Urfaust – “Teufelsgeist” (2020)

Artist: Urfaust
Title: Teufelsgeist
Label: Ván Records
Year: 2020
Genre: Avantgarde/Doom Metal
Country: Paesi Bassi

Tracklist:
1. “Offerschaal Der Astrologische Mengvormen”
2. “Bloedsacrament Voor De Geestenzieners”
3. “Van Alcoholische Verbittering Naar Religieuze Cult”
4. “De Filosofie Van Een Gedesillusioneerde”
5. “Het Godverlaten Leprosarium”

Lo spirito si manifesta al chiarore tremulo di una magica lanterna ricoperta di polvere, da cui trapelano fievoli barlumi di coscienza a disperdere fioca luce sul profilo opalescente di corna appuntite, incise sulla copertina foderata in pelle raggrinzita di un libro vergato di simboli, reminiscenze alchemiche, nelle cui pagine ingiallite si narra telepaticamente la messa in scena di una resurrezione schematicamente rovesciata per modi ma non di risultato -procedente insomma verso il basso solo e soltanto per poter ossimoricamente sfondare il rubicondo tetto fatto di nembi delle altezze- e che gli Urfaust orchestrano rimestando a loro piacimento un cocktail di cui sono in primo luogo massimi degustatori e conoscitori per aroma, grado di intensità, corposità e texture: mélange senza antinomia e conflazione olezzante lugubri oscurità atrofiche, liquore puro mistificato da una semiologia del nichilismo che trova la forza della creatività più illimitata proprio nella vitalità del conflitto tra generi stilisticamente contigui, in quella peculiare lotta di tutti contro tutti ove nessuno di questi deve, ironia, rinunciare ad alcuna delle sue più fervide portate espressive – proprio facendo ricusazione di tutti i suoi più intimi, canonici criteri estetici.

Il logo della band

Il processo che ha visto il duo neerlandese, tramite una soluzione musicale rimestata e maturata sempre più empiricamente acida, farsi osservatore dell’impercettibile senza più doverlo analizzare con i mezzi della pura logica ed evidenza, del bianco e del nero di soundscape di natura Ambient, Black o Doom Metal, dell’avanguardia tetra di rumori e manipolazioni tastieristiche che sommate o sovrapposte potessero risultare grigie o plumbee loro volta, arriva dunque oggi in “Teufelsgeist” ad uno sviluppo che da meditativo si fa descrittivo, visivo ed esperienziale, traduzione in musica di un avvenimento preciso per contorni e inafferrabile per essenza; dal sepolcrale di quelle fantasie introspettive di morte, di espiazione ed ascesa che sono state non solo punto di partenza ma cuore pulsante e perno attorno a cui sviluppare le ultime due opere maggiori (e relative cornici in “Die Erste Levitation”, “Apparitions”, “Kalabhairava” e “Scabreusheden Uit Het Tucharsenaal”), al suo sensitivo, quasi-sciamanico e sognante contrario – uno in cui la musica smette definitivamente di essere chitarra, basso, voce e batteria, pur trattenendone l’impiego ultimo sotto velata minaccia, per diventare forma e colore nello sprigionarsi di sfumature iridescenti su tela nera. Il trasformismo musicale che sembra aver aperto agli Urfaust gli scuri della fortuna sommergendoli dei suoi doni porta quindi in “Teufelsgeist” a far intraprendere loro il passo decisivo sulla via dell’incorporeo, in una tragicommedia stridentemente esistenziale inscenata con coltri di fumo e la mania di indagare i lati più insoliti e sordidamente indicibili dell’esistenza – dalla sacralità dello spirito alla caducità dello spìrito, dalla sobrietà ieratica alla più destabilizzante ubriacatura di emozioni tramite un particolare simbolismo alcolico vissuto come autentico sacramento.

La band

Le perversioni autodistruttive vengono pertanto impulsivamente snocciolate in un soliloquio che si abbandona allo stream of consciousness fatto di astrattismo musicale; alla teatralità grottesca impiegata per far giungere l’assorto ascoltatore da una sfilata di ariose, estroverse, rilucenti, quasi barocche ondate d’entusiasmo all’introversione più tossica, fumante, viscerale e nera in cinque atti che -costantemente in divenire- trasportano e assorbono morbosamente tramite la costruzione paratattica delle ripetizioni, estese in prognosi e decorsi lunghissimi (seppur, in più episodi, su timing decisamente ridotti) tramite la coltivazione di dettagli nuovi ad ogni secondo che fanno vivere il processo come al contempo infinito per profondità e fulmineo per durata o fruizione, rendendo afferrabile -se non immobile- il presente, prestissimo mutato in uno stato di slow-motion cognitiva con gli artigli indirizzati ai tesori del futuro. Dalla esultante pace dei sensi alla frenesia incubica, mentre la mente -da vuota e limpida che fu- comincia a correre e i pensieri ad affollarsi in un assembramento inquietante, non occorrono nemmeno dieci minuti prima che in una caduta senza fine la freschezza delle sensazioni sfavillanti incominci a dissolversi, il sangue a raggelarsi per terrore nelle vene sotto l’incantesimo d’intorpidimento interiore, che l’alcool scrosciante nei capillari sia completamente metabolizzato e l’ascoltatore così definitivamente inchiodato; e qualora la squisitezza sottile ed impalpabile dei passaggi assorti che compongono “Van Alcoholische Verbittering Naar Religieuze Cult” possa essere un malinconico punto di raccordo estetico, quello di svolta esplicito tanto nel disco quanto nell’esperienza inscenata, i paesaggi e le atmosfere allucinate, foreste interiori i cui rami gettano lunghe ombre uncinate sulla coscienza, sono impresse nella mente da ben prima, almeno dal finissimo cambio di umore nel basso di quella “Offerschaal Der Astrologische Mengvormen” che, dalle esaltazioni mistiche di cui è intrisa, fa sprofondare inesorabile verso i cunicoli acherontici e mai altrettanto spettrali della già superlativa “Bloedsacrament Voor De Geestenzieners”.
Proprio l’alternarsi di suono e silenzio in uno stato di trance percettiva permette agli Urfaust, nei panni di direttori di scena soddisfatti del procedere dello spettacolo, di gettare in continuazione nel calderone idee affascinanti in sprazzi fatti d’aria e di luce drammaturgica nelle tenebre, medicina mentale per turbe ormai informi che danno manforte ad un senso di colpa strisciante e sempre più infame in “De Filosofie Van Een Gedesillusioneerde”, su cui vengono diroccati gli ultimi rimasugli musicali in resti d’angoscia e ruderi d’ansia patologica – le strutture completamente disintegrate e i cancelli di genere scavalcati con calma irrequietezza, in preda a convulsioni rapsdodiche e senza senno dalla narrazione esplicita sottaciuta, sibilata priva di istruzioni alla piena interpretazione del fruitore. Nonostante sia infatti il magniloquente rullante polveroso e metallico della batteria lo strumento principe per dare quel nerbo che faccia la differenza nelle composizioni, e la voce -cronista Isengard per moderni tempi d’abbandono, da nababbo a clochard nel corso del disco- l’elemento che catalizza l’attenzione con la magia delle sue performance basse, dal leggerissimo tocco quasi satirico, che si lanciano in movimenti più acuti verso un cielo che gli è stato negato da un dio dimenticato e da cui sta precipitando sempre più lontano, parlando di poesia e mefistofelica follia senza l’ausilio di parole (dritta al cuore senza passare dal processo della mente), sono in realtà le eleganti contraffazioni Ambient di tastiere, chitarre effettate e sintetizzatori analogici a creare il doppio fondo d’illusione, privazione sensoriale, a tenere lo spettatore in ottenebramento delle facoltà, in balia della musica perché derubato in corso d’opera della percezione globale. In un album dalle fattezze indivisibili, le radici di oscuro plasma Dark Ambient della musica della band emergono così, dapprima creando buchi e smottamenti nel trasfigurato asfalto Doom Metal sporcato di vaporose atmosfere nere per poi abbatterlo completamente; ed “Het Godverlaten Leprosarium” chiarisce in tal senso, forse una volta per tutte, come gli Urfaust del 2020 non vogliano interazione attiva, bensì agiscano sui nervi privando di intelligentia e realizzando una comunicazione muta ed intellettuale: negli ipnotici andamenti giambici del basso del quarto movimento che si spezzano in allagamenti atmosferici, che affogano tutta l’epistemologia di strutture logiche e certezze prima di ricrearle da zero, più forti e solide in un finale che -epifania beffarda- sfugge alla razionalità con la consistenza mutevole e liquida di un brutto sogno fissato in un dagherrotipo sbiadito, forte però di una coerenza solipsistica che in un continuo processo di avventuroso trial and error riesce a rompere la barriera della poetica sgretolandola prima in movimenti di confusione frastornata, poi nel formicolio mentale, ma soprattutto infine nella supplichevole liberazione dalla coscienza nel sonno: non uno rilassato e sorridente, bensì rannicchiato e ricco di sgomento per la visione interiore di una stralunata manifestazione caprina, nella sbronza ormai rifugio sacro dalla realtà.

“Teufelsgeist” insomma ricorda con un afflato quasi enciclopedico di chiusura totale del mondo al suo esterno, ve ne fosse mai bisogno, che se è poi vero che restare esclusi fuori da un contesto può talvolta risultare spiacevole rimanerne intrappolati dentro è decisamente imperdonabile; allora gli Urfaust possono ben permettersi di non porsi alcun quesito né problema di identità, attori istrionici e anche un po’ bohémien fortissimi delle redini della loro creazione evolutiva di pirandelliana memoria, che in soli trentaquattro minuti di sopraffazione, paralisi e nausea colorate di fiaba senza tempo, laggiù nel reame di un eterno brodo primordiale fatto di un dedalo intossicante di processi mentalistici a tuffo infinito, esplora i fondi del disagio, del topos della confusione e della disperazione esistenziale con rara raffinatezza, con una pignoleria mascherata da trasandatezza che, manifesto dell’anti-arte, della negazione della pretesa artistica, si fa arte. Non servono immagini né grafiche aggiuntive, non informazioni né spiegazioni per arrivare infatti alla verità personale degli Urfaust, tutta interna all’opera così come demandata interiore al fruitore da un disco che occorre scavare fino all’osso, esplorare nel profondo, nel troppo doloroso da contemplare di nebbie che parlano senza la lingua di chi ascolta perché usano la manipolazione e l’istintuale come risposte parimenti valide: un passaporto di disinvoltura per l’irrazionalità e l’ispirazione, dalla bellezza di difficile digestione che non tutti sapranno cogliere per davvero, come foglia che non si accontenta di aver vissuto ma vuole aver creato il suono in un sussurro – che non si accontenta di morire ma vuole lasciare un segno durante il piccolo oggi e l’ancor più breve domani, su cui possa infine calare il sipario più soddisfatto e tronfio in tutta la sua gloriosa realizzazione.

Matteo “Theo” Damiani

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