Hexvessel – “Polar Veil” (2023)

Artist: Hexvessel
Title: Polar Veil
Label: Svart Records
Year: 2023
Genre: Black/Doom Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “The Tundra Is Awake”
2. “Older Than The Gods”
3. “Listen To The River”
4. “A Cabin In Montana”
5. “Eternal Meadow”
6. “Crepuscular Creatures”
7. “Ring”
8. “Homeward Polar Spirit”

Listen to them, the children of the night. What music they make!

Si dice che talvolta gli dèi aprano una fenditura nel cielo, in quel velo celeste che ci sovrasta, per gettarvi un occhio e osservare per un solo e fuggente istante cosa accade sulla terra a noi, più facilmente e velocemente mortali di loro, antichi come il tempo eppure a sua differenza neanch’essi immortali. Quel che scrutano è senza dubbio variegato, vivace nei suoi contrasti più essenziali, ma sottintendente una inerenza di bisogno, una necessità totalmente relativa a quella strana specie umana che hanno creato o da cui sono stati creati: la disperata urgenza, l’esigenza palpabile anche nel più rassegnato ed arrendevole degli individui d’identificare una qualche evanescente forma di potere superiore che possa indirizzare e dare senso alla vita nella battaglia con la realizzazione consapevole, secondo la quale, sembrerebbe non esserci nulla che abbia un significato o piano precostruito nell’universo; o per meglio dirla, nulla che, in effetti, si curi in apparenza dell’infinita piccolezza umana – cos’altro, dal canto suo, se non quel vuoto, quello spacco e di nuovo quel velo che da un lato la distanzia dal divino e dall’altro punta a colmarsi con esso, e che dunque, nella sua anche comoda e sicura irraggiungibilità, assume le sembianze del credo accomunate, in tutte le sue forme, dalla meccanica religiosa negli effetti.

Il logo della band

La movenza degli ingranaggi, per così definirli, è seriamente la medesima: trovare un recipiente, il quale sia fatto di ogni sorta di convinzione politica o di cosiddetta spiritualità, o ancora di fanatismo sportivo, teorico, economico, tecnologico; nulla importanza pertiene del resto la forma. Tutto sembra essere un papabile rimedio alla nullità dell’essere di fronte al mistero del non essere -non morente- incarnato dall’apparenza infinita della natura circostante, divina madre e matrigna; quello che trascende ogni altro mistero lungo il suo sentiero irto di pericoli il quale, per qualcuno, prende le sembianze delle arti e della creazione, ovverosia il rapportarsi con le proprie domande esistenziali e dar loro forma affinché possano diventare il punto di partenza o di arrivo per qualcun altro in quel miracolo soprannaturale che è la connessione tra un creatore avulso e il suo ascoltatore o fruitore attivo. La necessità assume così un nome identificabile ma la forma resta passibile di qualunque cambiamento perché, come anticipato e dichiarato, il percorso è accidentato e necessario è dunque l’adattamento per la veicolazione di pensieri in continua mutazione ed evoluzione. Quel che avanza e lega il tutto è un’anima versata in un certo ed inconfondibile lato dello spettro sonoro; in questo caso, quella di Mat McNerney il cui estatico operato d’euforia a ponte e limbo tra mondi mette in comunicazione da molti anni a questa parte i linguaggi -a ben vedere prossimi, nella sostanza espressiva- di una certa psichedelia settantiana con il cantautorato di un decennio precedente, e il favore dell’oscurità nordica esploso due decenni più tardi con la sua natia tenebra albionica nell’irripetuta scacchiera Dark degli anni ‘80. Una mobilità artistica d’intuizione rapida e preclusa ai mediocri quel che permette ai suoi Hexvessel di cambiare forma lungo il sentiero, addentrandosi dopo cinque album di peculiare Forest Folk, allucinato e stravagante nei suoi momenti migliori, ancor più a fondo nella foresta della notte per poter giungere a quello spiazzo lontano in cui rialzare il volto verso le stelle, osservarlo in silenziosa preghiera – guardare con occhi nuovi il velo polare, metafora dalla frontiera ultima dell’umano e del corpo, soglia dell’immateriale ed ascoltarne con un paio di nuove o più coltivate orecchie il sottile respiro algido.

La band

“Polar Veil”, l’esacerbazione della poetica Folk Rock psichedelica, retroguardistica, eppure sperimentale a suo modo e Doom a cavallo tra annate e generi nel linguaggio del più puro, incontaminato e scarno dei Black Metal, è il suono di quell’addensato respiro di nebbia raggelata, nonché difatti e con coerenza direzionale quel che si potrebbe definire un lungo nocturne: un madrigale della notte per l’uomo nel lupo ed il canto di una unità, di un tutt’uno di creatore e creato che si traduce in un libero flusso di musica e parole il quale, come una spugna, assorbe e bagna il circostante venendone modificato e modificandolo, unio mystica esistenziale se si vuole priva di un connotato religioso in termini, e ciononostante devota e ritualistica per lo stato mentale in cui è evidentemente stata creata; lo stesso stato mentale che ha regalato all’uomo religioni e credenze, l’elegia “Older Than The Gods” e la sfuriata catartica di “Homeward Polar Spirit” che accompagna dal limitare della notte alle prime luci del mattino, una tanàkh pagana e seclusa, ma per questo motivo comune al mondo intero che sa ascoltarla.
Sorprende quindi (e di sicuro molto) l’ascolto e la razionalità analitica del già estimatore degli Hexvessel ritrovarseli alle prese con distorsioni che sembrano uscire da “A Blaze In The Northern Sky” o ancor più da “Under A Funeral Moon” anno Domini 2023; con blast-beat e con una poetica che sembra riassumere in un punto e più di comunanza tutte le differenze espressive ed espositive di un assurdo, fittizio e ciononostante effettivo dialogo intercorso tra “Resplendent Grotesque”, “Filosofem”, “Empty Space Meditation”, “Consider The Birds” e “Written In Waters”; ma non deve sorprendere bensì meravigliare il cuore che ne riconosce la lingua antica eoni, le parole eterne che compongono la cullante danza spettrale di “A Cabin In Montana”, o quelle che inanellano le note degli accordi in minore à la Varg Vikernes anno 1996 dell’ultraterrena “Ring”. Pertanto non saranno i movimenti ascensionali del Doom rarefatto e crepuscolare della eccezionale “The Tundra Is Awake”, annerita e in straordinaria transizione come una marcia verso la gelida coltre di rintocchi sintetizzati burzumiani, ai confini del mondo dell’uomo, a far credere di trovarsi nei fatti di fronte ad una nuova band dal momento che “Listen To The River” -pur nella sua differenza estetica- ha la medesima atmosfera di “Dawnbearer”, o la calma tetra di una “Crepuscular Creatures” rivisita e rallenta i battiti vitali della maggiore joy-in-decay à la Grave Pleasures di un altro lunatico precedente importante quale “When We Are Death”. Laddove insomma Tom Waits, David Eugene Edwards, Siouxsie Sioux e Leonard Cohen vengono prestati al mistero incontaminato dalla prosaicità umana, la voce crooner di natura Post-Punk virata al rituale e all’occulto misticismo regala una perla da annali quale l’“Eternal Medow” che ci accoglie come una scarica di tuoni prima di transitare nel dolore di quel lead melodici pesantissimi e in quello shuffle di batteria che dischiude cori ad introdurre una parte di Kvohst semplicemente da groppo in gola, una che è “The Gathering Wilderness” incarnato quanto mai si è sentito dopo il 2005.
Una sorpresa a dir nulla, in questo solo e selezionato senso, “Polar Veil”: una nuova identità che tuttavia si carica a otto mani di un bagaglio culturale e stilistico non del tutto nuovo per Rämänen, Helén e Hakonen (inedito forse solo per quest’ultimo, al suo secondo giro sulla giostra Hexvessel). Si pensi infatti ai frequenti incupimenti Doom (del resto, Jukka è motore ritmico nell’estremismo cerimoniale dei Dark Buddha Rising, oltre che della collaborazione Waste Of Space Orchestra) e quelli armonicamente virati di nero nelle interessanti distonie del già citato “When We Are Death” ma soprattutto di “No Holier Temple”, i quali dopo aver abbracciato per una vita intera il Black Metal come linguaggio dello spirito nella persona di Mathew McNerney (il curriculum vitae, in fatto di oscurità assortita al di fuori del collettivo rilocato nell’Uusimaa parla del resto chiaro: “Posthuman”, “Nouveau Gloaming”, il già menzionato “Resplendent Grotesque”, “Supervillain Outcast”, “Climax” e “Demon Solar Totem” sono soltanto alcuni titoli in oltre quindici anni di arco temporale che con costanza coprono) si ritrovano nel pieno della notte a comporre in assoluta necessità e con la naturalezza dei trasformisti più puri un disco di una solennità maestosa – difficile da descrivere per il mélange di musica e voce che propone, e che lo rende praticamente perfetto nonché assolutamente unico al mondo.

Com’è possibile allora che “Polar Veil” sia al contempo un cambiamento evidentemente epocale nel percorso creativo degli Hexvessel, uno strappo deciso all’udito, ma anche un punto di arrivo zenitale e riassunto di un lavoro compositivo durato ad oggi circa quattordici anni? Com’è possibile che sia così tanto alieno a qualunque genere per sé, da essere in fondo eccezionale proprio per ciò che apporta con estrema freschezza ed innegabile novità ai singoli generi che lambisce di striscio un po’ come fecero a loro modo gruppi come Ulver, Isengard e Storm, Agalloch, Alcest e Urfaust, o un disco quale “Hoagascht”? Forse perché gli Hexvessel hanno scritto un album Black Metal che definire Black Metal sembra al contempo un azzardo quanto una assoluta ovvietà nello spirito. Un paradosso, in altri termini: come lo sono sempre stati tutti i più grandi album di questo genere di musica. O forse perché “Polar Veil” non è un disco Black Metal, eppure lo è in tutti e per tutti i crismi possibili. Nel suo essere così notturno, così intimo, così semanticamente polare, così ultraterreno ed irreale, arcano e fuori tempo – fuori luogo, fuori spazio e fuori gioco. Una poesia troppo breve di cui non ci ricordiamo di aver letto, una canzone troppo oltrenaturale forse mai esistita e ciononostante già familiare, un luogo troppo remoto dove non siamo sicuri di essere mai stati ma che sa di casa: una fenditura nella norma che fa osservare un piccolo prodigio di creazione, fanaticamente religiosa e strenuamente agnostica all’unisono, nell’ambivalenza spiritualmente anarchica che, da sempre, riassume quello stato di distanziante terrorismo sociale in musica che è in fondo il Black Metal.

Too brief, thy life on highland wolds –
Where close the glaciers jut;
Too soon the snowstorm’s cloak enfolds –
Stone byre and pine-log hut.
Then wilt thou ply with hearth ablaze –
The winter’s well-worn tasks;
But spin thy wool with cheerful face:
One sunset in the mountain pays –
For all their winter asks.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente I Concerti della Settimana: 04/12 - 10/12 Successivo Pagan Storm News: 01/12 - 07/12