continua questo gioco di chiaroscuri traslandolo, giust’appunto, addirittura sull’assai particolare cover ritraente uno scenario innevato e comunque inondato dalla luce diurna riflessasi sui ghiacci spazzati dal vento. A ripensarci poi, così come i vari “Vikingligr Veldi” e “Frost” lasciavano trasparire un enorme talento sinergico autoconfinatosi alla sanguigna materia primordiale, invece lo speculare “Mellom Skogkledde Aaser” vede due elementi in apparenza opposti (il Dolk attivo nel giro estremo da ben sei inverni ed il Thomas completamente a digiuno persino di chitarre distorte) emanciparsi dal caos d’idee che sarebbe lecito attendersi, e puntare subito ad una dimensione alternativa che in tempi moderni potrebbe anche essere definita tranquillamente Viking dagli appassionati di etichette – Pagan, qualora invece la si voglia giustamente ritenere fugace precursore di un linguaggio che non tutto deve all’oscurità degli Helheim di “Jormundgand” (di due anni precedente, persino) e agli Hades già fuori con “…Again Shall Be”; una proposta inedita la quale non tema l’esposizione ai raggi solari ma al contrario rivendichi una tridimensionalità dinamica nel suo far coesistere lume e tenebra anziché limitarsi per forza a quest’ultima. Quello intrapreso dai primi Kampfar è pertanto inquadrabile come uno scontro artistico e pure un po’ a viso aperto tra il loro sguardo di natura per certi versi verista, mai venuto meno nonostante il mutare dei connotati sonori, ed i nocturne intrisi di fantastico e sinfonico allora in pieno boom tanto nella patina di Dimmu Borgir ed Emperor quanto nel sottomondo popolato da Obtained Enslavement, Covenant, Limbonic Art ed altre creature appartenenti all’oscurità più medieval-siderale.

Dolk

Quel medesimo gruppo che ora brilla nel firmamento scandinavo per l’affiatamento tra le sue diverse e nondimeno inscindibili componenti strumentali, assemblate procedendo per addizione con i sortilegi a corda di Ole Hartvigsen e le declamazioni canore del comandante in capo e sfocianti nelle caliginose esalazioni provenienti da un qualunque “Ofidians Manifest”, ai suoi albori si muove di contro tra istantanee ancora una volta parecchio discrepanti ma con una grazia da scafatissimi esperti, oppure solo da gente predestinata a fare grandi cose appena ritrovatasi con i ferri del mestiere tra le mani. La chitarra di mr. Andreassen, irrotta sulle urla iniziali assieme alla sorda batteria ed al quattro corde davvero ben delineato e curato (specie per gli standard locali, nonché incline a piacevoli improvvisate sulle frequenze alte), lacera la pelle e ghiaccia seriamente il sangue quanto se non più di ogni altra lama vibrata in quegli anni alle stesse latitudini, sfruttando la propria esile conformazione allo scopo di lasciare fulminea segni indelebili su chiunque vi si avvicini. Tuttavia la tempesta promessa dalle battute iniziali di “Valdogg” si rivela in realtà uno scroscio passeggero preludente a delle schiarite di taglio nettamente folkloristico, in una simile maniera davvero pionieristiche, impostate su quel duetto elettro-acustico che già aveva lasciato stupite le legioni nere all’ascolto della monumentale “793 (Slaget Om Lindisfarne)”; fantasisti senza alcuna restrizione, i Kampfar paiono persino guardare alla Grecia invertendone però l’assioma di base (la melodia quale forza dionisiaca tendente al buio della ragione) ed utilizzando l’ancestralismo eteno della loro terra in prospettiva stavolta illuministica, tanto per aggiungere un altro controsenso. Si ritorna pertanto a Bathory, agli Storm ed alle rimembranze di un passato glorioso tramite musica ed iconografia ispirate agli antenati? Non proprio, perché per l’appunto i norvegesi hanno fatto tesoro degli primi lavori dei sopra citati Enslaved, ed ai vagheggiamenti nostalgici di cui sono intrisi i gonfi cori puliti della battagliera “Hymne” hanno l’accortezza di alternare le minacciose folate di vento che aprono e chiudono “Bukkeferd”, papabile vetta assoluta del full-length con all’interno di nuovo quei break suadenti adombrati qui dalle stregonesche tastiere, mai così in primo piano finora e cariche di quell’atavico terrore che l’uomo provava aggirandosi per i boschi e dormendo nelle caverne, e che il duo approfondirà pienamente nel prossimo “Fra Underverdenen”.
Il panteismo attraverso il quale si concretizza l’equazione tra invocazioni ad Odino e riferimenti alla forza elementale, tra la fierezza del combattente e la sua subalternità ineluttabile alla natura circostante, permea l’intero “Mellom Skogkledde Aaser” e contagia così anche i brevi sfoghi in scaletta come la postilla “Naglfar / Ragnarok” in tributo agli Isengard e alla durezza della vita nordica, o la ricca intro di “Valgalderkvad” ancora oggi sfruttata in sede live per i più svariati medley e dalla cui malignità trarranno senz’altro spunto i Finntroll, pure loro maestri nel mostrare buio e luce come tratti inseparabili della stessa impietosa eppure sublime condizione umana.

Il rilascio dell’opera in questione mediante la Malicious Records (già dietro alle avveniristiche pubblicazioni dei giovani Dødheimsgard e Borknagar, tra gli altri) non è che la riprova utile benché non certamente necessaria del senso di freschezza del quale i Kampfar si erano fatti portatori già nel 1997, forti di tutta l’ambizione e la noncuranza nei confronti delle piccole fallacie che soltanto un debutto può vantare. Nessun altro opus della band venuta dall’allora Østfold potrà infatti replicare la dicotomia tra la pura scuola norrena e le istanze di rinnovamento concettuale, o di profonda unicità ed individualismo spinto già serpeggianti nell’ambiente estremo, sebbene nel 2011 gli episodi maggiormente brillanti di un da sempre sottovalutato “Mare” tornino spesso e volentieri alla totalizzante visione di bene e male imbracciata da Dolk e Thomas circa tre lustri addietro: al contrario si punterà, a partire dal magistrale follow-up datato 1999, alla polarizzazione di mood e scrittura verso il lato recondito ed inquieto della tradizione, celato in quel verde subconscio condiviso il quale può essere messo su spartito tramite le inquietudini Folk piuttosto che mediante l’epica Viking, peraltro destinata di lì a poco a passare tra le nerborute ed in tal senso ben più preparate mani dei cugini svedesi (nella fattispecie: i fin da subito mirabolanti esordi di Mithotyn e Thyrfing).
Ad ogni modo, e pur nella sua sostanziale unicità all’interno di una discografia altrimenti splendidamente coesa, il moto ondivago tra nero e bianco catturato su “Mellom Skogkledde Aaser” conserva dopo venticinque anni un’energia assai rara e quasi visionaria nell’altrimenti immutabile permagelo fisso lì intorno, facendone bella mostra tanto negli ancora oggi godevolissimi brani quanto appunto in quella suggestiva copertina a metà strada tra inverno ed estate, tra passato recente e futuro di anni a venire; un paesaggio mutevole e dalla forza vitale inaspettata, quella stessa che hanno i Kampfar e aveva buona parte delle nuove leve norvegesi messesi in viaggio tutte assieme alla volta delle più inedite forme espressive.

Michele “Ordog” Finelli

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