Spite Extreme Wing – “Vltra” (2008)

Artist: Spite Extreme Wing
Title: Vltra
Label: Avantgarde Music
Year: 2008
Genre: Black Metal
Country: Italia

Tracklist:
1. “I”
2. “II”
3. “III”
4. “IV”
5. “V”
6. “VI”
7. “VII”
8. “VIII”
9. “IX”
10. “X”

Dalle profondità ipogee più nere, nascoste e inafferrabili alla costante e graduale risalita aurea: quella scintilla ardente protesa verso l’alto che sono gli Spite Extreme Wing, tanto nervosamente saettante quanto ammantata di una sacralità dalle sfumature arcane e misteriche, giunge nel 2008 alla conclusione di un’anabasi che è al contempo dichiaratamente percorso artistico e spirituale.
Termine ultimo, ma anche secondo vero capitolo ideato ad unicum d’intenti concettuale e musicale, “Vltra” non è il canto del cigno di una band prossima al disfacimento, ma il manifesto testamentario di un progetto che fin dal suo concepimento volteggia fra le creste instabili di un underground fieramente inaccessibile e dall’impianto dogmatico, e che tuttavia in pochissimi anni convoglia quella tendenza individualistica in rivolta al raggiungimento di una forma ultima e più assoluta: già forti di un “Non Dvcor, Dvco” in pochissimo tempo diventato bandiera da sventolare o condannare per la gioia di chi ‘quis contra nos?’ l’ha reso motto di vita, e donata onorevole release al materiale che in “Kosmokrator” cavalca transitorio fra la preistoria e il futuro del monicker, i genovesi solcano ancora una volta le acque dell’ignoto con la chiglia di un disco che fin dal nome elogia e mitizza quello spirito sempre e comunque proteso in avanti: quella spinta innata e burrascosa di chi vuole andare al di là per mezzi, significato e scoperta; e che oltre andrà, lasciando ancora una volta solchi profondi ed una pesantissima eredità alle sue spalle.

Il logo della band

Che quell’antro sacro ed iniziatico da cui i nostrani Spite Extreme Wing fuoriescono a riveder le stelle, nuovi e abbaglianti nella forma e nello spirito, nel 2008, sia la cavità custodita dai dadofori di Mitra o che, più prosaicamente, possa essere visto negli ormai leggendari studi di registrazione quanto mai sui generis che erano stati Forte Geremia prima e l’innominabile chiesa ligure poi, rispettivamente gli idealizzati e idealizzanti bastioni di Orione dell’estetica argentiana, fa ben poca differenza. Il contesto più concreto ma ben delineante le azioni di un sodalizio di formazioni italiane nella prima decade dei 2000 è da indagarsi nella manifestazione di una Black Metal Invitta Armata in cui i genovesi si ergono a trascinatori, portatori di una lanterna dal bagliore totalizzante che getta luce su un’unità d’intenti a tutto tondo, dalla forte identità concettuale ed estetica intrisa di esoterismo e fascino metastorico: se dal punto di vista meramente discografico il marchio B.M.I.A. si esprime solo in parte, con una manciata di uscite effettive, questo ricopre infatti un ruolo cardine nel mescolamento d’influenze e nella ricerca di un’idea di Black Metal dai tratti finalmente marcatamente italiani che in quegli anni appena precedenti aveva assunto dei lineamenti seppur vaghi comunque condivisi, fungendo da spinta propulsiva, connettore e cardine nei confronti delle azioni parallele e future degli artisti che ne prendono parte.
Il riconoscimento della conterranea Avantgarde Music, in quel momento particolarmente ricettiva e attenta a ricercare quella personalità in musica che andasse aldilà di rigidi canoni cromatici e stilistici, la quale li mette sotto contratto per il loro nuovo full-length è dunque il definitivo consacrarsi ed affermarsi nei confini nazionali -e in una qualche misura anche al di fuori- di quel sound andante a delinearsi fin dalle primissime opere dagli stessi Spite Extreme Wing; in un riffing e un misticismo che già nel riepilogativo “Magnificat” incanta, e che nel 2008 ormai si è evoluto irreversibilmente pur mantenendo tutte le sue peculiarità, esplorandole con pienezza: fra l’ardore guerrigliero del debutto, l’ampiezza mediterranea ma tagliente che dalla Grecia dei Macabre Omen va agli Janvs di “Fvlgvres” e un gusto innato e particolare per la melodia che dialoga con il folklore maligno dei Tronus Abyss di The King Of Angels In The Abyss”; ma al contempo ben oltre tutto questo e proiettati verso un’idea estremamente caratteristica della Nera Fiamma, che ne utilizzi tutti i potentissimi strumenti sia tecnici che espressivi, abbracciando la dinamicità sanguigna e la capacità descrittiva pur perdendone alcune delle accezioni più oscure e nebbiose verso i lidi mitici di una narrazione dal sentore arcadico ma splendente di una vitalità epica e fiammeggiante.

La band

Le frequenze ultraterrene e vibranti dei Tenores di Norax spalancano pertanto le porte al suono caldo ed essenziale che assale e ridesta: i feedback magici, gli echi protagonisti di quella psicofonia suggestiva e fatale di “Non Dvcor, Dvco” e per sempre cristallizzati su disco sono ormai un miraggio del passato; ma rimangono vibranti e sussurrati in quella membrana filologica e archetipale, che dotata di vita propria dona fascino immortale al racconto che in dieci capitoli viene narrato in “Vltra”. Così dall’originalità di un suono graffiato e accidentale si giunge ad un’originarietà senza tempo: le vie intraprese in fase di registrazione sono tanto più consuete quanto ancora una volta fortemente compenetranti quell’eterno viaggio a ritroso per andare avanti, tra vibrazioni avvolgenti, strumentistica d’antan e un suono valvolare che è fra gli elementi più distintivi e caratterizzanti dell’uscita, a rendere gli Elfo Studios scenario davvero non meno incisivo né in qualche modo più nei canoni dello standardizzato.
In un incedere serrato ma sempre ondivago, in cui la dolcezza del sogno viene infranta dalle detonazioni d’obice, si infilzano a vicenda le chitarre che seppur poco ronzanti e molto più tonde in quel suono tipicamente Orange riescono ad aggredire ed inforcare ancora e ancora: ripercorrendo le tracce più battagliere –“VI” su tutte, ma è un sentore che può estendersi all’intero platter– non è difficile immaginare dove l’ispirazione del mai nato progetto che avrebbe dovuto essere autore delle squadrature Thrash/Black arrembanti e trionfali della splendida “Il Tempio Ad Est” sia andata a confluire. Ma nella band madre, già dotata di un suo sfaccettato microcosmo, questa vena può amalgamarsi a tutto quello spettro di sensazioni già maturate, arricchendo di bagliori e dialogando con un approccio che, usando un termine che non a caso sovviene descrivendo una parte della carriera della formazione successivo all’esperienza di Argento negli Ianva di “Disobbedisco!”, può essere definito cantautorale nel più ampio dei sensi: il carattere introspettivo delle liriche sempre e rigorosamente in prima persona, decantate e ringhiate con foga e piglio solenne ma sempre perfettamente distinguibili, dona una narratività che lega indissolubilmente un disco scandito in momenti più che in tracce, e ai quali la formazione accosta una grande sfumatura di registri che si fanno visivi e pittorici ancor prima che sonori o tematici. Così la potenza anthemica di “II” e “V” giganteggia: l’impatto di un testo che si fa canzone e di una canzone che si fa racconto si lega a doppio filo con le trame di cordofoni, elettrici e acustici, che invece di saturare lo spazio sonoro lasciano respirare la composizione intrecciandosi e alternandosi in un gioco di parti dalla grande fluidità progressiva; che spesso ritrova nella semplicità armonica la chiave per condurci sulle ali di Zefiro dai turbolenti cieli di Gorizia fino alle sacre sponde di un tempo perduto, mai dimenticato e sempre conservato nell’inconscio.
Che un adrenalinico minuto e mezzo sia incastonato in mezzo ad una tracklist così coerente potrebbe sulla carta lasciare straniti; ancor più se si è al corrente di come possa trattarsi di una rielaborazione -più che cover– di “Devilock” dei The Misfits. Ma un gruppo che tiene così tanto alla coerenza e alla visione d’insieme da rilasciar fior fior di materiale di qualità a mo’ di compilazione come “Magnificat” o il già citato “Magnificat II” sa come collegare fra loro trame così varie; e chi meglio dell’oggi arcinoto e famigerato Colonnello può sputare con tanto inconfondibile fervore urla di trincea, di vita, morte e rinascita? Un brano efferato che collega persone e orgogli uniti dal filo spinato ancor prima che i Frangar rilascino il loro primo reale e letale colpo di mortaio, e che, a differenza della particolare interpretazione di “Helter Skelter” cantata da Herr Morbid in chiusura, viene posta come passaggio chiave del fluire dell’album.
Le suggestive incursioni di mellotron, di pari passo con un approccio più marcatamente atmosferico, vanno in crescendo lungo lo scorrere dell’opera: in un’evoluzione organica fra degli esperimenti effettuati nell’inserimento de “Il Volo Del Bicorne” nell’uscita precedente, (anche se ai tempi composta dall’ospite Morgan Bellini) e sulle onde di un Poseidone sui cui passi torneranno molti anni dopo, i tasti di Azoth sibilano e ammaliano come folate di vento improvvise nell’arida estate, in un impianto che insieme a percussioni e altri riusciti espedienti collimano in scenari sonori dalla marcata immersività folkloristica.

Un’alba nuova e sconvolgente; il sorgere di un sole indomito, accecante e invitto tratteggiato da Konstantin Yuon segna per il trio la fine di un percorso giunto al suo apice e alla sua naturale conclusione, ma che terminano ben consci dello scossone provocato e della via tracciata.
Spesso ingiustamente eclissato dal gigantesco culto creatosi intorno al primo full-length, “Vltra” scontentò non pochi alla sua uscita, palesando ai più solo l’immediatezza di certe trovate e tenendo celata la sua reale grandezza. Complesso non perché condito di sovrastrutture musicali convolute, ma proprio perché tanto spavaldo nei modi quanto ermetico nel contenuto; in una costruzione per certi versi antitetica al debutto fiero e ardito nello spirito ma passivo dalla contingenza dei rumorosi suoni a cascata e della fiumana di ispirazione istintiva, il conclusivo album abbraccia altresì tutte le caratteristiche che lo possono definire l’epitaffio di una formazione ormai matura e giunta alla fine del suo viaggio iniziatico, che non teme di usare poco per dire tanto e che sfrutta pochi tasti universali e atemporali per fare reale breccia, rivelando poi sottilmente e anche avanguardisticamente tutto il suo vero carico di splendore, talento e arte.
In un Black Metal in cui il concetto d’identità geografica e culturale ancor più che nelle altre declinazioni di Metal ha saputo caratterizzare le composizioni stesse anche nei casi meno ibridati e sperimentali, laddove si vada a scavare nell’archeologia dell’estremo italiano, pur non volendo tacere né dimenticare quella particolare propensione all’occulto e alla sinfonia presenti dai ‘90s, è impossibile negare come sia necessario tracciare con righe nette un prima e un dopo alla voce Spite Extreme Wing. E soprattutto oggi, a quindici anni dalla sua uscita, fra le trame seppur diversissime di Nova, Funera Edo, Progenie Terrestre Pura, degli stessi Frangar pochi anni fa capaci di scrivere un disco esaltante come “Vomini Vincere”, così come di tanti altri, si intravede lampante proprio il profilo di “Vltra”: tassello fondamentale di un’eredità ripudiata da molti ma accolta da alcuni, che come attingendo da un Atanòr ne estrarranno bracieri di ardente luce e pura ispirazione.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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