Enslaved – “Eld” (1997)

Artist: Enslaved
Title: Eld
Label: Osmose Productions
Year: 1997
Genre: Viking/Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “793 (Slaget Om Lindisfarne)”
2. “Hordalendingen”
3. “Alfablot”
4. “Kvasirs Blod”
5. “For LengeSiden”
6. “Glemt”
7. “Eld”

Il pallido sole dell’alta Britannia illumina la calma superfice del Mare del Nord, durante quello che appare ai monaci dell’abbazia di Lindisfarne come un altro giorno di devota preghiera e duro lavoro su quella piccola isola tidale. Dalla linea dell’orizzonte d’improvviso spunta però un’imbarcazione sconosciuta, dalla poderosa figura e condotta da genti discese da oltremare armate di tutto punto: ciò che segue, a detta di molti esperti la prima incursione vichinga documentata al di fuori dalla Scandinavia -quella che in particolare cambia tutto nel futuro sincretismo della cristianità d’Albione-, dà inizio ad un’epoca di terrore e gloria impossibile da eradicare dall’inconscio collettivo dei popoli i quali l’hanno vissuta sulla loro pelle – tanto che proprio dal suo ricordo targato 793 d.C. comincia la testimonianza definitiva di quella corrente musicale avente il suo nocciolo nel bagaglio tematico pagano, e la cui esistenza dopo oltre venticinque anni rimane dibattuta persino tutt’ora. Nell’anno che vede tra gli altri i debutti di Mithotyn, Menhir e Windir (per non parlare di “Av Norrøn Ætt” degli scaldi Helheim al loro secondo giro), “Eld” non è quindi un’opera fondativa per quanto concerne il sottogenere in questione (si veda piuttosto il caso “Blood On Ice”, platter dato per disperso e poi dissepolto appena in tempo perché il mondo ne capisse davvero il potenziale) ma più il suo atto di completa indipendenza dal Black Metal ancora saldo sia nei precedenti Enslaved sia in altri pionieri quali erano stati fino ad allora Falkenbach e Hades; senza bandirlo dal disegno dei due leader ma livellandolo fino a farlo diventare un’influenza tra le tante da loro percepite.

Il logo della band

Corretto pertanto fissare nel 1997 la maturazione tout-court di Grutle Kjellson ed Ivar Bjørnson, i quali anziché virare di netto alla ricerca di un nuovo batterista e di nuove acque magari pure meno ghiacciate scelgono invece di navigare su più correnti diverse senza rinunciare a nessun lato del proprio essere artistico, con un’organicità nel mischiare visioni tra loro anche contrastanti mai ripetuta almeno fino al totale liberi tutti seguito all’esondazione in campo Progressive. Graziata dal suono maggiormente arrotondato e allo stesso tempo ancora algido della coppia d’oro PyttenJørgen Træen (stessa combinazione produttiva dietro un gioiello di simile foggia chiamato “The Dawn Of The Dying Sun”), la terza prova degli Enslaved piega il passato del monicker ad uso e consumo di due menti in costante ascesi creativa supportate da un percussionista validissimo come Harald Helgeson: jazzista molto spavaldo con i tom eppure ottimo raccordo a collegare l’impeccabile operato propedeutico dell’originaria copia carbone Trym Torson ed il tocco più manesco del Dirge Rep in esodo dai Gehenna nel successivo “Blodhemn”.
La materia nera norvegese, deformata prima dalle sinfoniche dilatazioni ipnotiche di “Vikingligr Veldi” e poco dopo riportata ad una comunque personalissima e pagana feralità sul vitreo “Frost”, si vede stavolta gettata dentro un songwriting agile ed orientato a cambi di tempo e alle sofisticatezze strutturali, uscendone perciò snaturato nella sua tangibile essenza a metà tra Burzum e gli Immortal entro la quale il trio nordico si era finora mosso tracciando un percorso unico nel panorama di allora (si pensi al visionario Hordanes Land”) e tuttavia strappando un contratto alla Deathlike Silence quasi a garanzia della sua fedeltà alla linea scandinava, nonostante il già lampante gusto nel procedere sempre in avanti alla ricerca di vie inusuali su cui impostare la rotta.

La band

Affinché tale istanza di rinnovamento morfologico venga da subito messa in chiaro, l’apertura scelta per “Eld” va coi suoi indimenticabili corni di diritto tra i quantomeno dieci incipit più leggendari in tutto il reame della musica oscura; coraggioso ed assai moderno nel limitare gli sfoghi di aggressività a giusto un paio di fraseggi isolati, il quarto d’ora abbondante della suite in movimenti a nome “793 (Slaget Om Lindisfarne)” preferisce ondeggiare tra le soffici keyboard di enorme forza narrativa oltre che emotiva (basta un breve giro in rete per accorgersi di quanti scritti dedicati al disco, incluso ovviamente quello ivi presente, partano da una spontanea rievocazione di quel fatidico 8 giugno) e la chitarra acustica la quale, sebbene sommersa dalla distorsione, rimane profetica e testarda a sorreggere le remate per poi cedere la scena all’arioso turbinìo melodico centrale non appena esaurita la prima scarica di sacrilega violenza. Noia non pervenuta, scrittura cristallina nell’alternare e sviluppare essenzialmente tre fasi ben distinte e Grutle Kjellson impegnato nelle prime strofe interamente in pulito: anche volendo prescindere dalle etichette di genere, qui, nel 1997 e in questo pezzo in particolare hanno genesi gli attuali Enslaved. Più in largo, qui viene portato a termine il lavoro incominciato con “Slaget I Skogen Bortenfor” (o con la struttura dell’intero mini del 1993, volendo) e se non nasce il Viking Metal (perché non ci nasce, l’abbiamo detto), di lato alle stramberie avanguardistiche degli altri innovatori del 1997 quali gli Arcturus de “La Masquerade Infernale” o i Solefald di “The Linear Scaffold”, e più vicino forse alle intuizioni dei Borknagar nell’altrettanto coevo “The Olden Domain”, vede la luce piuttosto il vero e proprio Progressive Black Metal de facto come non lo si era mai sentito – nemmeno nelle slegature dei Ved Buens Ende del 1995.
Come dare però seguito ad un’opener sontuosa al punto da rischiare di adombrare per intero uno splendido album lungo quattro volte tanto? Per cominciare si può sbollire gli animi con una restante prima metà più canonica, non fosse che lo schema ora viene ribaltato ed il ferro assassino di fine ’94 si ritrova così tempestato di divagazioni improvvise in un’impalpabile dimensione mitica, fatta al tempo stesso della luce echeggiante negli arpeggi che allentano la tensione di “Hordalendingen” come della tenebra generata dall’interpretazione vocale su “Kvasirs Blod”. I tre norvegesi rifuggono quindi il coro enfatico e vittorioso (ab)usato poi da innumerevoli compagni di leva figli irriconosciuti dei Bathory, ed alla guerra irrinunciabile in quanto elemento fondante della vita antica alternano invece una quiete auto- ed etero-contemplativa di non comune profondità, riflessa oltre che nell’immenso primo capitolo pure nei lampi Avantgarde regalati da corde e pelli durante le battute iniziali di “For Lenge Siden”, bissati poi dalle stratificazioni elettrice ed acustiche, vocali e tastieristiche disparse su “Glemt” prima del grande rogo finale, portato via dal vento insieme al fiero grido di un’epoca tra le ceneri sepolta eppure mai del tutto scomparsa.

Cammuffato infine sotto una cover kitsch un poco riduttiva, con tanto di Mjöllnir implementato nel logo al posto dei due crocifissi capovolti, resiste dunque lo stesso fisiologico bisogno di spostare il discorso sonoro e concettuale al capoverso successivo: una volta distrutta l’idea romantica del nord Europa pre-cristiano mediante due lavori spigolosi ed opprimenti, il terzetto di stanza nel Vestland si concede il suo giro trionfale sotto i raggi del sole, illuminanti armature non più arrugginite come tre anni addietro ma pronte alla battaglia come d’altronde lo sguardo fiero del cantante e bassista che ci osserva immobile nel tempo e nella memoria. E sebbene lo scontro frontale preannunciato avrà luogo solo a partire dall’urlo battagliero emesso dalla copertina e dai solchi del venturo “Blodhemn”, il venticinquenne terzo episodio di questa lucente saga cattura del resto il netto affermarsi dei suoi araldi quali superpotenza a cui nessun epigono ha mai ad oggi sfiorato nemmeno il tallone. Sangue, fuoco e morte aveva osato profetizzare qualcuno: ed infatti il fuoco, l’“Eld” del titolo scatenatosi nella timida primavera del 1997, dissecca il sangue versato dalla Norvegia nel corso del lustro precedente facendola ufficialmente tornare al 793 in attesa del trapasso della scena originaria, e della sua immediata resurrezione in isolati ed elitari rivoli di grande personalità che ancora oggi portano avanti la fiamma nella promessa Terra dei Fiordi; un selezionato novero di creature antiche e moderne, del quale fanno senza dubbio parte gli stessi Enslaved.

Michele “Ordog” Finelli

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