Misþyrming – “Algleymi” (2019)

Artist: Misþyrming
Title: Algleymi
Label: Norma Evangelium Diaboli
Year: 2019
Genre: Black Metal
Country: Islanda

Tracklist:
1. “Orgia”
2. “Með Svipur Á Lofti”
3. “Ísland, Steingelda Krummaskuð”
4. “Hælið”
5. “Og Er Haustið Líður Undir Lok”
6. “Allt Sem Eitt Sinn Blómstraði”
7. “Alsæla”
8. “Algleymi”

Spesso le premesse ingannano. Spesso le promesse non vengono mantenute. Più rumorosa la segnalazione di virtù, più solitamente vicina la disillusione.
Non che i Misþyrming, calice traboccante linfa artistica saldo nella mano sinistra, sguardo tronfio gettato a picco dall’alto di una montagna non troppo dissimile a quella consacrata a Gunnvör in un fiero tripudio di arroganza che è quasi figura di Bjarturiana memoria nel celebre “Gente Indipendente” (“Sjálfstætt Fólk”) del titanico Laxness, parafrasi visiva di un concept dal carattere ben più astratto (non per questo disciolto o così dissimile) quale quello riversato in “Algleymi”, sembrino apparentemente curarsi di simili -certamente mondane- facezie di pura astrazione personale; eppure, quel che il secondogenito nella linea compositiva dell’attuale quartetto di Reykjavík propone (musicalmente) finisce in effetti per mescolare in modo deciso le carte in tavola rispetto alla ferinità con cui si era fatto conoscere in “Söngvar Elds Og Óreiðu”, nonché per riflettere (liricamente) in un meccanismo di squisita epica introspettiva proprio sugli infidi processi di sconfitta insita nel genoma attitudinale umano che si sdoppia in orgogliosi, individualistici slanci di superomismo in contrasto alla stupidità del gregge e dei suoi riti d’affiliazione e di escapismo, e la dolorosa caduta di entrambe le fazioni nella piena realizzazione della fallacità del proprio regno di carta improvvisamente dato alle fiamme; cornucopia di morte, arbusti ed infertilità senza resa.

Il logo della band

Il carattere epifanico della sovrastruttura estetica, più che quello profondamente o intimamente filosofico, è sicuramente il nesso che porta i Misþyrming tra le braccia di Norma Evangelium Diaboli. Il trionfo di lava e oscurità fibrillante che fu poi la promessa vergata su magma non ancora solidificato dal debutto, la muscolarità opprimente ed eclettica del capitolo “Hof” (aperto ed immediatamente richiuso) premessa a sgretolare una direzione per intraprenderne un’altra; tutto da rifare – “Algleymi” non riprende in ultima analisi nessun discorso, qualora non si tratti di una mera -fisiologica- propensione deontologica tra il savoir e il devoir faire, bensì ne apre di nuovi in modo quasi sistematico, certamente meditato (del resto, la genesi dell’opera, scritta immediatamente dopo la pubblicazione del debutto e completamente riregistrata in diverse sessioni nei quattro anni successivi per via di sfortunate irrealizzazioni tecniche, dona più di una chiave di comprensione), cionondimeno fluido e -complice proprio la così attenta realizzazione devota alla completa consegna dell’intento originale il più possibile immacolato- decisamente più coeso delle sostanziali diversità tra brano ed altro brano che erano ravvisabili nel primo parto del gruppo.

La band

Premesse ingannate e promesse tradite; questa è dunque l’avvisaglia stilistica a sua volta fallace, poi in verità ribaltata dalla stessa band con la grazia crudele di fruste alte a vibrare e schioccare nell’aria. È quasi una prova di forza quella tra i Misþyrming e coloro li seguano dal debutto, un match impari che i primi sono (come sempre accade) destinati a vincere qualunque sia l’esito singolare; ma sono l’intraprendenza e la prontezza nel non rivelarsi effettivi schiavi di una formula di successo, o della relativa canonizzazione di un filone locale dalle fattezze più malsane di cui hanno fatto parte dal primo giorno, ad essere lampanti e a dimostrare l’assoluta concentrazione sulla propria arte, nonché la totale inefficacia (voglia questa essere quantitativa o qualitativa) di raffronto con il primo disco come ultima chiave di lettura.
Le strutture melodiche di precedente, solforosa dissonanza proteiforme vengono convogliate in un approccio di purificazione più diretta e spesso fulminea che, intriso di sangue, oltre a non mascherare quasi mai totalmente la sibillina anima Rock -rullante come guida- sbucante a capolino tra la maggiore atonalità di un riff e l’altro, fa guadagnare al gruppo sia in immediatezza d’ascolto che in profondità d’intenti. L’apparente paradosso si spiega anche, ma non solo, tramite l’uso generalmente corale e delicato delle tastiere (in realtà fredde e prorompenti ad esempio in “Orgia” che ne impiega addirittura algidi sostegni e fattezze dall’estetica industriale tedesca) e dell’integrazione maggiore delle svirgolate Dark Ambient, con l’eccezione del cadenzato ma disturbante rito di passaggio “Hælið” (episodio separante le due parti del disco rispettivamente dedicate all’osservazione dell’individuo dal particolare al generale e poi, viceversa, dal generale al particolare), ora splendidamente integrate all’interno dei brani (l’elegante coda della sinistra frustata “Með Svipur Á Lofti” a scivolare nella concretezza dell’attacco di “Ísland, Steingelda Krummaskuð” per valorizzarlo al meglio).
La crescita compositiva e melodica è invidiabile, messa in bella mostra con tre quarti d’ora abbondanti di musica fresca che scorre coinvolgente, priva di sbavature, momenti di stanca, ripetizioni o abbagli che non prevedano il carattere della longevità: il merito finale è senza dubbio della pregevole variegatura che i quattro regalano in ogni brano, dal più breve e semplice al più lungo e stratificato di deviati arrangiamenti chitarristici a dischiudere un talento non comune per la loro concezione. Si passa in questo modo dal puro testosterone in musica di “Ísland, Steingelda Krummaskuð” (regale lo sviluppo strutturale del pezzo, dal mid-tempo più coinvolgente e granitico mai realizzato dal gruppo, figlio dell’indurimento strenuo di un certo Hard Rock settantiano filtrato in esperienza pounding à la epic Bathory, fino all’esplosione finale coerente col nichilistico testo) e dalle inedite, quasi stranianti aperture melodiche della canzonatissima “Og Er Haustið Líður Undir Lok” (oltre alle caratteristiche Rock dell’impiego chitarra-basso-batteria in minore, di memoria Vreid/Tribulation, e al cantato più monodico, sono proprio le sei corde a regalare momenti a cavallo tra la melodia Folk e accordi maggiormente tipici del Post Rock più concreto), fino alla più totale carica frontale della coppia composta da “Orgia” e “Með Svipur Á Lofti” posta ad aprire il disco: spettrale e maestosamente vittoriosa al contempo, dirompente, irruente, travolgente come un fiume in piena, magistralmente amalgamata in sé per una riuscita adrenalinica, dai toni esplosivi ed epici totalmente inediti nell’operato della band. Anche in simili momenti i riff rimangono per lo più sghembi, caustici e di enorme interesse nell’intessere accordi di grande inusualità, sparpagliando irregolarmente note senza sosta sulle rincorse di batteria e nelle interruzioni ritmiche evitando di andare a saturare eccessivamente il mix, bensì (complice l’uso disgregato e sporco del chitarrismo ritmico) mantenendo costantemente corposa e appassionante la fattura del muro del suono. L’uso della melodia non fa infatti mai sfociare i Misþyrming in territori dagli affusolati stilemi strettamente Melodic Black (se non nelle scelte di suoni, pedale boss HM2 in sala di comando), al contrario serve a donare maggiore spessore ed enfasi all’impatto, alla pacca grezza e ai climax su cui costruiscono le canzoni; a tal proposito inevitabile è segnalare l’estrema compattezza delle prestazioni strumentali correlate tra loro – i quattro musicisti hanno raggiunto un livello di amalgama compositivo tale da riuscire a suonare perfettamente orchestrali nonostante ogni singola performance sia ricchissima d’interesse anche qualora analizzata singolarmente. Al netto di un approccio sicuramente riff-centrico della proposta, che valorizza le due BC Rich del gruppo qualunque cosa facciano, colpisce ad esempio l’utilizzo della voce da parte di D.G.: uno screaming grattato e caustico lontano dagli sbalzi d’umore repentini del debutto ma che, dopo diversi ascolti, finisce per rappresentare un punto di forza del disco proprio per via dell’incisività che riesce a donare ad ogni momento di ogni brano con variazioni tecnicamente minime ma dall’evidente sentimento e coinvolgimento.
I Misþyrming si rifanno invece seriamente apocalittici e dediti al culto della velocità più sostenuta (se possibile con ancor più gusto) nella tripletta finale, a partire dal pezzo da novanta “Allt Sem Eitt Sinn Blómstraði” (il più cupo e storto del disco, incarnazione mefistofelica di una nota “Söngur Heiftar”) e ancora più maestosi grazie ai contrasti di chiusure e aperture nelle speculari “Alsæla” e “Algleymi”: la prima un vortice di emozioni nerissime, ritmi impazziti e perizia tecnica nascosta, la seconda un contraltare di trionfanti aperture decisamente più melodiche e ariose ma non meno aggressive, mentre la terza un finale in esplosioni e crolli di assoluto malumore, disperata rivelazione ed ipnoticità concentrica d’eccellenza; encomiabile abbandono alle nere braccia dell’estasi ormai prossima al suo culmine.

In “Algleymi” i Misþyrming raggiungono quindi un notevole livello di maturità nell’impiego dei mezzi e nella conoscenza dei propri strumenti (nonché delle loro personali inclinazioni), realizzando un disco ricolmo d’ispirazione, estremamente sorprendente per i riusciti cambiamenti e persino curato (la doppia fase di registrazione e la produzione affidata agli Orgone di Arellano fanno senz’altro sentire i loro frutti) senza però andare a scapito dell’impatto e dell’irruenza che la loro proposta prevede, al contrario innalzandola proprio con l’ingegno ad un livello di originalità e ricerca a loro in precedenza inedito.
Non sorprende, pertanto, che con un simile secondo disco il gruppo si affermi sempre più saldamente in testa, di stacco per inventiva e stile, ai nomi dell’altresì competitiva Islanda nel suo genere. È nonostante lo scarto dalle premesse, e forse proprio grazie ad esso, che i Misþyrming mantengono così l’unica promessa che la dignità artistica imponga loro di mantenere; e s’è innegabile che la caduta a questo mondo sia invero inevitabile, parimenti qualora si ricerchi la felicità più appariscente o l’oblio più distaccato, i quattro cavalieri dell’Apocalisse islandese, non senza metaforica riflessione sociale e sdegno nel cuore, hanno mutato le pelli pur rimanendo fedeli all’unica entità a cui valga la pena di giurare fedeltà: loro stessi.

Matteo “Theo” Damiani

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