Nachtmystium – “Assassins: Black Meddle (Part I)” (2008)

Artist: Nachtmystium
Title: Assassins: Black Meddle (Part I)
Label: Candlelight Records
Year: 2008
Genre: Experimental Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “One Of These Nights (Intro)”
2. “Assassins”
3. “Ghosts Of Grace”
4. “Away From The Light”
5. “Your True Enemy”
6. “Code Negative”
7. “Omnivore”
8. “Seasick (Part 1: Drowned At Dusk)”
9. “Seasick (Part 2: Oceanborne)”
10. “Seasick (Part 3: Silent Sunrise)”

Che il postulato per cui nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma -la cui paternità è eloquentemente condivisa tra ere e sfere distanti ma collimanti tra Lucrezio, Lavoisier, Newton e tanti altri illustri pensatori- possa per gran parte applicarsi al mondo del Metal, persino quando la sua accezione più estrema tende fin dalla sua definizione letterale a guardare al di là, è un qualcosa in larga misura vero e manifesto benché non sempre compreso o accettato. Naturalmente, l’arte con la iniziale maiuscola va sempre in qualche modo oltre quei singoli fattori che l’hanno causata e stimolata, ed è questa una delle ragioni chiave per cui su queste pagine fin dal principio si è dato tanto lustro a chi vi era all’inizio di tutto questo, quanto ai contemporanei capaci di scuotere emozioni e pensieri altrettanto vividi: una linea del tempo dai molteplici nodi e dai più confusi avvolgimenti, in un solve et coagula tanto pregno di magia quanto invito esplicito alla conoscenza e alla ricerca, dove partire da una totale tabula rasa concettuale possa essere un qualcosa a cui eventualmente ambire ma quasi impossibile da realizzare appieno.
E tuttavia in un panorama che forse altri decenni si arrovellerà sulle dichiarazioni di Quorthon, domandandosi quando, come e se conoscesse veramente i Venom prima di un disco o dell’altro, e che non vuole probabilmente rendersi conto che una conferma oltre ad essere scontata è anche totalmente superflua, l’influenza diretta viene spesso nascosta, celata avidamente come il trucco di un colpevole prestigiatore che sognava in verità di esser stregone; e dichiarata esplicitamente solo e soltanto da chi piantato sulle proprie gambe sa di poter dire la propria a dispetto di tutto. Blake Judd nel 2008 si fa quindi beffa nel più menefreghista dei modi di tutto ciò, così come di tutte le aspettative che si erano create intorno al nome Nachtmystium da qualche anno a quella parte: al contempo compone un titolo che oltre ad essere un brillante gioco di parole è un’esplicita dichiarazione d’amore nei confronti della musica, una lucidissima presa di coscienza del proprio background personale e artistico, e un luminosissimo braciere da inseguire per abbattere tutte quelle sovrastrutture dogmatiche in cui spesso -anche involontariamente- ci si limita castrando la creatività più pura; un processo più intimo e peculiare che porterà alla fase più sperimentale e fuori dagli schemi di tutta la discografia della formazione americana.

Il logo della band

In anni in cui l’identità del Black Metal made in U.S.A. non è strutturalmente definita se non in un’ampia visione retrospettiva, “Instinct: Decay”, pur dimostrando una personalità ingombrante e già lanciata in corrosive svirgolate acide, si incastra a metà fra due mondi in continuo dialogo nel periodo post-2000: da un lato quella tradizione a stelle e strisce che dalla Norvegia prende e in qualche modo filtra il suono ruvido e l’immaginario estetico oltranzista, dai Grand Belial’s Key ai Leviathan; dall’altro una tendenza all’ipnotismo torrenziale, che in un’ossessività alienante resa spuria dal locale retroterra Post Metal potesse dare vita a quegli sfaccettati paesaggi ultraterreni concretizzatesi dapprima in “Dead As Dreams” e definitivamente formatisi fra le nebbie di “Diadem Of 12 Stars”. Una manciata di uscite che porta sulle spalle un’identità nazionale ancora traballante ma desiderosa di nuove uscite che ne imbraccino il baluardo: non stupisce come siano Century Media Records e Candlelight a vedere proprio nei Nachtmystium al terzo disco una band sul trampolino di un successo annunciato, completamente all’oscuro delle scelte in controtendenza di un gruppo d’individui tanto consci dei propri mezzi artistici quanto totalmente imprevedibili.
Delle sfumature convolute e circolari del ben più celebre ed antecedente “Meddle” i cui autori possono essere visti, non completamente a torto, dall’altro capo dello spettro rispetto alla Nera Fiamma, è la capacità atmosferica così come la tendenza alla costruzione dei soundscape sfaccettati e drammatici a fare da collante fra i due universi (motivo per cui non stupisce siano fra le tante band avulse dal panorama estremo che di tanto in tanto escono fuori dal name-dropping di influenze di un certo Øystein Aarseth) e ad affascinare su più fronti un Judd che dichiaratamente desidera distruggere -assassinare, più aderentemente- tutti i preconcetti che spesso inconsciamente imbrigliano lui e il moniker all’interno di uno schema: una libertà espressiva che trova come primo esempio da seguire quell’astrazione lisergica in cui i Pink Floyd sono solo uno dei tanti e diversissimi tasselli inseriti nel caleidoscopio della formazione dell’Illinois, dove la tendenza all’ariosità Space Rock e alla psichedelia s’interseca indissolubilmente con il nichilismo autodistruttivo di un contesto, quello degli statunitensi, da sempre formatosi in partiture ricche di vibrazioni malsane, rassegnazione e malinconia che inevitabilmente vanno a prendere il posto e in qualche modo distorcere grottescamente la tanto caratteristica spensieratezza settantiana, imbevendola di tinte tragiche.

La band

Perché infatti “Assassins” è tutto fuorché nostalgia, leggerezza o forzato ammorbidimento: lo sperimentalismo avviene spontaneamente come libertà ritrovata e la riformulazione del Black Metal di casa avviene senza forzature; tanto che, una volta circoscritta la spuria spinta propulsiva residua di “Instinct: Decay” nell’EP valvola di sfogo “Worldfall”, gli istinti più efferati non vengono soffocati o diluiti, ma si inseriscono in una radicale riformulazione in termini e modi. È dunque per mezzo di un riffing che fra possessione, perdizione e ruvidità trasvola eoni ed oceani seguendo un percorso travagliato che dai Led Zeppelin passa dai Black Sabbath per arrivare ai Celtic Frost pur suonando sorprendentemente moderno e attuale, che si spalancano nuovi tipi di percezioni, nuove porte che i Nachtmystium possono varcare e nuove sensazioni che possono tracciare: certo quello che tocca il padiglione auricolare fin dalla nichilistica e profetica introduzione “One Of These Nights” è meno distorto di quel suono completamente sprovvisto di medi a cui gli statunitensi ci avevano abituato, ma non per questo meno frontale così come l’attacco serrato della title-track ben dimostra, e al contrario dotato di un più ampio e dinamico spettro di vibrazioni che lo rendono atto a convogliare l’inedita fluidità psichedelica in cui tutto può entrare, diluirsi, sciogliersi e fuoriuscire rinnovato in spirali della forma più cangiante.
Ma sebbene le scelte prime e umane del frontman siano per ovvie ragioni causa principe della nuova direzione del progetto, il risultato finale è la conseguenza di un’interconnessione di menti gettate negli Engine e nei Volume Studios di Chicago, che concorrono a tramutare in realtà quell’ideale di condensazione e trasformazione, in una formula a collettivo che sebbene si ripeterà dichiaratamente nel secondo gemello concettuale (e -in misura minore- nei successivi due full-length del progetto) è in questo caso una novità che viene sfruttata in maniera quanto mai preponderante e influente, in cui il grande dialogo compositivo e la formidabile sintonia jammistica generano tracce che sebbene conservino la coerenza di brani accuratamente ideati nel loro profondo sono in grado di accogliere dettagli e sezioni estemporanee frutto dell’estro immediato dei singoli: gli svaghi Progressive come quelli di una “Code Negative” così complessa, espressiva e stimolante nei suoi solismi ampi che arrivati al fondo portano a chiedersi se davvero si sia trattata “solamente” di una traccia strumentale; il batterismo liquido di un Tony Laureano che tra apparente semplicità e grandissimo gusto sembra rincorrersi con gli altri strumenti, in una continua sensazione d’improvvisazione che incalza e sospende; l’effettistica così variegata ed epidermica, a tratti solivagante nel formare un letto dagli sfrigolamenti ambientali e in certi punti invece variabile impazzita tra modulati gorgheggi di theremin.
E quasi paradossalmente, in tanto estro è proprio in questo capitolo che prende vita con forza quella vena catchy che caratterizza e segna alcuni passaggi chiave dell’opera (come la memorabile e canzonatissima “Ghosts Of Grace”), e che traccia i solchi dei futuri passi della formazione, fra un secondo Black Meddle che gioca su ritmiche Post-Punk dalla grande presa o quel sentore di belligeranza animosa che in “Silencing Machine” dona spirito agli incastri industriali; ma che in “Assassins” è appunto tanto racchiusa in episodi quanto fondamentale per allacciare e fare da membrana connettiva ai mille contrasti emozionali o sensoriali di un disco che è dilaniante inno masochistico abbracciante le ammalianti e confuse luci dell’illusione così come le scure ombre della consapevolezza. Questo è l’eterogeneo scenario in cui si esplica quell’eterna tensione che caratterizza il progetto, vissuta con la discontinuità di un pendolo che oscilla fra l’arrogante euforia e la più cupa depressione, e che fa in modo che distorsione fuzz e i sintetizzatori gracchianti possano convivere con quel rigurgito di sconforto che è “Omnivore”, gemma di efferatezza labirintica e asfissiante che ci fa notare come gli abissi di Deathspell Omega e Katharsis siano, quasi per assurdo, appena dietro l’angolo.
Il viaggio non può che concludersi sulle note dello splendido trittico “Seasick”, lunga coda e cugina malsana dell’altrettanto paesaggistica e rinomata “Echoes”: i feedback altalenanti tra riverberi di liquidità sonora e scorci urbani à la Bohren & Der Club Of Gore, così come gli arpeggi ad incastro figli della semplicità armonica dalla lancinante potenza espressiva dei migliori Metallica, sono il contesto in cui irrompono le inaspettate ma tanto contestualizzate linee del sassofono dell’anche produttore Sanford Parker, in una devastazione emozionale che è apice e degna conclusione di un percorso che lascia stupiti e travolge dalla prima all’ultima nota.

Ma se lo scorrere degli anni non è stato di certo generoso con i Nachtmystium, da sempre corda tesa che arde ai due capi, lo è invece stato con “Assassins”, così come d’altronde per la coppia Black Meddle: ancora così freschi e unici nel loro genere a quindici anni di distanza dal loro concepimento da rifuggire qualsiasi paragone diretto nel Metal estremo, tanto che per trovare qualcosa che si avvicini a quell’idea che Judd partorisce nel 2008 si debba ricorrere a paralleli acrobatici rivolgendosi ai grandemente posteriori scenari cittadini e jazzistici dei White Ward, alle strutture avvolgenti degli Entropia o alle sfumature plumbee e oniriche di “Black Medium Current”.
In progressione discontinua e incendiaria fra illuminante visione artistica e spirito negletto, la realtà psicotropa ma morente rappresentata graficamente da Valnoir è un qualcosa che gioca con spazio e tempo; che sfrutta il passato come cifra autoriale nello spirito di uno sperimentalismo che solo idealmente è rétro, ma che ricerca con decisione una nuova ragion d’essere all’interno del Black Metal del terzo millennio: un ideale ambizioso, tacciato di citazionismo da chi non aveva orecchie per sentire e venerato da chi ne ha afferrato da subito la reale portata, ma uno che mai e poi mai degenera nel divertissement avanguardistico. Perché nonostante a volte loro stessi vogliano farci credere di agire for art’s sake, ogni capitolo dei Nachtmystium e forse più che mai “Assassins: Black Meddle (Part I)” ha la potenza distruttrice di tutte quelle cose indissolubilmente e morbosamente legate a dolori e passioni vissuti con un’intensità fuori dal comune e dalla media portata del concepibile, tipiche di chi in mezzo al vuoto e alla desolazione del quotidiano conficca uno spillo, periscopio rivelatore per osservare perturbazioni, vortici e caos che si nascondono oltre il velo grigio dell’esistenza.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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