Darkthrone – “A Blaze In The Northern Sky” (1992)

Artist: Darkthrone
Title: A Blaze In The Northern Sky
Label: Peaceville Records
Year: 1992
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Kathaarian Life Code”
2. “In The Shadow Of The Horns”
3. “Paragon Belial”
4. “Where Cold Winds Blow”
5. “A Blaze In The Northern Sky”
6. “The Pagan Winter”

“Darkthrone play Unholy Black Metal exclusively.”

La più grave e inammissibile delle leggerezze sarebbe soprassedere su una dichiarazione che letta oggi ed estrapolata da qualsivoglia contesto rischierebbe l’infame appellativo di banale, pedissequa, se non addirittura autoreferenziale e sterile. Ma può forse questa passare inosservata sul retro di un booklet immerso nella pece più nera e graziato di quei pochi graffi bianchi scintillanti a profilare un’oscurità trionfante e tuttavia in grado di dominare solo e soltanto in presenza della sua più diafana e complementare controparte?
Le prime sensazioni che, a tre decadi dalla sua uscita, un disco tanto discusso, iconico e giustamente venerato come “A Blaze In The Northern Sky” trasmette tingono in toni bicromi un horror vacui estetico totalmente ignoto, preambolo di un minimalismo accostato al raggiungimento primo di una ferinità e di una primitività fino a quel momento davvero poco più che teorizzate; uno spirito in rivolta contro tutto che germoglia in seno ad un gruppo di individui già aggregati e devoti alla musica della morte, quella di “Soulside Journey” tra le altre, che annunciano con ogni crisma un brusco punto di rottura dal quale invocare una radicale e violenta rinascita in una primavera infernale solo apparentemente simile alle precedenti, ma che avrebbe in realtà scardinato una volta per tutte il modo di suonare e di percepire un genere. Di intenderlo, di realizzarlo e di trasmetterlo.

Il logo della band

Alle soglie del 1992 più di qualcosa ribolliva ormai da mesi e anni nel venefico paiolo che, passato di mano in mano nella linea fra Bergen e Oslo, disseminava esalazioni mortifere in tutta la nazione. Forse sarebbe dunque un’esasperazione esageratamente forte affermare che senza il secondo capitolo dei Darkthrone potessero mancare i presupposti più fondamentali per l’espansione progressiva del concetto di Black Metal oltre i confini nazionali. Non solo i Mayhem si ritrovano ideologicamente ormai ben oltre quel “Deathcrush” che da cinque anni infervora con la sua spinta anarchica e caotica mezza scena norvegese, portando a questo punto dal vivo in giro per l’Europa brani sconvolgenti come premonizioni di un futuro ancora impensabile quali “Freezing Moon” e “Pagan Fears”, ma si tratta del leggendario periodo di aurea convergenza e mutuo scambio di idee; precetti e tecniche gravitanti intorno al più temuto e chiacchierato negozio di musica della Terra dei Fiordi: dalle linee guida di Øystein Aarseth (devotamente citato tra le poche righe stampate sul booklet dell’uscita marchiata VILE 28CD in analisi), passando per le sperimentazioni di Snorre W. Ruch e dei suoi Thorns, fino al Count Grishnackh e agli Immortal che a distanza rispettiva di settimane e pochi mesi avrebbero debuttato con i trasversali “Burzum” e “Diabolical Fullmoon Mysticism”.
E tuttavia “A Blaze In The Northern Sky” è davvero il crocevia di tutto questo fuoco incrociato, la fiamma dal canto suo che indiscutibilmente prima annuncia l’alba di una nuova e degenerata era; l’apripista geniale, il vessillo di un’urgenza febbrile impossessatasi dei tre membri, espressione massima di tutto quel contesto proprio per una perfettamente incastonata natura transitoria a cavallo fra il prima e il dopo. Lo scettro che la storia ha posto fra le mani dei Darkthrone come gli iniziatori della cosiddetta seconda ondata non è vincolato in senso stretto al comunque non trascurabile merito di aver bruciato sul tempo la pubblicazione di qualunque altro full-length di quella cerchia, ma di averlo fatto veicolando un messaggio di un’intensità unica, semplicemente visionaria e dall’impatto travolgente a tutto tondo – tanto musicalmente nel rivoluzionare i propri punti di riferimento, quanto commercialmente utilizzando infatti come cassa di risonanza un’etichetta, Peaceville Records, dal prestigio e dal potenziale di diffusione che nel 1991 sono ancora totalmente impensabili per una formazione mossa dalla suggestione anticonformista e controcorrente del Black Metal. Al contempo difatti orfani di un Death Metal dalla cui piattezza si sentono traditi (tutti, tranne evidentemente quel Dag Nilsen staccatosi poco dopo come corpo estraneo con la stessa naturalezza con cui i membri rimanenti si distanziano in quegli anni da grandissima parte del loro stesso operato nel debutto azzurro), imbevuti di quel sentimento di necessario rinnovamento brulicante nell’humus norvegese e anche nervosamente protesi ad ascoltare la propria chiamata alle armi dagli abissi tombali dei Bathory e dei Tormentor di “Anno Domini”, dalle alienanti e solforose transizioni dei Celtic Frost e dalle estreme conseguenze che Sodom e Destruction avevano raggiunto con “In The Sign Of Evil” ed “Eternal Devastation”, i tre affibbiatisi i nuovi nomi di Nocturno Culto, Zephyrous e Fenriz entrano nei Creative Studios per registrare il loro nuovo album; grembo materno e malsano di produzione musicale che già aveva partorito proprio l’EP rosso della formazione di Euronymous e “Slow Death” (rispettatissimo demo dei Mortem nonché atto primo della carriera di Steinar “Sverd” Johnsen). Anche in ciò, un’altra circostanza del tutto non trascurabile, per cui le salette di Erik Avnskog diventano un luogo simbolicamente antitetico agli uniformanti Sunlight Studios nonché lo scenario ideale per mettere a tempo indeterminato da parte quel “Goatlord” ancora scoria bastarda di un tempo ormai lontano anni luce e inseguire invece l’ideale di una radicale regressione e di un soffocante annerimento del sound.

La band

Il percorso intrapreso con “A Blaze In The Northern Sky” è per conseguenza una spietata e cieca riduzione ai minimi termini di ogni componente stilistica, un ritorno alla morte tecnica ed estetica: una filosofia dalla forte impronta dissidente portata avanti con la sprezzante irriverenza ed angoscia della gioventù, rivolta ad un’essenzialità che esalti l’irrazionale, che celebri l’immediatezza del gesto ed avvolga di misticismo spirituale quel rumore accidentale che fa dello spazio sonoro qualcosa di ingovernabile e irripetibile. Questo equilibrio instabile fra ricerca e impellenza, tra concetto ideale teoretico di estremo in musica e voglia di esprimersi nel più breve tempo possibile, si dipana nel compiersi della celebrata Unholy Trinity: quella che unisce il primo capitolo ad “Under A Funeral Moon” e “Transilvanian Hunger” nei due anni successivi è una linea retta evolutiva volta alla progressiva scarnificazione dell’universo Darkthrone, che tende a quella purezza dal taglio glaciale e dal cupo orrore. Non stupisce dunque più di tanto che gli stessi autori rinneghino e mal sopportino (sincere o meno che siano le loro parole, in contesti tanto sfumati non è poi tanto importante la verità quanto l’indagine) gran parte degli elogi ai primissimi passi di questo perverso labor limae teso al suo contrario, riconoscendo una maggiore dignità agli altri due capitoli, ormai scevri delle più evidenti contaminazioni. Ma questa ibridazione non è un semplice tentativo mancato, una tappa superata da dimenticare, bensì un tassello fondamentale per l’evoluzione e la comprensione di un intero genere; per certi aspetti persino più cruciale nel chiamare a sé e rilasciare con potenza moltiplicata tutto lo spirito di un tempo, di quel tempo, nonché ad offrire il più sincero sguardo a quella che sarà tutta la futura carriera dei Darkthrone, da sempre in prima persona ascoltatori avidi e appassionati, improntati con naturalezza a muoversi in un continuo e consapevole sincretismo – talvolta rinnegato o sterilmente nostalgico, ma sempre autentico e genuino. Solo così una traccia come “Paragon Belial” riesce a suonare incredibilmente minacciosa e graziata da quell’ineffabile sentore di rinnovamento pur nel suo essere uno dei brani più caratterizzati da quelle reminiscenze massicce e Autopsy della primissima incarnazione dei norvegesi, con i giri sulle corde più basse che non vibrano di quella solidità tipicamente Death, ma si sgretolano della stessa polverosa cenere di “Under The Sign Of The Black Mark” e strutturano la propria ossatura sul violento dinamismo ricercato con lo stesso esagerato impeto con cui Fenriz colpisce e rimarca ai tamburi ogni passaggio. E se un’altra traccia del passato che verrà via via rimossa è riscontrabile nell’utilizzo delle lead guitars talvolta grandi padrone della scena, quelle linee solitarie presenti anche nella formidabile title-track hanno nel 1992 ben più originali propositi, risuonando infatti come il primo spiraglio di quella vena occulta ed inspiegabile a parole che verrà sviluppata in modo più marcato e segnante nel “De Mysteriis Dom Sathanas”.
Lo stupore che inevitabile attanaglia e assale la prima volta che le parole farfugliate, estatiche, sospese nell’instabile limbo tra vita e morte di “Kathaarian Life Code” vengono investite da quella valanga ghiacciata e sfrigolante è una sliding door, un invito a scegliere se abbandonarsi a questa nuova e sinistra magia o rifuggire per sempre quel sentimento di terrore esorcizzandolo con una risata isterica. E se a dare una sensazione di tremenda novità basterebbe del resto proprio la prestazione invasata di Nocturno Culto, diametralmente opposta rispetto alle più contenute e fredde dimostrazioni del debut, la turbolenza con cui i suoni rimbalzano e la canzone si dipana in un brano come “Where Cold Winds Blow” plasma senza più ritorno la percezione stessa di un certo modo di comporre e ascoltare; forgia determinate associazioni di idee tra rumori, sensazioni, mondi e scenari che di lì a breve sarebbero diventati prima un canone e poi un’abitudine, ma che in quell’istante di per sé irripetibile vagano come lapilli infuocati a scottare e scandalizzare gli appassionati Metal di mezzo globo. E questa ibridazione nuovissima alla quale i tre membri affibbiano la perfetta etichetta di Unholy Black Metal prende vita pezzo per pezzo, passando non da ultimo per per quello che è uno dei più viscerali e leggendari mid-tempo degli anni ’90 e di sempre: quella “In The Shadow Of The Horns” che con il suo portamento trascinato e melmoso, con le sue progressioni cariche di groove è esempio lampante della poliedricità e del potenziale espressivo dei norvegesi e di un genere intero; che è presagio funesto di enorme parte di ciò che il Black Metal avrebbe potuto rappresentare per i trenta successivi anni e moltissimi altri ancora; fino a concludersi con i memorabili riff di “The Pagan Winter” e chiudersi a chiasmo con quel suono grave e rituale, terminando così come era iniziato, quasi come una suggestione, un lampo improvviso nel cuore dell’uomo forse frutto di mera illusione.

I Darkthrone sono una band in cui storicamente il processo di ideazione e formazione dell’uscita procede non in funzione di una visione altra, ma si dipana altresì spesso come fine ultimo, orientato più al raggiungimento di un ideale estetico e artistico che racchiuda nello stesso atto compositivo tutta l’essenza di quel qualcosa che solo loro, nel momento, afferrano con pienezza. Il fatto stesso che da sempre sia stata con forza negata la sensatezza di una trasposizione dei brani su di un palco palesa tuttavia come l’interesse sia rivolto all’azione musicale non come esperienza diretta ed empirica: ciò che conta non è veicolare un messaggio che possa essere trascinato in un’altra dimensione e in un altro momento, ma fotografare l’istante della registrazione come un vergineo qui ed ora; inscenare il più irrazionale e irreversibile degli gesti, restare interdetto di fronte ad una tela bianca per poi decidere di squarciarla rendendola inutilizzabile, irreplicabile e per sempre conservarla immutata e incorrotta, donando quindi suprema importanza e dignità all’attimo inciso sul supporto fisico.
Forse proprio per questa crociata teoretica alla volta di un’agognata semplicità svincolata da superflui orpelli contenutistici ha permesso agli autori di “A Blaze In The Northern Sky” di oltrepassare quell’impercettibile linea e di affacciarsi per primi oltre il concetto di influenza, orchestrando direttamente o meno le partiture di tutto un genere musicale. Laddove infatti nomi altrettanto importanti e con ogni probabilità ancor più geniali come Burzum, Satyricon ed Enslaved hanno creato sfaccettati microcosmi talvolta incredibilmente caratterizzati e peculiari da uscita ad uscita, i Darkthrone hanno fornito tutti loro un motore primo, uno strumento, un concetto, un impulso irresistibile: quella fiamma che tanto si ripresenta nel lessico dell’estremo e che tuttavia troppo raramente divampa rilucendo di una purezza istintiva così sconvolgente. Il secondo disco di quella che diventerà la band più odiata e al contempo più amata dagli abitanti del lato più nascosto e reietto del mondo usciva nel 1992 irradiando con la sua oscurità non solo i cieli del Nord, ma l’animo ribelle di chiunque fino a quel momento si fosse limitato ad annaspare smarrito e silente, alla ricerca di un linguaggio con cui esprimere spazi reconditi, intimi e innominabili del proprio essere.

Lorenzo “Kirves” Dotto

Precedente Darkthrone – “Soulside Journey” (1991) Successivo Burzum - "Burzum" (1992)