Paysage D’Hiver – “Steineiche” (1998)

Artist: Paysage D’Hiver
Title: Steineiche
Label: Kunsthall Produktionen
Year: 1998
Genre: Ambient/Black Metal
Country: Svizzera

Tracklist:
1. “Die Baumfrau”
2. “Der Baummann”
3. “Der Baum”
4. “Déjà Vu”

“E crolla dunque una buona volta, Società! Crepa dunque, barbogio mondo!”

Può un progetto di venticinque anni continuare a corrodere le fondamenta della realtà in cui è inevitabilmente nato al punto da fétere con i propri miasmi il presente? Può avere ancora un qualche significato scorgerne un’alleanza con i suoi contemporanei dalla così evidentemente diversa divisa? Può quest’ultima non pregiudicarne l’identità, o almeno confinarlo nelle retrovie di chi è finito tra le pagine dei soli compendi letti e riletti dagli appassionati e cultori più ardenti?

Il logo della band

Capita spesso che tali siano i dubbi di chi si ritrova a riascoltare dopo tanto tempo il debutto di artisti che, già dalle loro prime mosse, si sono sì distinti da quanto percorso da altri fino a quel preciso istante, ma che si sono anche ritrovati a farlo in momenti di evidente transizione, se non pure in luoghi dove ancora doveva sorgere l’ombra di quel linguaggio o che, semplicemente e per conseguenza di ciò, hanno potuto godere dei frutti delle loro produzioni, le primissime non escluse, soltanto in tempi più maturi.
È forse proprio questo il caso di un album come “Steineiche”, prima creazione nell’oggi riverita casa Paysage D’Hiver che sembra riassumere in sé e nella sua storia la totalità del discorso accennato. Un disco notevole, forse, ancor più e prima che musicalmente in sé e per sé, proprio in quei termini di contestualizzazione temporale e comparativa di cui sopra. Ciò che più colpisce infatti a distanza di un quarto di secolo dal primo trittico di uscite disperse casalingamente su CD-R e cassette duplicate a nome Kunsthall Produktionen dell’ormai nota one-man band svizzera è infatti come un musicista proveniente da un’isolata vallata svizzera possa aver composto, nel panorama mondiale del ’98, un disco così compatto, già così programmatico sebbene passato agli onori della critica successiva come demo ed esemplificativo in barba a ciò della propria arte senza farsi bandiera di alcun movimento né di alcuna tendenza facilmente ritrovabile altrove.

Wintherr

Al tramonto degli anni Novanta che testimoniano almeno due inclinazioni opposte, tra le continue evoluzioni norvegesi evidentemente non gradite dall’eremita di Schwarzenburg rimasto ipnotizzato da “Hvis Lyset Tar Oss”, dal gelo ipnotico di “Frost” e “Vikingligr Veldi” al punto tale da non poter riconoscere come naturali seguiti i successivi lavori dei propri beniamini musicali, e il tentativo tutto underground (nei migliori dei casi) o reazionario di osteggiare l’evoluzione concepita come tradimento in forma ed estetica, colui che qui sceglie per l’eternità lo pseudonimo di Wintherr ha già optato per una terza ed ambigua strada nonché dato –forse persino inconsapevolmente– il suo contributo all’ancora non necessario svecchiamento della cultura musicale nera rimanendo sensibile a particolari effetti di luce, d’immediatezza espressiva e d’interessi formali che sotto a quel rumore bianco come la neve non possono che dirsi squisitamente innovativi.
La sua, tuttavia, non è un’azione avanguardistica, o perlomeno non lo è nei presupposti: il suo studio non appare centripeto nei venti minuti di tanta reiterazione quanto movimento e cambiamento de “Die Baumfrau”, bensì dilagante, attentissimo al terreno su cui mette piede, conscio e orgoglioso della sua appartenenza alla gente dei monti, agli isolati geograficamente e forse spiritualmente, agli alieni ad un certo tipo di mondo moderno, rivolto a peregrinare di villaggio in villaggio tentando un approccio con la cultura locale senza scivolare esplicitamente o apertamente nel folklore come altri talenti di maggiore successo fanno a nord dell’Europa tra il 1994 ed il 1999. Il trait d’union tra una scala di partenza così locale e l’orizzonte in continua espansione spazio-temporale che orienta questa musica (e di espansione davvero si deve parlare, se si nota il cambio di toni dalla prima sezione di lavoro a quella riservata a “Der Baummann”, che dà per inciso un curioso anticipo di quel ribassamento melmoso che viene forse parallelamente esplorato in “Schattengang” e mescolato qui all’irripetuta luttuosità del capolavoro di degli insospettabili My Dying Bride) si trova esattamente nel vuoto incolmabile che rende assurdo questo rapporto: in quel rumore indistinto così denso e caotico da essere perfetto e perfino ordinato.
Più di un’ora di musica e viaggio dopo il 1998 incomprensibilmente privato della sua conclusione “Déjà-Vu” (mai più riproposta in qualunque riedizione successiva al compact casalingo custodito in busta nera con cui il lavoro viene originariamente dato in pasto al mondo), dove una foresta di olmi si differenzia alle e dalle radici ma finisce per bloccare con i suoi rami intricati uno sguardo sul cielo. Tra “Die Baumfrau” e “Der Baumann”, come detto, prima di tornare alla distensione di “Der Baum” (che con il suo iniziare preannuncia una nerezza ancora ignota al genere, e nel suo proseguire dà la mano al collega Nortt anticipandone di quasi dieci anni l’intuizione “Galgenfrist”, oltre che dare il La alle esplorazioni dei primi Urfaust oltre un lustro più tardi) si nasconde nemmeno troppo tra le righe una riflessione che sembra segnare quindi la nascita di una prima, tenue, tendenza d’avanguardia -in ciò tale- la quale guarda dentro di sé più che al reagire al circostante, e che si configura tutta primitivistica in ragione proprio di quel cammino tra paesaggi innevati svizzeri dove il vento, disumano come quei sintetizzatori ultraterreni che ancora così nel Black Metal mai si erano sentiti (o quella voce eterea che gorgheggia sul finale dell’album così come Tobias Möckl vuole che il mondo lo conosca oggi, ovverosia epurato della quarta traccia), urla un dramma che è invece tutto umano e che non ha nulla a che vedere con il soggettivismo. La vita degli emarginati -di chi vive ai piedi di una montagna e scandisce il proprio tempo in tormente di neve che fermano il tempo e secludono nello spazio- in uno stile senza colori e con deformazioni prospettiche mutuate pertanto esclusivamente dal linguaggio più povero.

“Steineiche” interrompe dunque bruscamente l’ormai considerato più accademico percorso scandinavo che segue il Black Metal a quelle altezze cronologiche, presentando su un campo innevato stesure di un colore che è invece totalmente piano: un paradosso, bava nera chiusa in forme liberate da ogni riferimento all’oggettività della realtà visiva. In ciò, ma non soltanto in ciò, può quindi essere ritenuto un assoluto classico. Oltre all’uso di una voce sussurrata ma straziata, la prima di una serie, altrettanto magistrale sembra restare il dialogo continuo tra la serratissima componente musicale tout-court e quei segmenti Ambient che puntellano con sapiente equilibrio l’intero corso del disco, mescolandosi con quel suono lontano di violino -talmente lontano che violino non pare nemmeno- nel suo cuore più centrale. Ricordato infatti forse più per queste sezioni atmosferiche che per le parti smaccatamente Black Metal, se di un tale genere si vuole parlare di fronte a quel che si trova in una buona metà di questo ancora oggi stranissimo parto, strano persino per un genere tanto strano qual è il più nero del mondo Rock, “Steineiche” propone forme che ruotano liberamente in una spazialità sempre ambigua; segmenti di rumori dove una voce narrante ci farà notare atemporalmente, da qui in poi, come le orme che ci siamo lasciati alle spalle siano state ormai cancellate dalla neve. Segni primitivi, insomma, che nel loro insieme non vogliono illustrare, bensì rappresentare la sensibilità di un ritmo tormentato che, pure nel dialogo tra opere così indistintamente distanti tra loro, mai avrà volto.

Sara “Vesperhypnos” Cönt

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