Sühnopfer – “Nous Sommes D’Hier” (2023)

Artist: Sühnopfer
Title: Nous Sommes D’Hier
Label: Debemur Morti Productions
Year: 2023
Genre: Melodic Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “D.S.F.R.”
2. “Nous Sommes D’Hier”
3. “Sermon Sur Le Trépassement”
4. “Pays D’Allen”
5. “Céron”
6. “Derniers Sacrements”
7. “Le Bal Des Laze”

La si sente risuonare pura come il cristallino accento di una tromba dorata nell’etere, impalpabile ma decisa nella sua presenza di fantasma che pare uno squisito sogno in dormiveglia, un’aria che narra di re rimasti orfani di regni e condannati all’esilio della memoria in un perpetuo aldilà di misfatti, che governano su di un intero popolo fatto nient’altro che di spettri emaciati e smunti, riduzione al fango di ciò che un tempo furono; delle anime corrotte dei secondi e dello spirito ardente di vendetta e riscatto dei primi; dei canti di una tortura lunga tanto da apparire infinita, che sono oltraggio al sacro, nel cui ricordo tuttavia alcuni cavalieri di più alta natura vagano ancora senza requie, come di ululati che salgono intonati al cielo e dei mali più terribili che questi menzionano: la disperazione per il confronto, la morte dell’importante e del solenne, la carestia di bellezza e di grandezza che ci circondano divoranti come lupi famelici. Ma ci giunge anche novella di ciò che può nuovamente essere santificato dal sacrificio e dalla creazione quale contraltare al progredire del nulla, dall’atto di originare che -in fondo- è impietoso sacrificio di una parte di sé per metterne al mondo un’altra.

Il logo della band

Come di un’antica unzione divina che irradia immortalità -per parafrasare liberamente lo sforzo creativo in oggetto- ci parla infatti Ardraos in un nuovo, meno plumbeo e quarto capitolo del grande libro Sühnopfer. Qui dentro, in quasi un’ora di elegantissima complessità e ricchezza compositiva dove avanzano imponenti i nobili martiri del Royaume de France: sopravvissuti all’esilio imposto, nell’euforia epica e cavalleresca di un’epoca restaurata sotto la mano terribile, impietosa, ma anche strenuamente equa dei secoli. “Nous Sommes D’Hier” è del resto una visione incontaminata, affilata, senza revisioni e senza romanticismi eccessivi che ne indorino l’a suo modo gloriosa realtà: non soltanto di una terra per noi d’Oltralpe, tuttavia, ma di un intero mondo che possa imparare dal passato più fisiologica lentezza e stabilità, ripartendo da certezze e incertezze andate perdute nelle maglie del cambiamento, dei figli di ieri che nel domani guardano con coraggio ma che nell’oggi trovano un supplizio inenarrabile. E non è dopotutto fatto circostanziale che il quarto nascituro della mente di Florian Denis, quando dedita al suo progetto di espiazione Black Metal dalle tinte più sinceramente, crudamente e verosimilmente medievali tra quelle sentite negli ultimi vent’anni di musica, si ponga dunque in un certo senso e anch’esso a metà strada, o per meglio definirlo a punto di vero raccordo tra l’oscura, funerea, cadaverica e spiritata violenza di legioni dell’ormai penultimo “Hic Regnant Borbonii Manes” e la maggiore apertura, per certi versi semplicità ma funambolica resa della consacrazione “Offertoire”.

Ardraos

Dove infatti il precedente monumento di cupa ferocia e spettrale veemenza melodico-ritmica colpiva rigido, aspro ed oltremodo severo con la sua maggiorata durezza ed impietosa velocità, lasciando invero pochissimi attimi per riprendere respiro tra una bordata micidiale e l’altra giacché sciorinate in una tempesta di lead e rullanti percossi come una valanga di dettagli à la “Nord…”, “Nous Sommes D’Hier” risponde persino raddoppiandola in impatto frontale; ma laddove tuttavia il secondo lavoro catturava invece con la squisitezza di rallentamenti in velocizzazione e ritmi dalla gustosità e dal tiro irrefrenabile, vale a dire con un minore ricorso alla ultra complessa, patologica variazione quasi schizofrenica e classicheggiante, barocca, grazie alla quale il progetto è così tanto divenuto un’entità totalmente unica nel suo sfuggente panorama stilistico, allora il nuovo disco dei Sühnopfer si può star certi si mostri ancor più ricolmo d’inventiva e di superbi, squillanti fraseggi di sei corde usate come una intricata, sfarzosa sinfonia, che sebbene restino costantemente variati di tono, timbro e davvero raramente ripetuti (un po’ come accade del resto nelle migliori colonne sonore eseguite da intere orchestre di finissimi orecchi assoluti), oggi lasciano il loro inconfondibile segno a fuoco ad ogni passaggio. Solo una piccola parte del successo la si deve infatti al supporto fornito da quasi inediti campionamenti o al maggior uso di sintetizzatori sul fondo del soundscape che permettono di immedesimarsi ed addentrarsi come mai prima d’ora nel cronologicamente remoto passato ricostruito con passione furente dalla musica della one-man band (si pensi non solo, ma principalmente forse, all’incipit della title-track seconda in scaletta, oppure al diabolico reverse della quinta), conviventi piuttosto con il saliscendi di umori governato di un’isterica voce la quale restituisce con le sue defibrillanti urla belluine e dal tono tra il torturato, l’angosciato, l’enfatico e lo spettrale, i concitati incupimenti magistrali della partenza da colpo al cuore di una strabiliante, indiavolatissima “Céron”; o ancora facenti gioco comune con le trionfali e trascendentali parti corali (in “Sermon Sur Le Trépassement” rifinite con l’aiuto del commilitone Vindsval di fama Blut Aus Nord e The Eye, il cui postumo “Supremacy” del 1997 in un certo ed atmosferico senso sembra informare e dare algido colore al brano) le quali, più che mai, imbevono la musica di una maestosità regale in passato, per assurdo, solamente sfiorata dal progetto francese – ed è lo stupendo caso anche di “D.S.F.R.” e “Derniers Sacrements”, alfa e omega in cui la coralità fa il paio con gli schizzati e tecnicamente sfidanti assoli che piombano sull’ascoltatore come lampi e saette qualora le parole non bastino più per la potenza dei climax come previsti e realizzati da Ardraos.
Il valore melodico del chitarrismo del compositore e maestro polistrumentista francese sembra d’altro canto non avere più alcun possibile limite mentre viene esplorato in guisa più epica e roboante: i comunque non esattamente trascurabili timing dei già citati secondo e quinto brano volano letteralmente fuori dagli speaker di qualunque riproduttore digitale o analogico come spinti sulle ali di una pulsione fatale; arabeschi e arzigogoli rococò donano come non mai l’idea di una grandiosità di ritorno nel mezzo di una proposta che resta perennemente ancorata al suo carattere ambiziosamente grezzo e ferino creando non tanto un bilanciamento che porti a casa la partita nel suo equilibrio, comunque non da darsi per scontato, bensì un diamante unico come forse esemplificato nella compattezza quasi progressiva, micro e macrotonalmente variegata di “Pays D’Allen” (con le sue nascoste e sorprendenti dissonanze e quel frammento di rigogliose note acustiche sfavillanti), in cui ogni sfumatura in continuo cambiamento è parte essenziale ed irrinunciabile del tutto. L’inventiva e la capacità di piegare la forma musicale più ingarbugliata e più semplice al pari al suo servizio, d’altro canto, è probabilmente spiegata meglio che con ogni possibile parola grazie alla scelta di rivisitare una canzone tardo sessantiana dell’infanzia come “Le Bal Des Laze” (dell’autore fondamentalmente Pop, l’Amiral Michel Polnareff) per via del suo tono e tema in partenza luttuosi, trasformata come da un alchimista nel suo studio al chiaro di luna in un’elegia funeraria del condannato al patibolo, in un contesto di sfarzo dove non ci si fa più mancare nemmeno delle ottime clean-vocals a completamento delle più solite e feroci urla straziate che, altrove, ci hanno raccontato così sapientemente e poeticamente, come in un timorato sermone di terrore che parte dalle labbra infervorate di Massillon e viene musicato in requiem ottocentesco in minore da Luigi Cherubini, di re bambini giustiziati e di tradimenti dietro ogni angolo; di luoghi in cui la leggenda si mescola alla storia, il credo alla finzione; di baluardi strigoici e di morti terribile riservate a peccatori e non credenti come arguta metafora; di prigioni buie e spazi ameni descritti con un senso di audacia ch’è emanazione viva di un passato turbolento. Con feroce eleganza, con ardua decifrabilità resa leggibile da una continua memorabilità di scelte ritmiche dalla fermezza ossessiva alla base dell’idiosincratico scontro tra l’inquietudine interiore e la ricerca di tregua che si traduce con nobiliare, sontuoso grandeur nel tripudio in note che sono i Sühnopfer di “Nous Sommes D’Hier”.

Non una semplice ricalibrazione, insomma, o una mera variazione su tema già collaudato, né un semplicistico miglioramento di aspetti già presenti e dunque portanti poca o nulla sorpresa all’interno dell’economia sonora di cui permette di godere un disco dei Sühnopfer oggi banalmente migliorato; bensì un innalzamento sofisticato della qualità già indiscussa dei due precedenti album, da un lato grazie a nuovi elementi tanto autentici e naturalmente appartenenti all’universo sonoro imparato a conoscere dalle parti di Ardraos quanto fonti di continuo stupore – dall’altro con uno scontro ancora più grande tra tensioni a generare unicità, verso vette di scrittura che bilanciano una difficoltà ed opulenza straniante in termini esecutivo-uditivi con una coesione, una immediatezza ed una naturalezza da campioni assoluti della propria arte. Una straordinaria abilità creativa da miniatore raffinatissimo che è fiera e orgogliosa grandezza del servire tra gli ultimi per un fine più alto persino dei primi, puntuali alla linea di partenza per la conclusione estrema di un mondo finto e finito, martire della vanità, degno di disprezzo e di obbrobrio, il cui stesso respiro è diventato un’infezione. Ma finché l’uomo potrà dimostrarsi capace di creare, semplicemente e stupendamente creare opere e mondi del calibro di “Nous Sommes D’Hier”, non è folle continuare ad abbandonarsi alla speranza per cui possa essere seriamente prossimo il giorno in cui gigli d’oro fioriranno di nuovo sullo stendardo turchese come un cielo rasserenato dal più grande degli espiamenti.

Matteo “Theo” Damiani

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