Burzum – “Filosofem” (1996)

Artist: Burzum
Title: Filosofem
Label: Misanthropy Records
Year: 1996
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Dunkelheit”
2. “Jesus’ Tod”
3. “Erblicket Die Töchter Des Firmaments”
4. “Gebrechlichkeit (Part I)”
5. “Rundgang Um Die Transzendentale Säule Der Singularität”
6. “Gebrechlichkeit (Part II)”

Si contano sulle dita di una sola mano gli artisti che possono vantare di essere arrivati primi in qualcosa di cruciale, nel mondo della musica come altrove. Varg Vikernes, nato Kristian – un nome che, a distanza di tre decenni passati dacché il mondo ne conobbe il perverso potenziale fluttuante tra distruzione e creazione, continua a non riuscire a lasciare possibile indifferenza al seguito della sua lettura, è uno di questi. “Filosofem”, la cui portata rivoluzionaria è sicura e conseguentemente udita fin dalla sua uscita il primo giorno del 1996, è a sua volta uno di quei lavori di ancor più rara natura che permette al padre creatore che lo idea, quello che un po’ chioccia lo coccola artisticamente ed infine partorisce consegnandolo vulnerabile alle mani fredde e spaventose del mondo, di essere annoverato tra coloro che hanno lasciato un segno indelebile ed irrimediabile di sé al di là dell’eterno.

Il logo della band

A gennaio del 1996 Grishnackh diventa ufficialmente Varg e ogni cosa cambia per la terza volta di fila, ma con ogni probabilità per la più pesante ed irreversibile di tutte. Sospinto da un fato propizio in circostanze pratiche, mondane e terrene che di positivo non hanno assolutamente nulla, il quarto full-length a nome Burzum dell’ormai ex-Conte, le cui registrazioni finiscono al più tardi nel marzo del 1993 (senza che ancora sia avvenuta la pubblicazione né di “Det Som Engang Var”, né del precedente “Hvis Lyset Tar Oss” poi nell’aprile del 1994) è quello che dona ad una carriera creativa, ad un compositore, ad una vita intera forse, un nuovo significato all’improvviso; un’anti-tesi, un filosofema, una proposizione filosofica di una verità del resto tale fin dal tronfio titolo – uno di quelli per cui il troppo ricorrente termine di game-changer risulta stucchevole, inafferrante l’essenza più autentica, impotente e perfino estremamente riduttivo in luce di quel che “Filosofem” fa di (nonché per) una manciata di generi e stili di un sottogenere Metal come fossero polvere. Dacché sebbene la spinta che ognuna delle singole, effettive cinque composizioni per le declinazioni ora più atmosferiche, poi più depressive, o ancora più ipnotiche, così come per quelle più incorporee tanto quanto per quelle più strazianti, storte ed emotive, sia a distanza di venticinque anni evidente oltremodo all’ascolto di una progenie orgogliosamente indesiderata, la struttura del lavoro nel suo complesso fa sibillina eccezione ad un discorso originariamente proposto mentre tutt’intorno imperversano (e ne rallentano la pubblicazione di due anni, banalmente) i processi in tribunale, la morte, le fiamme, l’opportunismo becero, il vortice analogico di negatività e silenzio letale, di misantropia e di oscurità prima che Burznazg divenisse Cymophane, occhio e luce che indica il cammino con chiarezza.

Varg Vikernes

In estrema rivolta al Black Metal norvegese che, a braccetto con quello svedese, è a cavallo del 1993 e del 1994 già in procinto di correre verso i suoi estremi di violenza e velocità in una manciata di anni, l’antitetico “Filosofem” (con la sola, illustrissima eccezione del suo travolgente manifesto anti-manifesto – se mai ve ne fu uno da trovare in “Jesus’ Tod”) fa proprio il carico rivoluzionario e più sperimentale in fatto di manipolazione sonora di metà anni 90’ con il sodale Pytten, che qui sceglie in comunione con l’esegeta Vikernes la natura norvegese sospesa in vita e morte tra terra, acqua ed aria come cattedrale pagana del Diavolo e della controversa discordia tra gli esseri umani; e lo fa quasi mezzo lustro prima delle avanguardie che avrebbero poi iniziato a fare i conti con le evoluzioni parzialmente esterne al genere più nero di tutti solo una volta passato il 1995, esasperando dal canto suo la gelida lentezza e l’ipnoticità più lancinante, inasprendo oltremodo gli scabri stilemi produttivi e di suono tra strumenti che si riverberano fuori dal concepibile e latrati così distorti da diventare inumani. “Filosofem”, nella sua ideazione e stesura tra il 1992 ed il 1993, guarda al passato storico e mentale per trovare un’identità unica, nuova, irripetibile ed irripetuta: rinnova lo sguardo al nazionalromanticismo di Kittelsen ma dal monocromo (recuperato, non casualmente, solo per quella “Decrepitude” che in due parti speculari fornisce cornice pulsante al cuore strutturale e di più palese Ambient del disco) alla colorazione tenue, magicamente desaturata e boschiva con cui questa volta il tuttopensare non lustrerà solamente l’iconico artwork di copertina ed il suo retro, ma -concettualmente ben prima e ben oltre gli intenti similari in sensibilità di Storm, Isengard, Satyricon, di Fenriz e di Wongraven, nonché degli scavi filologici e criptici degli Enslaved– con cui costruirà per la prima volta un vero percorso visivo intrecciato alla musica per l’ascoltatore che diviene, così, lettore partecipe ed osservatore. La scelta incredibilmente apripista nel suo genere di proporre l’album nel formato inedito di un libro in una delle sue due prime stampe gemelle, corredato dalle spiegazioni fiabesche dell’autore, è quella grazie a cui le foreste notturne di Burzum, di “Dunkelheit”, vengono esplorate col passo pesante ed alienante, spirituale e trascendentale di creature mitiche, che lega ogni capitolo fino al secondo atto strumentale conclusivo di “Gebrechlichkeit” nella volontà strenua, ma proprio per questo conscia e ne consegue più dimessa (rassegnata e modesta proprio nella sua diversa, singolare superbia sprezzante dell’uno contro tutti), di celebrare semplicità vitale e passato intellettuale (esplicita forse già nell’ormai celebre volontà -successivamente sbattezzata- di creare le copie del lavoro in versioni con le arcinote traduzioni tedesche a favore della comprensione ed esplorazione concettuale attiva da parte di persone provviste di un bagaglio e retaggio culturale comune, o quantomeno similare, per nazionalità geografica continentale), nello spirito solitario e vuoto di “Tohmet” che si reincarna e riempie senza materia nella perlustrazione di “Rundgang Um Die Transzendentale Säule Der Singularität”: la spiegazione finale ed evidente di scuola Klaus Schulze in quel che (forzatamente?) verrà, l’inchino a “Moondawn” del 1976 nella ripetizione a busta di “Floating” e di quell’imprescindibilmente gelido sequencer che, risucchiando l’anima, passando immortale tramite “Hvis Lyset Tar Oss” e “Filosofem”, finisce per essere marchio di un intero linguaggio nero – di un fenomeno di disco la cui struttura di coerenti chiaroscuri, se non altro, necessitava ancora di tantissimi ascolti (per non dire anni) affinché il suo splendido enigma venisse decifrato e finalmente compreso appieno.

“Filosofem”, oppositore di album in cui povertà diviene ricchezza, è materialmente l’ultimo tassello cronologico composto prima dell’incarcerazione, e non solo la quarta volta in cui qualcosa nel Black Metal cambiò per sempre, ma più versosimilmente e superlativamente il manifesto quarto ed ultimo di un artista controverso quanto colto e visionario a cui letteralmente chiunque abbia ascoltato, suonato, vissuto e plasmato questo genere di musica ha dovuto e deve rendere qualcosa; riassunto, al contempo espanso verso l’infinità e distillato per sempre, in uno dei dischi meritatamente più leggendari di tutti i tempi. Perché come inizia “Dunkelheit” non inizia davvero nulla al mondo, se non “Hvis Lyset Tar Oss” – perché questa è la coppia di album che, in nomen omen, più e prima di qualunque altra ha avvolto l’universo intero d’oscurità impenetrabile da abbracciare per uscirne meravigliati e fondamentalmente migliori.

Matteo “Theo” Damiani

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