Sühnopfer – “Hic Regnant Borbonii Manes” (2019)

Artist: Sühnopfer
Title: Hic Regnant Borbonii Manes
Label: Debemur Morti Productions
Year: 2019
Genre: Melodic Black Metal
Country: Francia

Tracklist:
1. “Invito Funere (Introduction)”
2. “Pénitences Et Sorcelages”
3. “Hic Regnant Borbonii Manes”
4. “La Chasse Gayère”
5. “Je Vivroie Liement”
6. “Dilaceratio Corporis”
7. “L’Hoirie De Mes Ancestres”

I francesi Sühnopfer rappresentano una lodevole eccezione alla regola in ben due campi distinti, anche se sovente paralleli e per lo più riassumibili in una comune profondità d’intenti: in primis, quello musicale che viene inforcato senza pietà dalla personalità e dal suono ormai immediatamente distintivo in una declinazione di genere, quella del Melodic Black Metal, che ha sempre visto ben più tardi epigoni a ricalcare le orme dei nomi tutelari -principalmente svedesi, non serve dirlo- piuttosto che gemme solitarie capaci di riprenderne le gesta per trasportarne il verbo altrove; in secondo luogo, quello del morboso approfondimento tematico al terroir medievale che è, altrove, sempre abbozzato a modo di schizzo superficiale, quando non risibile per cliché e luoghi comuni al limite del cartoonistico.

Il logo della band

Ardraos, che si cela dietro al monicker in repentina maturazione dal 2001, sceglie da subito (quantomeno dal debutto su full-length, “Nos Sombres Chapelles” mostra già quasi tutte le caratteristiche che poi diverranno base costituente su cui lavorare, rifinire e sgrezzare) di affrontare la materia in un modo più serio e penetrante ambo i lati; la tradizione del fiero Black Metal svedese viene solo presa in prestito per i suoi cardini e subito coniugata à la francesissima in modo peculiarmente distintivo, versandovi quel retaggio medievale comune al retroterra underground del paese (un solo precedente, anche se decisamente più fantasy e meno occulto, sono gli Hirilorn – senza citare l’esempio per molti versi più coevo e calzante dei Peste Noire) ma esplorandolo nella direzione delle sue più profonde catacombe, mettendo a nudo il fascino di tempi ambivalenti per credo religioso e superstizioni, stregoneria, riti pagani che si vanno a fondere con l’oscura imponenza ieratica di una cultura monoteistica già da tempo affermata ma ancora traballante nel segreto delle anime centro-europee (le pratiche confuse di “Pénitences Et Sorcelages”, “Dilaceratio Corporis”, per fare riferimento solo al nuovo album), che finiscono per convivere in modi spesso tetri e claudicanti ma, in retrospettiva storica, immancabilmente affascinanti e fondanti.
Non sorprende quindi che, al netto di una predisposizione similmente realistica e cupa per quanto riguarda l’approccio lirico, la gestione degli aspetti stilistici sia parimenti innanzitutto riluttante all’impiego di strumenti folkloristici -o verosimilmente antichi- per ricreare atmosfere che sono già profondamente calcificate in un parco elettrificato scarno, tuttavia, in grado di restituire -proprio per via dell’elegante essenzialità in numeri- la durezza e l’aspro carattere di tempi oscuri, carichi di efferatezza e mancanza di senno; ma anche di nobiltà, quella di un passato vivo e in grado d’infestare il presente con le ombre dei suoi spettri.

Ardraos

“Hic Regnant Borbonii Manes” riprende in continuum stilistico quanto ottenuto nel magistrale “Offertoire” di fine 2014, indurendo tuttavia notevolmente la formula e concentrando in brevi sprazzi le aperture acustiche che lo caratterizzavano (ora perfino maggiormente splendenti e significative quando presenti), sostituendole in numeri con un ancor più marcato lavorìo sia ritmico (serratissimo, nervoso, più febbrile ma mai privo di assoluto e quasi chirurgico controllo) che regalmente melodico (volute più ampie disegnate prima del collasso e ripartenza che segue la totale imprevedibilità della sezione ritmica), giostrati in una talentuosa sinergia che è derivazione dell’enorme capacità tecnico-creativa di Ardraos quando all’opera con qualunque strumento del parco voce-chitarra-basso-batteria (comunione di mire che lo porta a scrivere in guisa orchestrale, con ogni minimo dettaglio e accento incastrato a completamento degli altri, con un riguardo alla composizione dell’intricata batteria), nonché della visione cristallina che presiede la base fondante del progetto.
Il terzo full-length della one-man band punta pertanto, più che a un cambiamento esplicito di forma, agli aspetti che permettono di realizzare un’atmosfera diametralmente diversa per colori e conseguentemente ad una lima, un cesello metrico ed esecutivo che hanno dell’incredibile: la velocità aumenta e si fa da vertigine, l’intensità segue, ma la capacità di creare continui volteggi melodici dal gusto neoclassico che siano sempre pregnanti non è persa. Al contrario, rimane di periodica e più complessa assimilazione -quindi più valorosa per profondità espressiva- ed è merito di una capacità di sintesi raffinata che porta il nostro a mutare registro e accordi seguendo la melodia portante del momentaneo (ma non per questo innocuo) lembo chitarristico in monocorda, destinato alla mutazione tonale improvvisa in una struttura che -considerata la quasi totale assenza di ripetizioni e momentum complessivi- ha del portentoso per la solidità con cui regge ai contraccolpi di affondi tanto momentanei quanto alteri.
La densità di particolari e l’incessante contrasto tra parti (si noti la maestria nel gestire le fulminee incursioni di repentini blast-beat o le martellate in doppia cassa che precedono/conseguono) garantisce l’atmosfera inquieta che distingue l’album, ma soprattutto un’assoluta longevità a tutti i sei lunghi brani – nonostante ai primissimi ascolti questo rischi di far passare erroneamente il lavoro per monolitico: la finezza delle frustate a strapiombo dai pinnacoli melodici delle sei corde, che si sovrappongono tra loro in un amalgama d’arrangiamento che restituisce perfettamente sia la maestosa brezza tombale nei momenti più lugubri che la nobile furia borbonica nelle bordate più fulminanti (title-track su tutte), così come i fraseggi funambolici che persistono ampiamente melodici ma capaci di suonare grezzi e tenebrosi (“Dilaceriatio Corporis” è una vera lezione di oscurità in chiave Melodic Black Metal) nonostante l’eleganza, così come l’utilizzo di lunghe e apparentemente infinite scale tonali commutate dalla tradizione neoclassica e orchestrale (quando non direttamente dalla musica medievale come nel Guillame De Machaut eseguito nell’epica sanguinolenta di “Je Vivroie Liement”), sono tutti elementi perno che acquisiscono forma e l’intero spessore di cui dispongono solo con ripetuti ascolti che ne dispiegano tutto il potenziale; non limitato ma sicuramente avvalorato dai malevoli e gustosissimi rallentamenti che paiono oasi in un deserto di ceneri funeree soffiate dalla voce spettrale, urticante, foriera di ululati capaci anche d’irrompere in cori maestosi ma mai pedantemente altisonanti – perfetti per alleggerire un ascolto che, altrimenti, potrebbe risultare troppo carico e pesante, inoltre efficaci nell’aumentare la rilevanza atmosferica; espediente di cui non vi è necessità quando -similmente per risultato a “Messe Des Morts” dal precedente disco- l’enorme varietà grazia un episodio come la conclusiva “L’Hoirie De Mes Ancêstres” che gioca con qualche pattern caro al vicino passato Peste Noire di Ardraos, finendo a flirtare anche con del mefitico Doom prima di un virtuoso assolo da capogiro a sigillare un finale eccelso.

“Hic Regnant Borbonii Manes” è, in conclusione, un album regale capace di rifuggire il formalismo con tiro e impatto deliranti nonostante l’accuratezza e la precisione su cui si costruisce senza compiacimento: calibrato in prelibati dettagli come quelli sotterranei di un riff più storto sepolto nel mix senza saturarlo, a dare tono per contrasto alle scale più vittoriose e lineari, o della gestione delle metriche che diventa più serrata (e più immediata) col passare delle tracce in modo da non appesantire l’esperienza dopo la seconda metà dell’album, o ancora della naturalezza delle transizioni di colore tonale tra il brillante/alto e il cupo/malefico; fatto che, tra gli altri, permette agli oscuramenti di atmosfera di seguire quelli lirici e viceversa.
Un disco quindi estremamente stimolante, probabilmente difficile, ma incredibilmente ripagante e ricco di personalità e tinte che, tra l’aura sacrale, gli evocativi campionamenti sulla stregoneria nel cuore della Francia come trait-d’union fra un brano e l’altro, e un’ottima dose di accorato attaccamento al proprio territorio come stendardo, sono capaci di renderlo unico e persino quintessenziale nel suo genere.

Matteo “Theo” Damiani

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