Agosto 2023 – Urfaust

 

Forse un pochetto scontato, a voler essere brutalmente onesti nel dare una rapida scorsa al calendario delle uscite lungo la sua sezione del terminato agosto: gli Urfaust, per di più con un disco conclusivo con cui annunciano formalmente lo scioglimento del gruppo dopo vent’anni di esplorazione abissale, l’hanno fatta da padroni, da maestri cerimonieri del vuoto e da oltretombali guide assolute per il godimento di una mensilità di fine estate 2023 che, ad ogni modo, si è rivelata sorprendentemente soddisfacente anche per merito delle altre tre sorprese che lo seguono (la seconda delle quali, peraltro, con un’altra non esattamente usuale standing ovation altrettanto riservatagli dallo staff) e che hanno rimescolato in più d’un tratto le carte in tavola rispetto alle nostre iniziali previsioni di ciò che vi avremmo proposto nel riepilogo mensile.
Partiamo dunque da quello che, insieme al già da qualche tempo adorato “Sól Án Varma”, resterà con ogni somma probabilità il disco dell’anno, quest’anno, in casa Ván Records: “Untergang” è l’ultimo sguardo forse un po’ amaro ma senz’altro profondo e affilato dall’ultrannebbiamento percettivo ad una vita spesa, non si capisce ancora se tremendamente bene o drammaticamente male. Mentre riprendiamo dunque il nostro, lungo l’annata in corso, omaggiamo nel giusto modo la fine di un altro viaggio che, a scanso di equivoci e a non voler ingiustamente lesinare sui complimenti, è stato semplicemente eccezionale.

 

 

“Untergang” è l’ultima discesa senza risalita: l’impossibilità di riemergere a respirare dopo aver per vent’anni respirato le mefitiche conseguenze dell’intossicazione dentro e fuori; il risultato ultimo della sperimentazione folle e davvero faustiana che ha portato i due di Asten laddove presumibilmente nessun altro avrebbe avuto mai il coraggio di addentrarsi. A spasso tra le ombre del sé e le luci ingannevoli dell’ego, recuperando il carattere a metà strada tra le supreme vette verso il basso di “Empty Space Meditation” e “Der Freiwillige Bettler”, con giusto un occhio agli avvolgimenti psichedelici di “The Constellatory Practice” e “Teufelsgeist” senza suonare quale un mero conguaglio ma una risultante di personalità propria, una nuova firma dalla calligrafia familiare, per quaranta minuti che scorrono distillati come alcol nelle vene e nello spirito – lasciando sorridenti e storditi mentre si posa malfermi il calice buono, ma in grado di reggere tutto il peso della fine.”

Tanto più in alto si è saliti nel rarefatto etere cosmico, quanto più raccapricciante e sconcertante sarà il volo in picchiata per l’ultima e definitiva catabasi: in “Untergang” si affonda per non riemergere e la connessione fra gli artisti e la loro manifestazione, ormai fattasi figura acherontica e beffarda con cui loro stessi discorrono e brindano, si conclude ad un viscerale e naturale apice. L’impalpabilità psichica e lisergica degli ultimi anni diventa parte del flusso: “Untergang” non è rappresentazione di un’esperienza bensì di un viaggio decennale, non può tornare ciecamente alla solidità droning e spettrale di un “Der Freiwillige Bettler” ma non sente nemmeno la necessità di scompaginare tutto un’altra volta con i mille microcosmi vorticanti di “Empty Space Meditation”. E al contempo si configura come tutto fuorché un compendio di commiato: gli incastri, le scelte e le idee brillanti che si nascondono nella bruma dell’ultimo atto del duo neerlandese vivono della semplicità oltraggiosa e sfacciata di chi sa quali corde sfiorare per evocare i più suggestivi e temibili diavoli; di una lucidità allucinata frutto di esperienza e devozione; di quella personalità così marcata e grottescamente imprevedibile che li ha giustamente resi fra i più adorati ed inconfondibili fin dalla loro fondazione.”

Il disco finale di uno degli act più singolari ed esteticamente affascinanti di questi ultimi vent’anni è la degna conclusione di una ormai lunga carriera grazie ad una perfetta coesione tra tutte le sfaccettature che rendono la band dai Paesi Bassi una delle più interessanti in circolazione. Nonostante in passato non abbia personalmente sempre compreso appieno la componente strettamente musicale degli Urfaust, nel precedente “Teufelsgeist” e nel qui presente “Untergang” il duo riesce a produrre una coppia di dischi che riesce a farmi immedesimare completamente nello stupendo immaginario che da sempre li contraddistingue. Complice anche il progetto e la distillazione di un gin dal sapore fortemente erbaceo da loro stessi rilasciato, in quest’ultimo lavoro ho distintamente trovato ancora più concretezza e organicità all’interno delle ambientazioni: l’aspetto ritualistico è più impattante che mai e i chiari riferimenti allo Stoner e allo Sludge mantengono l’aspetto atmosferico costantemente velenoso e malsano. L’unica pecca che si può riscontrare, discrezionalmente, è che si tratta di musica come sempre molto situazionale – bisogna saper riconoscere quando si è nel mood giusto per approcciarla. Per il resto, l’unicità e l’impatto degli Urfaust sono e rimarranno fuori da ogni discussione.”

“Il bicchiere della staffa è sempre duro da mandare giù, un po’ per tutti quelli svuotati in precedenza ed un po’ per la magra prospettiva di ritrovarsi il giorno dopo in preda ai postumi e col portafoglio alquanto alleggerito. Maestri assoluti da vent’anni esatti a questa parte nel riversare in musica l’etilica rassegnazione dell’uomo di fronte all’assurdità dell’esistenza, gli Urfaust offrono un ultimo giro a base del loro personale cocktail di batteria granitica, riverberi talmente densi da poterci quasi nuotare dentro, e voce come al solito catturata a metà strada tra diversi stadi della percezione sensoriale: questo sanno fare IX e VRDRBR, e questo è ciò che un “Untergang”, lavoro di commiato il cui sapore amarognolo dato dai pochi sprazzi melodici ha precluso ogni forma di hype -dando almeno stavolta una parvenza di senso alla risibile policy tutta mistero di Ván Records-, intende mettere sul tavolo. Chi nell’arco di due decenni ha saputo apprezzare l’unicità assoluta di una simile creatura si goda dunque l’ultima fetida alitata del diavolo emessa dalle casse; per il resto degli opinionisti in nero c’è sempre internet dove parlare a vanvera di ‘comfort zone’ e fare la figura dei babbei.”

Il debutto su full-length di quei bricconi di nome Der Tod Und Die Landsknechte che tenevamo d’occhio fin dall’EP “Söhne Des Teufels” del 2019. “Allzeit Bereit” dell’anno successivo non fu affatto da meno in termini di meritata attenzione, e “Wir Fürchten Weder Tod Noch Teufel” completa il quadro servendo una abbondante porzione di Black Metal teutonico al suo meglio. Per tutti quelli che, nel profondo, hanno sempre sentito che agli Absurd mancava un qualcosa…

Figlio della teutonicità assortita dei migliori Absurd di “Blutgericht” (del resto, ci canta pur sempre Wolf), degli storici Heldentum e dell’esplosività virulenta dei Graupel di “Am Pranger…” che incontrano i Sigrblot, gli ultimi Kampfar, il folklore RAC dei Goatmoon, la finnica pacca gretta dei Satanic Warmaster e persino le atmosfere di Morricone con enorme soluzione di continuità, “Wir Fürchten Weder Tod Noch Teufel” tiene precisa ed immancabile fede al suo ambizioso ma programmatico titolo: smaliziato, quadrato, schiacciasassi, e nondimeno variegato, godibilissimo, mortifero come a tratti persino deliziosamente cafone. Con lunghe picche e crudeltà germanica: occhio ai lanzichenecchi! Perché qui non si teme morte né Diavolo...”

Le promesse marchiate col sangue dei Der Tod Und Die Landsknechte racchiuse negli EP rilasciati dal 2019 allo scorso anno trovano il loro insperato compimento in un debutto che è un vero e proprio cazzotto vibrato con la pesantezza di un guanto di maglia. In “Wir Fürchten Weder Tod Noch Teufel” c’è tutto ciò che un certo tipo di Germania cerca di veicolare da diversi anni senza riuscire ad affondare fino in fondo il colpo: chitarre muscolari e detonanti che condiscono il riffing di una paganità teutonica consapevole e fierissima, tra cori e rincorse che s’intrecciano ad un folklore serpeggiante e alle rasoiate perfettamente orchestrate dalle scompostezze vocali di Wolf. Se il primo impatto è da capogiro, il debutto dei tedeschi, per quanto squadrato e lanciato come un missile, possiede nei suoi dieci pezzi una varietà melodica tutt’altro che trascurabile o comune: scongiurando gli scivoloni di un contesto che fin troppo spesso predilige la quantità alla qualità, il duo sfoggia tutte le carte in regola per proiettarsi fra le nuove band più amate (ed odiate?) provenienti dal suolo germanico.”

Dopo una serie convincente di EP i Der Tod Und Die Landsknechte tagliano il traguardo del primo disco ufficiale riportando in auge un Black Metal a tinte pagano-folkloristiche che mancava da un po’ troppo tempo. Le tracce sono dirette ed immediate e si appoggiano ad un comparto strumentale e vocale (Wolf è un’assoluta macchina da guerra) perennemente in modalità offensiva. La costante aggressività che contraddistingue “Wir Fürchten Weder Tod Noch Teufel” è tuttavia sempre molto ben bilanciata dalle melodie, intelligentemente integrate all’interno delle composizioni e partenza stessa delle canzoni, come dai vari richiami folkloristici che sbucano qua e là e che rendono il disco incredibilmente vario e scorrevole nonostante il suo essere quadrato, frontale e a tratti schematico. Ma con sorprese…”

“Mentre il fratellone è tutto preso a giocarsi gli ultimi rimasugli di credibilità in battibecchi virtuali da gangster del baretto sotto casa, il buon (si fa per dire) Ronald Möbus riscuote gli interessi maturati sui già notevoli EP di presentazione del suo nuovo progetto, tirando fuori una prima prova estesa devastante, spudoratamente easy-listening ed anthemica senza che tale enfasi vada a ledere la serietà della proposta come a volte poteva avvenire negli Absurd. Uscire scontentati e soprattutto indenni da “Wir Fürchten Weder Tod Noch Teufel” significa in tutta onestà non avere alcun buongusto o anche solo predisposizione per questa musica: ci sono i soliti lead chitarristici da brivido puro, le vocals tedeschissime con cori puliti capaci di esaltare un sordomuto, un epico quanto inaspettato finale morriconiano da commozione, ed in generale la voglia di divertirsi sputando tutti insieme in faccia alla morte, al Diavolo ed alle avversità di un mondo nel quale, a prescindere dalle ideologie in cui è possibile riconoscersi, siamo tutti in guerra col destino mediocre della vita moderna – Scheiss an den Galgen!”

Una copertina mozzafiato, provenienza insolita per tali coordinate estetiche, un nome mai sentito prima a cui ricondurre zero presenza online: mix letale per scatenare curiosità nello staff per i Windfall, band argentina attiva fin dal 1994 (con pregevole demo del 1995) che giunge al traguardo del secondo full, “The Burning Microcosm”, oggi per Sons Of Hell Productions a distanza di una manciata di anni dallo “Spiritual Famine” parimenti consigliato per un recupero.

Ottima sorpresa l’operato dei Windfall: sottilmente atmosferici in una cornice di grettezza sonora tutto tranne che eccessivamente sofisticata, vi è tuttavia un certo gusto ermetico in “The Burning Microcosm” che permette di continuare a tornarvi sopra, attratti e nuovamente incuriositi ascolto dopo ascolto nonostante la indiscutibile linearità e per certi versi anche frontalità delle soluzioni scelte. Che sia la raffinata fluidità atmosferica dell’opener “The Howling Of The Mad God”, la grande naturalezza del complesso in esempi d’eccellenza misterica come la title-track e “Swords Shall Bring Peace”, oppure delle mutazioni di una “Footprints Of A Forgotten Deity”, tutto il potenziale arcano ed enigmatico che sprigionano le composizioni è forte dalla prima all’ultima nota di trentasei minuti che non pesano nemmeno per un secondo, scorrendo liquidi senza passi falsi né cali e regalando immagini da un’altra età, da un altro tempo: non meglio specificati, eppure nitidissimi come se li avessimo di fronte – rischiarati per i nostri occhu prima che le nostre orecchie gioiscano del trionfale botto di un tuono.”

“Non gli ennesimi cloni infatuati degli Alcest come potrebbe lasciare intendere la quasi monocromatica copertina, né un’altra banda di scappati di casa fissati con caproni e maschere antigas come vorrebbe il passaporto latinoamericano: “The Burning Microcosm” non soltanto fa sfoggio di una musicianship formalmente inappuntabile in fatto di esecuzione e produzione, ma brilla pure grazie ad un inconsueto abbinamento fra le classiche partiture blackish scandinave e tocchi di esplicita ispirazione alla scuola greca, tra cui il saltuario ricorso a calde voci baritonali udite in lontananza, qualche bel riff thrasheggiante piantato sulla sesta corda e morbidi, eterei sintetizzatori a farvi da sfondo. Ibernatisi a fine anni Novanta e riattivati da poco più di un lustro, i Windfall dalla ridente Buenos Aires dimostrano pertanto dell’ottimo gusto per melodie e rallentamenti, oltre ad una varietà ritmica che fa scorrere liscissimi i già nemmeno quaranta minuti di durata; coloro ai quali è capitato di chiedersi come suonerebbe un ipotetico incrocio tra Satyricon di “The shadowthrone” e Rotting Christ di “Non Serviam”, o magari sono solamente estimatori di entrambe le leggendarie formazioni, possono allora considerarsi esauditi.”

Nomina singola infine per gli australiani Runespell, cavallo di punta Iron Bonehead per quanto riguarda le sue proposte meno caotiche. “Shores Of Náströnd” è una discreta novità per il reinventatosi trio, nato nel 2017 ma già scrutatore dell’alba del suo quinto disco completo in studio: una certa epicità inedita corrobora un nuovo approccio alla composizione senz’altro più maturo e affilato al contempo rispetto al passato. O, nell’esaustive parole di Ordog

“Il passaggio da one-man band a line-up fatta e finita, con peraltro il teutonico Irrwycht di militanza Grabunhold (e Baxaxaxa) ad occuparsi delle tastiere, deve aver fatto parecchio bene ai Runespell dato che, seppur con qualche lecito giro a vuoto o reiterazione eccessiva, questo “Shores Of Náströnd” porta ad ultimo compimento il disegno compositivo del padre-padrone Nightwolf coniugando in modo niente affatto forzoso la coriacea materia bathoriana alle tendenze atmosferiche (per non voler scomodare financo il cosiddetto Blackgaze) per le quali l’Australia è dal nuovo millennio e senza alcun dubbio terreno fertile, e finendo col piazzare per intenderci le coordinate del progetto negli angoli più neri e spogli della produzione dei Woods Of Desolation, irrobustiti in certi frangenti dell’adrenalina dei Thyrfing. Il curioso mash-up di influenze a prima vista abbastanza inconciliabili ripaga tuttavia sia il mastermind con quello che senza troppa fatica si erge quale attuale apice della sua discografia, sia i supporter con un album perfetto per mettersi comodi e veder morire l’estate.”

In chiusura, per quella che pare ormai divenuta una involontaria ricorrenza, la proposta e risposta ‘low gain’ del mese: ovverosia gli ormai su queste pagine arcinoti Rome che ogni tot torniamo a proporvi e che ci regalano in agosto il sentito nuovo album “Gates Of Europe”, disco di maturissimo e canzonatissimo Neo-Folk dal cuore ucraino in cui Jérôme Reuter filtra ogni pensiero ed emozione provata lungo il corso degli ultimi anni di notizie ed esperienze belliche interne all’anima dell’Europa. Chi sembrava ce l’avrebbe fatta e invece è rimasto escluso, nonostante sia in diretta concorrenza (in mancanza di un termine migliore…) con il resto del Black Metal consigliatovi in questo articolo, sono gli An Autumn For Crippled Children di “Closure” (Prosthetic Records); pregevole ritorno alle sonorità un po’ più cupe che li avevano fatti apprezzare con i primi dischi per A Sad Sadness Song (sotto il ventaglio Aeternitas Tenebrarum) tra il 2010 ed il 2013, in piena epopea Blackgaze, che non mancherà quindi di fare la felicità di coloro i quali, da qualche anno a questa parte, faticano a trovare prodotti convincenti in questo stile che ormai, per come l’avevamo conosciuto al suo apice, pare parzialmente caduto in rovina mediatica.
Ma non serve in fondo caricarvi di altro materiale da ascoltare, questa volta: Marduk, Taake (con i loro nuovi, e senza misteri già in rotazione, rispettivi “Memento Mori” e “Et Hav Av Avstand”), i Fluisteraars con il secondo capitolo degli estemporanei EP “De Kronieken Van Het Verdwenen Kasteel”, i nostrani Mystical Fullmoon con un nuovo full a sorpresa e, in arrivo, un ben-di-divinità da far spavento. Chi sa, già sa – gli altri, sapranno. Ma una cosa è ad ogni modo certa: stilare questo articolo nella sua versione settembrina non sarà affatto semplice…

 

Matteo “Theo” Damiani

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