Dødheimsgard – “Supervillain Outcast” (2007)

Artist: Dødheimsgard
Title: Supervillain Outcast
Label: Moonfog Productions
Year: 2007
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Dushman
2. “Vendetta Assassin”
3. “The Snuff Dreams Are Made Of”
4. “Horrorizon”
5. “Foe X Foe”
6. “Secret Identity”
7. “The Vile Delinquents”
8. “Unaltered Beast”
9. “Apocalypticism”
10. “Chrome Balaclava”
11. “Ghostforce Soul Constrictor”
12. “All Is Not Self”
13. “Supervillain Serum”
14. “Cellar Door”
15. “21st Century Devil”

La più sconvolgente e intollerabile mostra delle atrocità prende forma fra le trame tanto complesse di una società, quella moderna, i cui più bassi e biechi bisogni naturali dipingono sempre più l’uomo come una larva viscida e dalla coscienza vuota, incapsulata in una cella rorida di liquame organico e torbido, cullata dal conforto di milioni di compagni brulicanti in altrettanti compartimenti soffocanti, totalmente privi di uno scopo individuale e personale. In un mondo tanto meccanicistico in cui i concetti di bene e male ormai non solo sono sfumati, ma quasi non sembrano avere alcun tipo di importanza di fronte alla grande macchina del progresso generalizzato ed oltranzista, la conseguente putrefazione capillare delle parti meno esposte e il logoramento graduale del singolo portano quella moltitudine di esseri riuniti in un piccolo spazio a fondersi nelle movenze imprevedibili di una bestia feroce alla disperata ricerca di cibo, intrattenimento e sussistenza.
Si insinua anche qui, in questo nuovo scenario, quel genio della perversione, quel potere diabolico che freme come scintilla autodistruttiva attraverso i secoli e che nell’indefinita antichità viene letta come quintessenza maligna dai tratti monumentali: austeri, persino nobili; quel potere che in altri lidi ed epoche assume le scintillanti pieghe della perfezione tecnica, di una macchina così asettica e impeccabile da assumere vita propria fino a completarsi nella rappresentazione di tetra e spietata arte satanica. Ma il diavolo della depravazione comunitaria protagonista di “Supervillain Outcast” si adatta con estrema facilità ad un contesto più reticolare, violento, putrescente, segretamente infetto, totalmente privo di trascendenza e frutto di un’immaginazione semplice e limitata, che si manifesta alla rinfusa in nervosi tratti grotteschi, ridicoli ma spaventosi, caricaturali ma raccapriccianti.

Il logo della band

Quell’irripetibile fenomeno artistico che è stato Moonfog Productions, in particolare nei due lustri che precedono il 2007, sta esalando i suoi ultimi respiri senza compromessi seguendo di pari passo quell’eccitazione globale tesa fra l’istrionismo stravagante dei ’90s e un infantile e -a conti fatti- ben poco motivato fermento per l’avvento di un nuovo millennio ancora visto come il simbolico trampolino di lancio per una nuova età dell’uomo sull’onda della scoperta tecnologica, che aveva già portato a dipingere con foga ed estro numerose visioni, talvolta fulminanti e geniali, eppure in generale protese ancora verso un ideale e mitico futuro. Ma una volta sopraggiunta la rassegnazione e accettato che un nuovo messia non si sarebbe palesato (fosse esso figlio di Dio, di Satana o della ragione), un’ondata di arrendevolezza sembra aver consumato in un lampo questa grandiosa esplosione di bizzarria: lo stesso Metal estremo sembra avviarsi spedito verso la definitiva digestione di tutto quello che il finire del XX Secolo porta via con sé, e anche i rivoltosi parti malati e scardinanti rigorosamente marchiati dalla Mannaz dell’etichetta di Sigurd Wongraven sembrano essere arrivati ad un punto morto: i Satyricon stessi si trovano ben oltre quel geniale “Rebel Extravaganza” relegato da tempo a splendente singolarità sperimentale, con l’arbiter elegantia dell’etichetta in declino già alle prese con “Now, Diabolical” nel roster di una Roadrunner Records dal respiro e dalla diffusione ben più ampie; i Thorns si sono già da qualche tempo eclissati, con la promessa non mantenuta di donare un seguito a quel capolavoro di nero cosmico che era stato il self-titled; i Darkthrone, persino loro spinti dall’eccitazione del momento verso un’inaspettata freschezza compositiva in “Plaguewielder”, rilasciano l’anno precedente al 2007 quel “The Cult Is Alive”, ennesimo punto di snodo che li fa tornare definitivamente nei più sicuri e remunerativi porti di Peaceville Records. A concludere, quantomeno virtualmente, un discorso che in verità non si chiuderà mai completamente e che si sarebbe invece ripresentato strisciante negli anni a venire fra le incisioni di una larga fetta delle giovani band dalle ambizioni più sperimentali, non poteva che essere la stessa manifestazione artistica che risponde al nome di Dødheimsgard, e che dai volteggi schizoidi e le soluzioni coraggiose del mini-album “Satanic Art” nel 1998 aveva dato inizio alla sua irreversibile metamorfosi e alla plasmazione estetica e tecnica di quel movimento ancora tanto circoscritto sul suolo norvegese; la formazione che, rivista non appena l’anno successivo, aveva portato avanti quelle intuizioni ponendo su un full-length cruciale come “666 International” le estreme conseguenze di quell’approccio tanto libero, fornendone un’immagine più evoluta e definitivamente epocale.
Ma per una band che nella seconda metà del primo decennio dei ’00 è ormai salda fra le mani di Vicotnik, per il quale lo spirito artistico del Black Metal è inteso nel modo più puro possibile in tutta la sua spinta controcorrente e destabilizzante, ciò che veramente conta non è la label con cui collaborare, né la distribuzione che questa sarà in grado di riservarle, bensì il completo raggiungimento e compimento della sua nuova visione: i ben otto anni che intercorrono fra l’uscita del terzo e del quarto opus del progetto non sono con evidenza retrospettiva il frutto di mancanza di ispirazione o di quella che sarebbe stata una comprensibile difficoltà nello staccarsi dal raggiungimento di uno stile già unico e perfettamente distinto, ma si legano a tragedie e inaspettati cambiamenti che portano ad inevitabili rallentamenti dopo le registrazioni avvenute nel 2003; gli stessi che, in qualche modo, vanno proprio ad assecondare ed indissolubilmente caratterizzare i tratti della nuova opera. Su tutte, ovviamente, il cruciale cambio dietro al microfono: con l’abbandono di Aldrahn, pezzo fondamentale del DHG-mosaico nonché membro fondatore, sostituito da Kvohst, l’allora cantante dei britannici Code (che con “Nouveau Gloaming” avevano già dimostrato un ideale di astratto in musica concettualmente in linea con quella di Yusaf Parvez, compare e bassista proprio sul disco). Ma anche l’ingresso di un membro tanto esperto in fatto di produzione e suoni come Thrawn Hellspawn (alle prese già con il mastering di “The Sham Mirrors” degli Arcturus, dello stesso debutto dei Code e in generale con la produzione di una quantità spropositata di uscite di quegli anni) non è affatto casuale e risulta essere un tassello fondamentale per il raggiungimento di un sound più complesso, urbano e corale, pieno zeppo di campionature, dall’apporto di voci e timbri elettronici dalla variegata e bizzarra natura; ingresso dal canto suo ancora più cruciale in vista della scrittura di un disco mai così decentrato nei confronti delle sei corde, fino a quel momento il privilegiato ed evidente cuore pulsante attorno al quale i filamenti esterni danzano, si annodano e si intersecano in pressoché tutti i (pur diversissimi) lavori del mastermind norvegese – si parli dei Dødheimsgard, dei Ved Buens Ende del 1995, o degli Strid prossimi a riformarsi ed includerlo nei ranghi.

La band

La rivoluzione portata avanti in “Supervillain Outcast” va infatti a scombussolare e reinterpretare le fondamenta su cui poggiava l’intera concezione precedente: se la componente elettronica era stata già nel 1999 una delle caratteristiche portanti, insieme a quel piglio estroso nello sfruttare ad uso e consumo gli strumenti canonici del Black Metal immergendoli in scenari dagli squadrati e schizoidi profili industriali, ciò che va a colpire il padiglione auricolare nel nuovo lavoro non può che stupire per le radicali differenze strutturali e soprattutto umorali. Le scariche elettrostatiche che sfrigolavano indomite nella violenza galvanica di pezzi come “Ion Storm” si fanno qui più discrete, svolazzanti, beffardamente svincolate e indipendenti da un immaginario snodo centrale; se già prima erano tutt’altro che uno strumento accessorio, benintesi, pezzi come “The Snuff Dreams Are Made Of” o “Unaltered Beast” snocciolano un oltremodo vastissimo campionario rumoristico psichedelico e pulsante, evocando delle più quadrate scene distorte ma ancor più annebbiate da dipendenze acri e degenerate, istantanee fuori fuoco di una sadica ultraviolenza immotivata in atto fra volute di fumo dallo stordente odore di nicotina.
La narrazione musicale frammentaria e folle, condotta con giustapposizioni ossimoriche di livelli discordanti e in grande contrasto tra loro, giocano continuamente con gli archetipi macchiettistici da graphic novel, con antinomie iper-semplificate che diventano emblemi di uno scenario urbano e sociale degenerato; ed è su un piano parallelo e strettamente dialogante che prende vita la stessa impalcatura strutturale dell’opera, non più incentrata su lunghe composizioni magmatiche e dall’imprevedibile piega, ma volta ad una diversificazione metodica del platter su più blocchi interconnessi. Le quindici seghettate tracce agiscono come le componenti complesse ma unidirezionali di un simbionte, le cui caratteristiche sembrano circoscrivibili se osservate una ad una, ma il cui fine si moltiplica fino a sfuggire quando si amplia la prospettiva: coesistono in questo modo pezzi dal bizzarro e squilibrato incedere riflessivo come “All Is Not Self” con le ritmate incursioni dal gusto Crust/Punk di “Foe X Foe”, grido corale di sommossa e sberleffo alla limitante gabbia umana costituita da carne e ossa.
Il piglio Hardcore con cui i pezzi dal breve e brevissimo minutaggio si susseguono porta ad una inevitabile scarnificazione comunque progressiva del riffing, più pungente e trascinante che in passato, improntato ad un’intepretazione stravagante e meno tombale del più tipico suono Industrial, in cui l’approccio dei Godflesh di “Songs Of Love And Hate” incontra le schitarrate dei Craft di “Terror Propaganda” e le ritmiche in rivolta di Minor Threat e Severed Head Of State. Ne risulta una miscela dallo spiccato groove, rimarcato dalle metriche sputate con foga dall’ugola di Kvohst, calato alla perfezione tanto nel ruolo di cantore del degrado post-apocalittico, quanto nella scrittura e nell’interpretazione di testi schizofrenici e folli, in (im)perfetta comunione con la quantità ingente di voci esterne, sussurri, apparizioni improvvise e soliloqui soffocati degli altri membri: non solo la comparsa in qualità di ospite di Aldrahn nel tentacolare e mozzafiato classico “Ghostforce Soul Constrictor”, ma le nenie sospese e aleggianti sparse qua e là per tutto il disco, o il compendio da manicomio di urla e grida presente in “Supervillain Serum”.
La fine del mondo verrà del resto quando della tragedia non solo rideremo come davanti ad uno spettacolo televisivo, ma quando ne vorremo sempre di più assaliti da un irrefrenabile appetito per il macabro e dal desiderio di sentirci parte di qualcosa di eccezionale: gli eccessi iperbolici di “Apocalypticism” giocano con fine ironia con il dramma della viscerale alienazione post-moderna di pellicole come “Tokyo Fist” e “Tetsuo” su una base che di contrasto si fa baldanzosa e colorata, in una tensione chiaroscurale resa tragicamente credibile da una produzione curata nel dettaglio e perfettamente in grado di evidenziare le mille sfaccettature del full-length. Turpitudine, violenza, incertezza, estasi, nausea; un batterismo, quello di Czral a cavallo fra la furia meccanica e la bestialità Punk più belluina; un basso che quasi privo di distorsione si invola in giri ipnotici evidenziati dalla miscela mescalinica: ogni elemento di “Supervillain Outcast” sembra spiccare sugli altri dotato di vita propria e lo fa grazie alla cura ingegneristica a più mani condotta principalmente da Henning Bortne e Vicotnik stesso, in una perizia sonora capace di rendere cacofonie anarchiche come “Vendetta Assassin” e “The Vile Delinquents” dei veri e propri capolavori a tutto tondo.

Lo stupore di chi nel 2007, quindi anni fa or sono, si ritrova ad ascoltare per la prima volta un disco dei Dødheimsgard formato da brani brevi, compatti e che su un primo livello interpretativo non sputano sugli schemi classici della forma canzone, lasciando spazio addirittura ad alcuni sparuti ritornelli, è del tutto giustificato e comprensibile: “Supervillain Outcast” è probabilmente ancora oggi, tre lustri più tardi, l’album contenente alcune delle composizioni più orecchiabili e coinvolgenti della loro intera e funambolica discografia – così come alcune delle più stranianti e difficili. L’intelligenza e l’arte dei norvegesi è tuttavia, e in entrambi i casi, qui forse fra le più complesse e trasversali da interpretare in profondità: la metropoli post-moderna cantata da degli anti-eroi come i Dødheimsgard, circo dell’assurdo e del grottesco in cui la Perla di Alfred Kubin si mischia alla più nera e corrotta Gotham, è composta da banali bassezze che cospirano pensando in grande, puntando alla fondazione di un cangiante e distopico inferno in Terra.
Un’uscita di questo calibro ha inevitabiilmente sofferto gli sguardi frettolosi di chi ci ha letto erroneamente gli ultimi vagiti di un’estetica artistica in declino senza vederci un’avanguardistico e rinnovato spirito, ammantato da quella spessa patina di irriverenza dai più travisata, male interpretata e in verità perfettamente calzante per una band che agiva con l’immutata coerenza che l’aveva già condotta alla composizione di “666 International”. Ma forse siamo ancora in tempo a cambiare le cose. E non solo perché questo quarto full-length è un passaggio fondamentale per il sodalizio fra Vicotnik e Kvohst, riuniti due anni più tardi in casa d’altri per confezionare anche quello stordente gioiello caleidoscopico che è “Resplendent Grotesque”, ma in quanto andrà a segnarne profondamente e senza ritorno le rispettive ed individuali carriere: il primo per la scrittura, nel 2015, del labirintico e magistrale “A Umbra Omega”, tanto dissimile quanto indissolubilmente legato al precedente album (alcuni dei riff usati per il successivo disco sono persino ascoltabili nei chiacchierati rehearsal pre-studio del 2003); il cantautore britannico, invece, per una prova canora e lirica così brillante e riuscita che andrà a contaminare ed influenzare le sue future vicissitudini negli scenari Post-Punk dei Beastmilk e poi dei Grave Pleasures.
Certo, la vaga e confusa impronta che lascia nel panorama estremo esterno agli artisti che vi si avvicendarono è forse ulteriormente imputabile al raggiungimento di una formula così sui generis da essere difficilmente reinterpretabile se non come concettuale lanternino d’ispirazione; ma “Supervillain Outcast” è anche per questo motivo un’opera unica, poliedrica, geniale, perfettamente riconoscibile e caratterizzata, in grado di donare una forma tangibile a quel sentimento sempre attuale di estraniazione e fastidio di fronte alla propaganda martellante e sterile – all’imbarazzato timore di provare un piacere perverso e vietato, all’irrefrenabile disgusto innestato dalla mercificazione stringente del divertimento a tutti i costi. In poche e non troppo altre parole, di rappresentare per contrasto tutta l’inadeguatezza del sentirsi naufrago su un’isola di cemento.

Lorenzo “Kirves” Dotto

Precedente Goatmoon - "Finnish Steel Storm" (2007) Successivo Inquisition - "Nefarious Dismal Orations" (2007)