Shining – “XI: Shining” (2023)

Artist: Shining
Title: XI: Shining
Label: Napalm Records
Year: 2023
Genre: Depressive Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Avsändare Okänd”
2. “Snart Är Dom Alla Borta”
3. “Allt För Döden”
4. “Fidelis Ad Mortem”
5. “Åttahundratjugo”
6. “Den Permanenta Sömnen Kallar”

Forse è vero che, un giorno o l’altro, arriva necessariamente ed inevitabilmente un momento in cui, anche qualora controvoglia, tutti si cresce. Probabilmente è dunque inappuntabile che, presto o tardi, debba infatti giungere quel preciso momento in cui, magari pure senza accorgersene, si mette da parte la maschera del teatrante scafato dalla perdita dell’innocenza precoce e si arrivi a quella maturità che, non dimentica di tutte le contraddizioni che hanno segnato in maniera indelebile il soggetto (le quali, si badi, lo accompagneranno fedeli per sempre perché in fondo non di apostasia si parla), lasci finalmente intravedere l’uomo oltre al ragazzo prodigio il quale, con la sua paura di vivere ch’è pura e artistica perla dentro l’ostrica, ha prima o dopo affascinato, oppure incuriosito, e al minimo fatto parlare di sé il mondo intero.
Nella sua fiera incoerenza, nella patologica vena di bugiardo cronico habitué del circolare, caldo riflettore principale sul palcoscenico, Niklas Kvarforth finisce del resto sempre per essere oppositore di sé stesso ancor prima che del resto del globo tanto disprezzato a parole – un’ombra maledetta bonché non per questo motivo insincera, che tuttavia rimane appannaggio lontano di un malcelato desiderio di comunicazione e mai di cesura che significherebbe, al contrario, una chiusura verso l’esterno che l’atto creativo (un’esternazione in termini, per sé) non può molto semplicemente permettersi.

Il logo della band

Ancora una volta il paradosso – quello che, lo si conceda, vive e prospera alla base prima ed ultima di questo da sempre controverso, sentitissimo eppure spesso plastico filone di musica estrema in tutto e per tutto: in chiara visione, in apparenza scenica, in immagini così forti, disturbanti e violente veicolate nel migliore, più spaventoso oppure risibile dei modi a seconda dei casi. Il controsenso, l’incongruenza tra il dire e il fare che ha regalato al mondo una creatura tanto affascinante e fragile come il Depressive potrà aver forse smesso di far riflettere, di colpire, bollato a fenomeno accettato da parecchio tempo con tutto il suo eccesso di sangue venuto a stuccare, di morte bramata e di fine autoinflitta come ultimo baluardo ed ultima luce alla fine del proverbiale tunnel; eppure, già nel 2012, l’istrionico padre padrone degli Shining ci sussurrava divenuto grande (non a caso con i suoi primi tra i più coraggiosi slanci in voce pulita così tanto zuccherina e tanto cantautoriale) che v’è una oscurità più nera di qualunque altra cosa: un’oscurità, un’ombra senza la quale non esiste luce alla fine del cunicolo in cui strisciamo come ratti e che chiamiamo vita.
Tornati, con un balzo di tre dischi, in avanti di undici anni come da copione mai battuto, si ripete tutto il contrario di tutto: di nuovo, per la seconda volta, un disco che è ufficialmente sprovvisto di numerale davanti al suo più che mai significativo, ridefinente (e, va da sé, per forza di cose estremamente ingannevole) titolo. Un album omonimo giunti al numero undici: quella che, storicamente, vorrebbe essere una dichiarazione d’intenti secondo la quale, tuttavia, non esiste alcun intento programmatico se non quello di esprimere il male di dentro; quello così tante volte bollato dal mondo di fuori quale finto e calcolato, posato e ricreato, senza che tuttavia vi fosse un briciolo di fondamento soltanto nell’asserzione e nella vuota critica personale ad un connubio di musica, artista ed individuo che -più che mai- resta quasi impossibile da slegare in parti.

Niklas Kvarforth

Si conceda allora il beneficio del dubbio a fronte di una discografia che definire solida nel suo camaleontismo è usare una vera e propria eufemistica riduzione, una indelicatezza deliberata che non tiene colpevolmente conto dell’inventiva e della stagionatura estremamente calibrata persino nel suo eccesso formale avvenuta di lavoro in lavoro. Le ripetizioni di un paradigma stilistico fatto di così tanti dettagli e tropi ormai calcificati non dovrebbe in fondo ingannare l’orecchio diligente che sa quanto questi siano soltanto le prime tre lettere dell’alfabeto Shining composto quantomeno da altre ventitré; un metaforico dito che indica da un lato mentre altre tre dita della medesima mano puntano nella direzione opposta.
La piena maestria della mente avventurosa del sedicente han som hatar människan, la totale, vecchia e cara miseria che tanto ha tolto all’uomo quanto regalato al musicista sembra infatti nascondere sotto all’ennesimo dichiarato figlio correttivo di “Halmstad” l’ennesimo differente disco che tradisce ogni detta intenzione, che diserta ogni aspettativa giocando a carota e bastone con l’ascoltatore: accarezzando il fan con i suoi enormi punti, al solito, di continuità – tanto quanto prende a randellate intenzionali il curioso dando lui motivi di critica superficiale che manca il nocciolo della questione, deridendolo da lontano e facendosene beffe. Regalando all’affezionato degli Shining una all-star line-up inedita che avrebbe forse fatto da ciliegina sulla torta ad incisioni in studio più patinate e per così dire aperte, ad esempio, il nuovo album nasconde in maniera programmata, di proposito, le sue reali qualità emotive riservate invece a chi ha saputo farle proprie (o vi ha molto poco banalmente trovato uno specchio d’acqua in cui versare le proprie, comprendendole) nell’ultima ventina d’anni abbondante. Proprio nella sua palese differenza estetica sia dalla roboanza del caposaldo continuo appannaggio di una fantomatica e mai avvenuta ripetizione gemellare, vale a dire dall’“Halmstad” di Niklas su Niklas, sia dall’altro e precedentemente dichiarato seguito del centrale disco numero cinque del progetto svedese, ovvero l’attualmente penultimo “Varg Utan Flock”, “Shining” si completa di sensazioni che ripartono se vogliamo da un punto zero: mettendo la palla al centro tra due degli apparentemente (o quantomeno generalmente) meno apprezzati capitoli quali l’ottavo “Redefining Darkness” e l’ancora una volta menzognero ritorno alle origini paventato nell’invece coraggiosissimo nono “Everyone, Everything, Everywhere Ends”, si riprendono le distorte sensazioni ad onda lunga, quelle al limitare tetro del Doom nei primissimi capitoli bagnanti le coste di un “Klagopsalmer” contenente il definitivo esperimento “Total Utfrysning” per poter creare da un lato le nenie di chitarre acustiche mai così calde (in nessun caso anticipate in nessun altro album tanto definite e rotonde, come sangue che lento ancora scorre nelle vene), sviluppando quelle significative, profonde riflessioni acustiche e quasi-Blues che ritrovano il genio melodico di Peter Huss ad affrontare l’interrotto discorso numero nove con ancora più successo; dall’altro, invece, una freddezza gretta, grezza, asetticamente ipnotica e malata che sembra rimembrarsi dell’eccellente binomio “Angst” / “The Eerie Cold” (con tanto di cristallini richiami atmosferici simil Ambient cortesia del nuovo socio Tahvanainen), benché tradendo ogni paragone su ritmi meno serrati, meno accessibili, meno catchy e meno travolgenti tanto del disco bianco quanto di quello nero, dove l’eccentrica disperazione si placa in una riflessività carichissima di significato, di sincerità, e per assurdo di una spontaneità palpabile e tradotta -un altro paradosso- alla perfezione nell’interpretazione chiaramente esterna di membri toolbox (i quali puntualmente vengono definiti meno dispensabili e gregari di qualunque altro precedente membro della band, ma tali a ben vedere restano).
Che sia infatti il tono eccezionale nel groviglio del novello Hedger (azzeccato nella sua pesantezza quanto nella vuota, mordace, caustica affilatezza ritmica in tutto l’album ma stupendamente apprezzabile soprattutto nella ripresa seconda a motosega di “Avsändare Okänd”), la prodezza batteristica perfettamente contenuta e calibrata del campione Barker (maestro d’arrangiamento e performance in particolare forse su “Allt För Döden”), oppure gli assoli come sempre tremendamente malmsteeniani del fuoriclasse Huss nel contesto di una produzione e -ancora una volta- scelta di suoni non casuali alla corte di Andy LaRoque, tutto si scioglie in un complesso aggregato da solo uomo che dispensa come nulla fosse la sensibilità pianistica al raggiungimento di una nuova vetta nel finale brevemente accompagnato dagli archi di “Snart Är Dom Alla Borta”: catartica, liberatoria e commovente nella sua solita, nera misantropia che definire ormai squisitamente stagionata come un ottimo rosso d’annata è regalare un’indebita attenuante ad una colpa fattasi pregio assoluto. E sebbene un vero e proprio picco di altissima composizione venga raggiunto proprio in questi quasi dieci minuti di seconda traccia, nel suo xenomorfico trasformismo spettrale da pellicola dell’orrore come nel suo connubio semplicemente perfetto di tirannico malessere e salvifica esenzione, la sregolatezza inclusa nella seconda metà di disco batte ogni delibera e sensazione travisata nella prima metà rivelandola mentitrice ancora una volta. Non ci si riferisce, chiaramente, alla sola reinterpretazione del passaggio pianistico di Satie quale immancabile momento strumentale di sette al chiaro di luna (la cui scapestrata vita fornisce, peraltro, un’interessante chiave di lettura del disco-autore, forse un indizio da prendere con le pinze come sempre accade quando si vive un’opera Shining), o l’interessante esperimento in “Fidelis Ad Mortem” con la sua interlocutoria ripetitività coral-baritonale quasi-crooner, bensì al cosiddetto dulcis in fundo incastonato nei dieci minuti abbondanti di “Den Permanenta Sömnen Kallar”: questo sì, se si vuole, un manifesto aggiornato all’anno 2023 di quanto e cosa gli Shining di Niklas Kvarforth siano stati in grado di regalare alla musica estrema in termini di possibilità espressive e di commistioni libere; nonché, nella fattispecie dell’hic et nunc, un disco che deve entrare sottopelle per realizzarsi e materializzarsi nella mente dell’ascoltatore con tutte le sue snervanti e lente discese, graziato in conclusione da uno dei brani più difficili, intraprendenti, sfidanti e al tempo stesso belli mai composti dal nato Olsson.

Non ci si riferisce al compositore svedese, da ultimo, tramite il rinnegato nome di battesimo per puro caso o volontà di evitare una ripetizione in prosa: al contrario, da capo, nella volontà di evidenziare un paradosso d’atti di ripudio, sconfessioni e ritorni rocamboleschi alla religiosità ex novo; un po’ come l’intero “Shining”, l’omonimo disco di abiura più adulto di sempre che fa tutto tranne che essere un album omonimo; un po’ come l’interezza del manicomio Shining, mentitori seriali senza nome come il proprio padre putativo ed effettivo che, arrivati alla fine dell’ascolto, sembra coerentemente regalare il più grande dei colpi di scena. La realizzazione che ci si è trovati per un attimo di fronte ad un volto vero, non semplicemente maturato musicalmente come già da “The Eerie Cold” ad “Halmstad” e poi continuamente rifinito e ridefinito nel gioco di magnifiche incongruenze stilistiche che abbiamo tanto bene imparato a conoscere da “Född Förlorare” a “Feberdrömmar I Vaket Tillstånd”, bensì di un adulto arricchito di tutti i suoi paradossi e brutture, nella scontatezza di un artwork che nel suo essere già tremendamente visto si fa per ossimoro ritratto unico ed inimitabile, intimo e perciò persino inquietante. Un cambiamento molto più che gradito, uno sviluppo provvidenziale proprio al momento perfetto, quello in cui, dopo il riassunto all’ennesima potenza del capitolo dieci rischiava di rompere il meccanismo della novità e della meraviglia, alla consegna spassionata dell’ennesima prestidigitazione: dove l’uomo è la tela, e l’arte un ragazzo da così tanto tempo al suo schietto servizio da esserci cresciuto dentro ed essersi fatto uomo. E la sua creatura con lui.

Matteo “Theo” Damiani

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