Urfaust – “The Constellatory Practice” (2018)

Artist: Urfaust
Title: The Constellatory Practice
Label: Ván Records
Year: 2018
Genre: Ambient Doom/Black Metal
Country: Paesi Bassi

Tracklist:
1. “Doctrine Of Spirit Obsession”
2. “Behind The Veil Of The Trance Sleep”
3. “A Course In Cosmic Meditation”
4. “False Sensorial Impressions”
5. “Trail Of The Conscience Of The Dead”
6. “Eradication Through Hypnotic Suggestions”

Dopo le rivelazioni dell’EP “Apparitions” e soprattutto gli incubi interiori definitivamente eradicati con “Empty Space Meditation”, il duo di mistici di Asten torna a farci visita con il sapore della realizzazione nel chiudere un cerchio che, sotto forma di trilogia iniziata nel 2015, li ha portati ad evolvere in maniera considerevole quel sound sperimentato fino al precedente episodio maggiore intitolato “Der Freiwillige Bettler”.

Il logo della band

Si potrebbe addirittura, a parziale ragion veduta, giunti a questo punto, dividere sommariamente la carriera degli Urfaust in due fasi: la prima, valsa loro a posteriori lo status di culto di cui godono particolarmente oggi, chiusa emblematicamente con la compilation di miscellanee “Ritual Music For The True Clochard” nel 2012, seguita dall’attuale e secondo periodo di cui la trilogia di meditazione (in realtà preceduta in intenti dalla sporadica ma fondamentale prova-prequel “Die Erste Levitation” del 2013) risulta esserne chiaramente la più rifinita e ricca parte, nonché sorprendente. Tuttavia, ciò non renderebbe piena giustizia al percorso complessivo di un gruppo che ha comunque e sempre dato segnali lampanti, fin dai primissimi esordi, della tutto sommato già chiara visione evolutiva -e fondamentalmente droning- che ha fatto di questi aspetti, riassunti in approccio sperimentale, la raison d’être che tende a collimare proprio nelle note del nuovo album.
Ci erano voluti sei anni per ascoltare un full-length d’inediti dalla band al momento della pubblicazione del penultimo, che accompagnava diversi trademark ormai fissati dal pauperistico minimalismo Urfaust con un nuovo ed eccezionale impiego dei sintetizzatori in effettiva maturazione compositiva e -perché no- anche parziale rivoluzione stilistica; ma è un lasso temporale decisamente ridotto quello che (scevro da qualunque orpello promozionale) in soli due anni consegna “The Constellatory Practice” sempre tramite le mani della capace Ván Records.

La band

Si riparte da quanto ottenuto in “Empty Space Meditation”, specialmente sviluppando le fortunate intuizioni medio-orientali di “Meditatum VI” e ormai sedimentate in due anni di ulteriori sperimentazioni, per compiere quella che questa volta è sicuramente una rivoluzione compositiva ben più profonda, mirante direttamente a riscrivere parte del DNA Urfaust con coordinate che sono (e furono) anche in parte già note, ma risultano oggi decisamente scambiate di peso o di ruolo. Dopo anni di flirt con il mondo Ambient, ad esempio, la tentazione, da ultimo assecondata, è quella di scrivere brani che facciano di quella incorporeità e della totale e più liquida destrutturazione il loro scheletro paradossalmente solido su cui cristallizzare la superficie dei lunghi pezzi; per concetto costruttivamente Ambient a tutti gli effetti, seppur rivestiti nella pratica dall’importante, caratteristica ed inconfondibile personalità del duo.
Il risultato è “The Constellatory Practice”, un album fortemente coeso (il viaggio comincia, prosegue e si conclude totalmente indisturbato da pause o digressioni, in totale trionfo di pura atmosfera onirica) che ciononostante riesce a regalare emozioni e colori differenti in ogni singolo capitolo, preso a sé nel suo fluire, per il carico di singolari dettagli distinguibili fin dai primi ascolti senza particolari difficoltà.
Il duo si spinge per molti versi oltre le coordinate ad oggi sperimentate riuscendo a svelare un’anima più Doom che mai (in un episodio come la lunga opener “Doctrine Of Spirit Obsession” si sconfina senza giri di parole nella drammaticità Epic Doom dai possenti risvolti sinfonici) e allo stesso tempo caricare di psichedelìa e luci l’interezza del disco. L’approccio rituale della musica degli Urfaust si basa sempre più sui circolari sentori trance degli accenti ritmici (siano batteristici o percussionistici), che dettano la danza senza movimento di parti chitarristiche dall’anima lo-fi, scomposte e indistinte (gli ormai antesignani centenari padri del rumorismo musicale sono richiamati tanto da essere impiegate, con la loro grande varietà stilistica, sostanzialmente per ricreare vortici di Black-Drone in cui far perdere continuamente l’ascoltatore – distorsione octaver abusata in “Eradication Through Hypnotic Suggestions”), che dall’alto del solito approccio esasperatamente minimalista (si noti la quantità di dettagli ed umori che vengono sciorinati nonostante -e per merito di- un’invero piccolissima quantità di strumenti in gioco) regalano sinergia con l’anima dal richiamo Kosmische Musik procedendo in tribalismi che fanno la fortuna di “Behind The Veil Of The Trance Sleep” (dove Klaus Schulze è lanternino di dimensioni notevoli, e ancor più in “A Course In Cosmic Meditation”, pur rispettosamente filtrato dal distintivo taglio del duo nederlandese).
La voce è più che mai un altro strumento da modellare e modulare in base alle esigenze: urla lancinanti come sfondo velare che lascia spazio nella maggioranza delle occasioni al pulito dal timbro solenne che, in litanie estemporanee ma protagoniste, ricopre ogni capitolo maggiore del disco – deroga concessa all’acherontico e spaventoso incubo che prende il nome di “False Sensorial Impressions”, dove sono invece le sconnesse ed urticanti harsh vocals a tormentare dal profondo della talassica musica.
Un eccezionale capitolo a parte lo segna però la stupefacente “Trail Of The Conscience Of The Dead”, composizione progressiva per oltre dodici minuti di altissimo livello dove ritroviamo il più solenne e dilatato Doom a cui la band abbia mai abituato, in cui l’inedita nitidezza delle lead guitars è solo preludio di un’apertura affidata alla maestosa intensità sinfonica ed emotivamente fremente di un inatteso quanto toccante fiorire di archi in tripudio regale: sentori di un’eleganza classica in musica sperimentale che riesce a fare dell’ormai profonda conoscenza di Drone, Doom, Black, Ambient ed allucinati contrasti tra oscurità e luce ad ampio spettro, nient’altro che il multiforme punto di partenza da cui creare sempre qualcosa di nuovo.

Chiude il cerchio di maturazione una produzione eccellente, ricercatamente lo-fi per gli immancabili riverberi su batteria e funzionalità elettriche, ma dal bilancio perfettamente nitido nel restituire invece altissima fedeltà alla restante parte dei dettagli; ariosa e voluminosa anche e soprattutto quando riprodotta ad alti volumi, regalando rifiniture ad ogni ascolto se non questionato. Quando abbandonati, alla deriva, vibrando percorsi da uno spasmo gelido durante il percorrimento del dedalo di suoni astratti, come colonna sonora della contemplazione di qualcosa di più immenso di noi. Un misterioso fuoco fatuo in musica.
“Quadrophonische Symphonie für Orchester und E-Maschinen”, scriveva per l’appunto qualcuno in Germania nel 1972. Suonare un organo, una chitarra e delle percussioni creando la partecipazione di una credibile orchestra attraverso l’impiego di una sola manciata di strumenti elettronici.
Nel 2018, nei Paesi Bassi, qualcuno è riuscito con ogni probabilità più di chiunque altro ad avvicinarsi, all’ascoltatore la sentenza sul ricreare o meno, quell’unica ed esatta magia che prima d’oggi era sempre apparsa così irremovibilmente calcificata nel tempo.

Matteo “Theo” Damiani

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