Kampfar – “Mare” (2011)

Artist: Kampfar
Title: Mare
Label: Napalm Records
Year: 2011
Genre: Black/Folk Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Mare”
2. “Ildstemmer”
3. “Huldreland”
4. “Bergtatt”
5. “Trolldomspakt”
6. “Volvevers”
7. “Blitzwitch”
8. “Nattgang”
9. “Altergang”

Persino di questi tempi non sono in pochi ad avere i proverbiali sudori freddi ogni volta che in un qualsiasi dibattito sulle produzioni Black Metal viene fatto a sproposito il nome di Peter Tägtgren, considerato soprattutto da certi reduci dei tardi anni novanta come il fautore principale di soluzioni standardizzate e confusionarie a metà tra Black e Death, oltre che mente perfida dietro i roboanti svolazzi sinfonici proliferati nel settore ex post Enthrone Darkness Triumphant”. Ora, per quanto sia innegabile l’influenza sul prodotto finito da parte di chi siede dietro alla consolle (figurarsi poi quando costui è il lìder maximo la cui personalità tira le redini dei ben noti e sublimi Hypocrisy), è comunque compito di ogni band quantomeno valida elaborare nuove modalità compositive attorno alle quali questa figura, scelta per un motivo che vada oltre al nome e rigorosamente a visione già chiara, possa costruire un’impalcatura sonora memorabile: così fecero, al crocevia, musicisti di suprema caratura come Morgan Håkansson ed Abbath, capaci nonostante la fama già acquisita sul campo di mettersi in discussione con accorgimenti stilistici in linea col proprio background ma al momento stesso assimilabili alla sensibilità nuova ed aperta alle inedite vette di estremismo e compattezza (strettamente funzionale alle evoluzioni dei rispettivi percorsi) del rinomato tuttofare svedese -non lo si scordi- da loro stessi scelto. A quasi quindici anni di distanza dai vari Nightwing” ed “At The Heart Of Winter” però, il ristretto curriculum di perle nere sapientemente tirate a lucido dall’ufologo mancato per eccellenza nel circuito Metal si arricchisce di un ulteriore esemplare; un disco sicuramente nato non proprio sotto la migliore delle stelle, ma a posteriori una bestia anche per questo stilisticamente rara, un unicum assoluto per i suoi autori nonché prefazione ad uno stato di grazia che continua sotto ogni aspetto ancora oggi.

Il logo della band

Agli occhi di molti appassionati, ciò che ha reso i Kampfar un’entità ben definita nonostante il relativo ritardo nell’esordire ed il conseguente sovraffollamento del panorama norvegese al loro arrivo è stato il dualismo tra i poli opposti incarnati da Dolk e Thomas, contrappesi l’uno dell’altro installati dentro un sistema irreplicabile dove i differenti orientamenti artistici non erano un ostacolo bensì la base inimitabile per un fertile scambio tra due forze interdipendenti che li porta a divenire, tra il 1997 ed il 1998, sulle ali dell’interesse esplicito per gli anfratti più bui della magia e della mitologia norrena, veri alieni nel già ingranato mondo Black Metal, nonché musicalmente tra i precursori di una nicchia Pagan dall’identità tutta loro.
L’abbandono dello storico chitarrista e compositore occorso proprio l’anno precedente alla pubblicazione di “Mare” è dunque un campanello d’allarme impossibile da ignorare per chi ha adorato l’ecosistema Black/Folk sviluppatosi specialmente entro i due grandiosi lavori iniziali; e in questo contesto la scelta di Peter Tägtgren e del gregario Jonas Kjellgren, entrambi araldi dei suoni bombastici che nel 2011 hanno colonizzato il genere in pressoché ogni sua corrente, risuona come la campana a morto per le atmosfere chiaroscure intessute dal monicker nei suoi capitoli migliori. Mentre quindi il mondo fuori dagli Abyss si aspetta un “Fra Underverdenen” sfigurato da una produzione esagerata che ne distrugga qualsivoglia potenziale atmosferico, Dolk e compari -rimasti un trio- realizzano che l’unica via per smarcarsi da tale incombenza (e magari pure dall’ombra del membro defezionario, comunque presente come aiuto attivo in studio di registrazione) è appunto il costruire per la propria creatura un’identità del tutto nuova, scevra per quanto possibile dei rimandi folkloristici in senso stretto presenti in “Kvass” ed “Heimgang”, e che possa al contrario beneficiare degli upgrade ingegneristici messi a disposizione sua e dei sodali rimasti in sezione ritmica, nei volti di Ask e Jon Bakker.

La band

Presentato al mondo con un artwork assolutamente inaspettato, forse non totalmente riuscito ma dal sicuro impatto artistico e cromatico, “Mare” vede la formazione abbracciare senza remore la sua dimensione più aperta e luminescente, gonfiando i polmoni dell’ascoltatore con l’aria pura di una Norvegia i cui racconti di sangue e tenebra, di troll e di streghe non hanno necessità di un corrispettivo musicale forzatamente lugubre o impostato su toni lo-fi per incutere timore. Affidato invece a brani spesso e volentieri caratterizzati da una sontuosa vena epica squisitamente nordica, graziata a sua volta dal sound chiaro e potente, il racconto del lato oscuro della Scandinavia risulta in linea con una weltanschauung forse perfino troppo poco frequentata in ambito Black Metal; le forze diaboliche che albergano nella natura devono comunque essere accettate come componenti indissolubili della stessa, e la scelta dei Kampfar di unificare i due volti della propria terra anziché dividere la luce riflessa sulle acque dei fiordi dal buio delle foreste di conifere che cancellano il cielo può confondere ad un primo contatto, ma è allo stesso tempo il punto d’accesso dal quale decostruire ed infine comprendere un’opera meticcia figlia dei cambiamenti e delle incertezze – e di queste altrettanto forte.
Il Diavolo in rosso cavalca nella notte boreale, ma i suoi cantori da ormai quindici anni a questa parte non sembrano affatto averne paura, né si preoccupano di dissimulare tale sentimento sotto le partiture malvagie riuscitegli divinamente in “Kvass”: il riff che riempie l’aria una volta iniziata la title-track risuona carico del vento artico, riportando il gruppo agli scenari assolati dal sapore Viking rimasti inviolati dall’epoca dello speculare Mellom Skogkledde Aaser” (citato a piene mani, stavolta più nella forma che nella sostanza, nel break centrale della non a caso meno longeva e meno caratterizzante “Bergtatt”). L’ampio respiro dato a chitarra e batteria diviene così un dettaglio fondamentale nel soundscape imbastito proprio da un insospettabile staff degli Abyss Studios, passaggio doveroso in suono (ed in stile, si presti attenzione proprio alle novità dal gusto Dark nei rallentamenti) per raggiungere le produzioni calibratissime sentite poi su Djevelmakt” e Profan”. Lo testimonia l’incipit della clamorosa “Huldreland”, cupo e cadenzato nonché preview in retrospettiva di parecchi ed ancor più spettacolari episodi successivi, ai cui eleganti germi d’intuizione brillante fa ciononostante seguito un’apertura melodica impossibile da dimenticare per sapienza compositiva e puntualità nel minutaggio: una volta ancora, luci ed ombre non sono l’uno nemesi dell’altro ma al contrario parti inscindibili e parimenti vitali dell’ambiente circostante.

“Mare” è non sorprendentemente dedicato alla figura delle cosiddette streghe, alle donne che hanno scelto di seguire il loro percorso anche a costo di essere stigmatizzate, torturate o direttamente eliminate da un’umanità incapace di comprendere qualunque diversità che esuli dai propri schemi mentali e valoriali: difficile quindi immaginare un concept più adatto per un album magari anche accolto abbastanza bene all’uscita, ma in seguito confinato all’ingrato compito di snodo tra l’era di Thomas Andreassen e quella del freschissimo Ole Hartvigsen, chiave revitalizzante fatta musicista della granitica doppietta rilasciata soltanto nel biennio 2015-2016 sotto Indie Recordings; una trilogia non pianificata ma realizzata in fieri dai suoi autori di cui l’album in oggetto del 2011 è spiritualmente apripista e stilisticamente una matrice dalla classe penalizzata da una fisiologica ma intrigante minore tensione compositiva e ritmica. Seppure innegabilmente lontana dall’assenza di difetti, specie se si considera la ripetitività di certe strutture ed il minor interesse generato dai capitoli legati al taglio maggiormente Black Metal dei dischi precedenti, è tuttavia anche solo il respiro vitale di una “Trolldomspakt” o di una “Blitzwitch” a conferirle il giusto fascino allora come oggi, a dieci anni di distanza dalla sua pubblicazione.
Sull’onda di “Mare” i Kampfar vanno prima, debuttanti, in tour in Nord America assieme ai Vreid riscuotendo ottimi riscontri, e poi si salvano dal crollo verticale di Napalm Records accasandosi presso la label compatriota in vista di quelli che saranno proprio i maggiori successi di sempre della band; niente male in fondo per quello che, a mente fredda, può senz’altro e correttamente essere considerato un elemento di secondo piano, ma di estremo interesse non solo storico, nell’illustre catalogo della band: alter ego calzante di una creatura mantenutasi sulla propria strada con l’orgoglio di chi non deve spiegazione alcuna alla corte del metallo nero.

Michele “Ordog” Finelli

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