Sól Án Varma – “Sól Án Varma” (2023)

Artist: Sól Án Varma
Title: Sól Án Varma
Label: Ván Records
Year: 2023
Genre: Avantgarde Black Metal
Country: Islanda

Tracklist:
1. “Afbrigði I”
2. “Afbrigði II”
3. “Afbrigði III”
4. “Afbrigði IV”
5. “Afbrigði V”
6. “Afbrigði VI”
7. “Afbrigði VII”
8. “Afbrigði VIII”
9. “Afbrigði IX”
10. “Afbrigði X”
11. “Afbrigði XI”
12. “Afbrigði XII”

Í þeim eiginlega og efnislega heimi sem við túlkum sem raunveruleikann, er nú runnin upp sú stund sem við spáðum fyrir um og höfum beðið eftir með hinum mesta óhug og hryllingi.

Vi è una sorta di comprensibile scetticismo al limite del fatalismo dal flair nordico e, più spesso che no, anche di giustificata diffidenza nei confronti delle operazioni di commissione artistica nel mondo della musica. Che si tratti infatti di una canzone celebrativa senza particolare spontaneità, o peggio di un intero disco quando non persino di un pacchetto di lavori anticipatamente venduti ad un’etichetta ancor prima che un solo secondo di musica o un brandello di concept lirico sia stato vagamente delineato nelle menti dei suoi creatori, oppure di un progetto di presumibilmente inaccurato completismo -filologico o nostalgico?- da parte di vecchie maestà poco inclini a lasciar andare il loro passato laddove meriterebbe di riposare in gloria, o magari di una collaborazione di menti e soggetti affini per uno spettacolo che serva a stuzzicare ed intrattenere il pubblico di paganti curiosi nella cornice di un grande e prestigioso palco su cui si sta svolgendo un rinomato festival – al variare della natura, poco sembra in fondo tangere la regola generale: senza quella genuinità, quella naturalezza che si concede davvero solo a chi sente una qualche urgenza di esprimere un qualcosa che è già dentro, non in una sibillina e sospetta potenza bensì pronto ad eruttare -al più- in cerca di un mero canale veicolare per farlo, una creazione (che si ricorda essere artistica) finisce sempre per apparire, suonare, e lasciarsi sentire come fondamentalmente vuota: priva di merito, senza calore, priva di anima e nerbo come un sole senza luce.

Il logo della band

Gli esempi si sprecano, ovviamente, ma a sostegno di una tesi portata avanti al solo fine di far emergere con schietta chiarezza quello che, al contrario, è un campione virtuoso all’interno di una tale anomalia creativa, si cercherà dunque di tratteggiare ognuna delle macrocategorie poc’anzi evidenziate nel tramite -lo vogliano perdonare- di altrettanti altrimenti grandi e anche grandissimi nomi nell’ambiente musicale che qui ci compete: non sembra fare differenza infatti che siano campioni come i Voivod a rimboccarsi le maniche per scrivere a tavolino l’inno di un ascendente festival polacco, o gli Ásmegin che muoiono spiritualmente dopo l’eccelso “Hin Vordende Sod Og Sø” per colpa di un multi-album-deal troppo lungo persino nelle intenzioni con la futura major austriaca; o ancora i Triptykon in uno dei loro deliri di confusione celticfrostiana a rappezzare i buchi all’interno dell’oggi a conti fatti ancora incompleto “Requiem”, sospeso tra il 1987 di “Into The Pandemonium” ed il 2006 di “Monotheist”, con l’allibente buco nell’acqua della pomposissima e a dir poco pretenziosa esibizione catturata su disco in seguito alla (sicuramente lodante) proposta del Roadburn di completare qualcosa di forse non casualmente incompleto in sua esclusiva. In ognuno dei casi, l’arte tanto sbandierata pare risiedere decisamente altrove.
Nel confronto insomma con collaborazioni nate invece spontanee e senza doppi fini a cui s’invita il lettore/ascoltatore (a titolo d’esempio: Downfall Of Nur e Selvans nel 2016, piuttosto che “Miserere Luminis” nato nel precoce 2009 dall’incontro di Gris e Sombres Forêts), si vuole sottolineare tutto ciò in quanto smascherati e proverbiali avvocati del diavolo: le opere di tutti i nomi appena citati, non uno escluso, sono alcune tra le spesso preferite in assoluto di chi scrive queste righe introduttive; non casualmente scelti proprio in quanto apparente dimostrazione della falla nell’ormai noto processo di commissione cosiddetta artistica persino all’interno di una frangia musicale tanto periferica ed estrema nella più grande costellazione della musica dura. Proprio tutta questa osservazione rende ancor più unica una manifestazione quale Sól Án Varma: sedicente sole senza calore irradiato dal suo fetido nucleo ingoiato dalle sanguinose fauci del terribile lupo Vánagandr, in quella che originariamente è un’esibizione collaborativa commissionata dal medesimo festival di Tilburg nei Paesi Bassi e che si trasforma nondimeno in una vera e propria anomalia nella sistemologia del discorso.

La band

Non una prima volta, tuttavia, e non per caso: l’Úlfsmessa, commissionata come collaborazione estemporanea di Misþyrming, Naðra e Grafir avvolti dalle sensazioni dei Nyiþ nell’edizione 2016 della kermesse olandese, aveva presentato al mondo non solo l’operato degli autori di “Allir Vegir Til Glötunar” ma persino un’anticipazione di quasi due anni precedente l’uscita del poi due volte ri-registrato “Algleymi”. Nato quindi da scambi d’idee e collaborazioni evidentemente anteriori quantomeno alla seconda proposta targata Roadburn, quella del 2018, di esibirsi sullo stesso palco con settanta minuti di musica esclusiva e collaborativa da parte dei membri dei Misþyrming al completo (con le solite ineludibili sovrapposizioni umane in Naðra e Núll), questa volta raggiunti dai ceffi di Árstíðir Lífsins (dei quali partecipa come chitarrista e corista l’altrimenti batterista e violoncellista Árni Bergur Zoëga), Svartidauði, Drottinn (Sturla Viðar senza basso, e Magnús Skúlason alle sue solite pelli apocalittiche) e Wormlust (Hafsteinn Viðar Lyngdal), quel che straborda come bile da un monolitico, ambiziosissimo e stordente concentrato di soluzioni dall’anima comune eppure così differente nelle sue enormi sfaccettature suona come una implosione: l’apocalisse in dodici capitoli e la meritata fine dei tempi secondo il vangelo scritto da un panorama fin dai suoi primi vagiti dedito proprio alla costante ricerca -volontaria o meno che sia- della fin du monde in musica.
Definire implosione a frammenti un risultato simile, accuratamente riarrangiato, registrato e prodotto in previsione dell’eternità dalla sapiente ingegneria sonora ampissima di Jaime Gomez Arellano nei suoi Orgone Studios, non è un caso a sua volta: ognuna della sua dozzina di afbrigði -variazioni di significato s’un tema unico, appunto- molto più che essere la manifestazione singolare di uno dei caratteri forti dei progetti coinvolti, è un sole nero che atroce risucchia al posto di irradiare; che potentissimo assorbe ogni possibilità delle band in questione restituendo qualcosa d’infinitamente più grande e fondamentalmente diverso di una mera somma delle parti. Così facendo, lunghissime, struggenti melodie che sono scrigni di una inesorabilità epica in chiusura di “Afbrigði II”, irripetibilmente Doom e tanto “Entity” quanto nient’altro nell’intero panorama islandese, si caricano ad esempio nel capitolo terzo dell’odore degli incubi più malsani conservati tra le spore di “Flesh Cathedral” (dall’inedita, asfissiante pesantezza nella prima traccia) ma stritolati nelle spettrali spire di “The Feral Wisdom”, insieme all’intossicata sperimentalità elettroacustica degli Urfaust. Perché vi è del resto, di fondo, un acherontismo tipico degli umori dell’arte marchiata Ván Records: anche nei ritrovabili slanci dei Misþyrming più quadrati e catchy (che oggi, con cinque anni di senno di poi, ricondurremmo con facilità a “Ísland, Steingelda Krummaskuð” e “Með Harmi”), come avviene nel ponte tra movimenti che collega la gretta, quasi coatta “IV” con la invece strepitosamente maestosa e belluina “V”, in cui Árni spalanca i portoni dell’antico e dell’arcano su cui il collettivo originariamente battezzatosi Vánagandr si affaccia in slanci e rincorse di chitarre tutte disarmoniche: l’inventiva è alle stelle e si manifesta genio in libertà, portando tutti qualche propensione (per forza di cose accostabile alla o alle band di origine) ma sempre nello sforzo riuscitissimo di ritrovare pura unicità nella commistione e nella risultante finale. S’è vero infatti che anche in “VI” ritroviamo inizialmente lo spirito fierissimo del già citato terzo brano di “Algleymi”, le lisergiche anse chitarristiche che ne malleano lo splendido andirivieni nei rallentamenti sono quelle di “Burning World Of Excrements” in “Revelations Of The Red Sword” ma per un risultato ancora una volta tutto nuovo: non un semplice bastardo di letture, bensì un canone novello che rifugge ogni precedente canone – islandese e non.
Proprio l’islandesità, che nel Black Metal così tanto è palese, almeno quanto è cruciale nel disperato, ineluttabile concept “Sól Án Varma”, assume infatti qui praticamente ogni forma sperimentata dai più grandi interpreti del filone dal 2010 al 2017 che ne precede l’ideazione, portandola alle estreme conseguenze di estetica e poetica nel mostrare qualcosa che potrà essere: apocalittica, sì, ma anche malinconica e rassegnata, in un certo senso umana come non si era mai sentita – né più si sarebbe fino ad oggi sentita nel sophomore Svartidauði, né negli stessi “Algleymi” e “Med Harmi”. Le tastiere corali non solo di “VII” fanno risplendere la composizione di un determinismo, di un meccanicismo deviato ed unico, fanno scendere brividi di freddo lungo la schiena per il grandeur che evocano; quello sghembismo delle chitarre di Tómas e Dagur, ormai dato per assodato (lo si conceda pure), nelle furibonde accelerazioni trova invece un’armonizzazione quasi paradossale considerata la disarmonia a tutto tondo che i nostri musicisti insulari continuano a cercare e modulare (si prenda d’ultimo esempio la naturalezza con cui confluiscono in quell’assolo quasi-Heavy Metal che come un traghettatore accompagna verso il finale grandiosissimo del settimo movimento). E tutta la nerezza spaventosa del Black Metal alieno al resto del mondo dall’estremo nord non si carica necessariamente di calore, ma rilascia comunque delle abbaglianti luci che risplendono negli anfratti dell’inaudita epica maledetta sprigionata dalle favolose “X” e “XI”, specchi della stupefacente ricchezza tonale dell’album con tutto il melodicismo ritmato della prima e la caoticità finale della seconda: specchi di una densità tanto collosa da essere metafora di una pace e di una liberazione drammaticamente fuori portata, þar sem vægðarlaust svartnættið umlykur allt perché araldi di vita e morte insieme, in quel Sól…

[…] sem eyðir og elskar án varma, er við lítum inn í auga Þitt. Sex þúsund augu gegn einu, sem gleymir engu og geymir allt.

Forse è infine proprio per via del fatalismo e dello scetticismo squisitamente islandesi, di una non meglio specificabile sjálfstæði ma anche vonleysi insita nelle fibre umane di quel popolo e in quelle menti storicamente piagate dal freddo, dalla vastità del loro nulla, e dal grigiore sociale tipicamente insulare che un’operazione solitamente così rivedibile e discutibile trova una letteralmente opposta riuscita qualora portata a termine quale missione di vita da menti simili: da artisti che sembrano impossibili da toccare con le regole malsane del music business – anche e soprattutto quando queste sembrano riuscire a traviare, magari solo per un attimo e ingenuamente, probabilmente anche senza malizia, persino i più insospettabili, autentici, indipendenti e testardamente grandi nomi. Forse perché non importa che venga accettata la commissione di un qualcosa che, a giudicare da risultati e riuscita, sarebbe presto o tardi sgorgato fuori in un modo o nell’altro, in una natura o nell’altra, trasformata da simili esegeti del terrore a sette note da possibilità in missione senza margine d’errore. Probabilmente perché ogni artista coinvolto condivide con i suoi compari una certa estetica, un personale mondo divenuto realtà, una certa volontà che vien da dentro e persino una non comune arrogante ambizione che quindi non può piegarsi di fronte a nulla, se non nella splendida congiunzione con i propri simili in quella naturalezza di cui si discuteva in apertura; quella che qui si traduce nel roboante suono maximalista di chi deve riempire all’inverosimile il circostante perché sente un vuoto schiacciante dentro – bruciante, annichilente e disumano, crudele come un tarlo nel cervello o un sole che privato dei suoi raggi irradia morte senza calore.

Himninum sundrað,
Svo aldrei skín aftur sól…
Ljósið sem okkur gaf líf,
Mun ætíð framar vera hulið.

Allt mun falla.

Matteo “Theo” Damiani

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