Frangar – “Vomini Vincere” (2020)

Artist: Frangar
Title: Vomini Vincere
Label: Darker Than Black Records
Year: 2020
Genre: Black Metal
Country: Italia

Tracklist:
1. “Se Non Ci Conoscete (Intro)”
2. “Sangue Fede”
3. “Memento”
4. “Tempo Di Uomini”
5. “Trenta Mesi”
6. “Io”
7. “Varcare”

Al grido disperato ma superbo di un solo uomo torna a ruggire la macchina da guerra Frangar, probabile ultimo vessillo spirituale e pratico dell’estetica e del successo Black Metal Invitta Armata, sferragliante e micidiale vettura di morte pronta a scattare a nervi tesi, in moto perpetuo, nell’etica dell’avanti ed inderogabilmente protesa verso un unico obiettivo; un patto rinnovato sia in ranghi che condotta in direzione dell’unica meta che, nella sfavillante visione di quella che fuoriesce dalle casse come una milizia dalla forza di legioni ma dall’unità d’un solo individuo ethos-centrico, resta l’unica fede, e finanche la possibile metafora del fragile bilico tra il più squisito sacrificio d’integrità ed eroismo o la più cieca stupidità mancante di riflessione. La causa a cui insomma poter consacrare il proprio operato e la propria vita nella sua interezza: il trionfo – tanto che il mezzo, sia dunque quest’ultimo ottenuto nell’altezza della vittoria o tramite la morte per arrivarvi, diviene fatto di assoluta irrilevanza.

Il logo della band

L’impresa Frangar in “Vomini Vincere” va quindi non sorprendentemente a riprendere il carattere di marcia dinamica in accenti e sfumature che fu asso del così longevo successo del secondo capitolo discografico, “Bulloni Granate Bastoni” del 2011, senza tuttavia rinnegare l’esperienza dell’alba di fuoco che aveva reso particolarmente compatto e volitivo (ma, con ciò, anche eccessivamente statico) un episodio come il penultimo “Trincerocrazia”; il brullo campo di battaglia si tinge nuovamente di rosso e torna ad essere forgia di eroi e di una composizione ancor più complessa e ricercata, in cui le storie di uomini e soldati, militi caduti e semidei senza nome, vengono ora trattate ed affrontate con un taglio maggiormente intimo, al digrignar di denti e con l’agrodolce retorica di sacrificio, nostalgia e della mancanza di un ritorno, struggimento per lo sfuggire del tempo nell’atto di crescere (“Memento”), e persino mediante amare riflessioni esistenziali (come nel frangente della conclusiva “Varcare”, a dir poco imprevista per straziante commozione). L’indagine storica, che è per ammissione una visione parziale tanto diacronicamente quanto socialmente, senza filtri, veli né ombra di dubbio, si fa pertanto gustosa parafrasi e mai glorificazione sterile; i parallelismi, i richiami e i rimandi, pur nella loro totale evidenza, diventano qui metafore di valore universale supportate dalla felice, aderente e mai posticcia inclusione di campionamenti d’archivio, di canti di guerra in tempi di pace e di patriottismo, che contribuiscono al carattere esaltato e trascinante, realistico, coinvolgente ed enfatico senza scadere nell’escamotage del fictional, dello spendersi del disco in tutti e sei i suoi proiettili mortali e rispettive madrigali di ode alla fatidica giovinezza e all’intrepido ardire.

La band

Non si registrano cali né sconfitta ove vi siano sentimento e dedizione: i Frangar di “Vomini Vincere” lo dimostrano con la forza e la sfrontatezza degli sterminatori di eserciti, tramite il carattere divino del suono frastagliato, rumoroso, radiante ed estremamente metallico di chitarre violente ed arrugginite nel restituire micidiali frequenze a seghetto che vanno a braccetto con la poetica reazionaria e d’assalto fragoroso dell’intero album (lodevole l’engineering, che le ha rese perfette e sinergiche col rombo di basso nell’interpretare il folgorante movimento futurista tramite la slegatura delle pennate ritmiche tra loro), questa cantata con indicibile attaccamento ed una performance mai così aspra, sofferta, abrasiva, impavida e bruta del Colonnello che sciorina versi carichi di morte come fossero bombe a mano, pioventi a grappoli sulla musica con la naturalezza di urla che possiedono (e trasmettono) tutto il carattere d’urgenza della guerra in trincea, travolte nell’immensità del terrore e dall’estasi nella violenza e nel metallo a fiotti.
E se l’introduzione, più che un manifesto marziale avvolto nel filo spinato, suona come una spavalda provocazione da strada in intenti o una strafottente istigazione casinista da hooligan macchiata di precisa estetica storica, fin dall’inizio di “Sangue Fede” zampilla invece chiara e forte la rotondità di un dramma, un’intensità ed una totale serietà che, pur sempre condita da momenti dal traino scanzonato che gioca sul carattere fortemente Black ‘N’ Roll ormai proprio della band e intriso tanto di Motörhead quanto di semplicità Hardcore o ritmi Punk (l’up-tempo incendiario di “Tempo Di Uomini” su tutti; singolo mancato che tuttavia non avrebbe espresso al meglio le enormi qualità di scrittura degli altri e più complessi brani), raramente era stata restituita con un grado di ultraviolenza simile (si ascolti a tal proposito la tirata finale di “Memento”, tra ritmiche ardenti e lo strillare di sirene). Ogni elemento, dalle urla strazianti di “Varcare” (nella sua elaborazione uno dei brani più belli mai scritti dai Frangar) ai cori sguaiati di “Trenta Mesi”, dalle tempeste in tremolo dissonanti e deraglianti di ferro e fuoco alle lacrime versate a più riprese e per più motivi, trasuda in “Vomini Vincere” dell’amore per un mondo gridato da una sola voce, un’unica volontà e una sola scelta nel dipingere secoli d’immortalità e gloria eterna indietro ed innanzi; tutto risuona all’unisono intonato, tuonante ed immediatamente ispiratissimo nonostante i Frangar non avessero mai (fatta esclusione per alcuni episodi di “Bulloni Granate Bastoni”) raggiunto in precedenza un simile risultato in cristallina espressività ed ambizione in songwriting o in complessità di pezzi – ma lo sguardo all’individualità gettato fin dal titolo della nietzscheana “Io”, a glorificare in sprezzanti venature Spite Extreme Wing Marte, morte, polvere riarsa e sangue incrostato, svela una propensione che anche altrove non è di certo più nascosta tra le righe: i proiettili di superomismo, machismo e testosterone a volo d’aquila sulla trincea primordiale cedono alteri il passo all’amarezza, al dolore, al rallentamento dei ritmi e a quello dei battiti di un cuore traboccante di domande eppure giunto al capolinea, al respiro che si rarefa e al quesito introspettivo che chiude l’album nel gelo, nella neve insanguinata, nel freddo sporcato di fango sulla vetta e nell’abbandono al sacrificio ultimo, con la certezza ormai angosciante che alcun ritorno materiale possa più attendere qualche doloroso e claudicante passo più avanti.

“Ma cosa sono io?”

Quello dei Frangar, scheggia impazzita che deflagra da un Black Metal bellicoso ed ingiallito, è dunque un modo come altri -ma in evidenza efficace e personale come pochissimi altri- per far vivere all’ascoltatore vicende storiche che, parafrasando un’idea à la Mario Olivieri, sono sempre ed irrimediabilmente filtrate dal giudizio personale (sarebbe, altresì, un insensato processo di oggettivazione ed inaridimento dello spirito) dunque parziali in natura, in programmatismo, nell’inevitabile incompletezza e nell’inumana amoralità. Tra la variegatura di concetti e tensioni, di pretese e remissioni nei confronti delle multiple (e si sottolinei il sostantivato multiple) identità nazionali, la musica e lo storytelling di carattere compilativo portano in profondità ad interrogarsi sulla superficialità vacua di una storia prefabbricata, montata su ideologie postume che cancellino l’intimo di dolori e sofferenze private, singole e senza voce, sovrascrivendole con pattern inevitabilmente maceri di abusi e di vittorie quanto di sconfitte: ma entrambe fatte di uomini. Ne consegue sia fortunatamente inarrivabile una vera storia che abbia la dittatura dell’imparzialità come lanternino, e che bensì proprio per amor di riflessione sia finanche auspicabile ciò che si verifica altrimenti: diverse storie -o diversi tentativi di tratteggiare storie e fare storia- che nelle loro democratiche realizzazioni e nelle scelte stesse del narratore propendano per dare arbitrariamente voce ora ad un territorio, ora ad una classe sociale, ora al vincitore negli occhi del perdente, od ora all’innominato negli occhi del vittorioso.
Ma tra i soprusi, nella naturale debolezza di una frammentazione intangibile, non è forse sempre per mancanza di più solide basi che l’identità cerca legittimazione nel sangue? O è magari la memoria ad essere pur sempre flebile ed ingannatrice qualora minata dal punto di vista? Qualunque sia il caso, in un paradossale sguardo all’indiano Salman Rushdie, l’inafferrabile esattezza non è cruciale quanto la mera scelta narrativa – e quel che ne resta è dunque l’assoluta bontà, quand’anche sia solo musicale, di un lavoro come “Vomini Vincere”; per la passione e la motivazione di cui è infuso, per l’estrema sincerità ed urgenza di natura personale nelle preferenze con cui è mediante fervore volutamente narrato, a cui è consacrato ed ispirato, e per il carico di sentimento che trabocca smaccatamente universale, ben privo di colore politico o decisionale, da ogni scelta e nota. Quella scelta, quella lettura, quell’ennesimo punto di vista che, limitata sovrastruttura, genera tante possibili risposte quanti interrogativi, ma in questo caso anche ottima musica ed un risultato di unicità in un imperativo soltanto: in vita come in morte, ove non esiste metaforica fuga non può esistere vera disfatta.

“Frangar non è un gruppo di uomini, ma è un’idea che vive nel cuore degli uomini e li guida verso la vittoria.”

Matteo “Theo” Damiani

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