Shining – “V: Halmstad (Niklas Angående Niklas)” (2007)

Artist: Shining
Title: V: Halmstad (Niklas Angående Niklas)
Label: Osmose Productions
Year: 2007
Genre: Depressive Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Yttligare Ett Steg Närmare Total Jävla Utfrysning”
2. “Längtar Bort Från Mitt Hjärta”
3. “Låt Oss Ta Allt Från Varandra”
4. “Besvikelsens Dystra Monotoni”
5. “Åttiosextusenfyrahundra”
6. “Neka Morgondagen”

“As I was going up the stair, I met a man who wasn’t there…”

La tattica migliore per garantire la riuscita e la durevolezza di un culto della personalità instaurato in una qualsiasi cerchia sociale, a prescindere che questa sia un governo in carica, una ricca multinazionale oppure un semplice gruppo musicale, consiste più di tutto forse per chi si trova ai vertici della gerarchia nel negarsi agli occhi e alle orecchie dei sottoposti, esprimendosi per interposta persona e gestendo pertanto il potere politico, economico e mediatico senza doversi confrontare con nessun’altra figura di sorta. Così nel corso delle epoche dispotici regnanti accomodatisi nei loro castelli, temuti boss criminali auto-isolatisi in principesche ville e rockstar da strapazzo rintanate nei tour bus hanno visto accrescere la propria notorietà nutritasi del loro non detto e dell’altrui troppo detto, persino ora che la rete ha contribuito fortemente a squarciare il velo magico e rivelare ogni fallacia di celebrità -o presunte tali- che credevamo un po’ ingenuamente al di sopra dei puerili affanni di noi umani.
Talvolta, però, quando in gioco vi sono individui con qualcosa di autentico (poco importa se buono o cattivo) da dare al mondo, magari appaiato dall’insaziabile brama di successo, capita allora che tale assioma finisca frantumato sotto i colpi dell’ego e si passi perciò dalla semplice, transitoria fama al vero e proprio mito, il quale esige sempre da chi lo desidera il sacrificio troppo spesso banalizzato di percorrere una strada accidentata, fatta di gesti controversi e conseguenti scandali fino al più totale logoramento; a volte quello dell’ispirazione artistica, a volte dell’esistenza a tutto tondo.

Il logo della band

L’uomo che non c’era: la presenza ectoplasmatica che proprio attraverso la sua ambiguità schrödingeriana genera l’inquietudine di cui scriveva William Hughes Mearns a fine Ottocento, ovviamente altri non può essere che Niklas Kvarforth – colui che nel nell’estate del 2006 aveva fatto perdere le sue tracce inscenando un decesso farlocco alla stregua di un moderno Mattia Pascal, in modo da godersi la cieca devozione post-mortem dei seguaci già catturati dalle più che promettenti note e dal disturbante impianto ideologico di un “IV: The Eerie Cold”. Il tutto salvo poi consegnare sé stesso e la sua protesi creativa Shining alla leggenda nel corso di una fredda notte svedese del successivo febbraio durante il baccanale che ne suggellava l’inannunciato ritorno sulle scene.
Halmstad capta est – tra sangue versato sullo stage, rasoi passati impunemente alla platea, Maniac che prende a calci senza remore il rivissuto vocalist e Nattefrost che se la ride di gusto con tanto di genitali in bella vista; insomma, il massiccio cuore di tenebra dell’ultimo lavoro in studio della strana compagine svedese per Avantgarde Music viene trasfigurato in un grottesco ed ancor più monumentale circo degli orrori dalla palpabile dimensione live regalando al progetto una notorietà facilmente pronosticabile, ed ora da cementificare con un album che di quell’esibizione replichi da una parte l’eclatante estetica autolesionista celebrata su copertina e booklet (nello stesso 2007 che ironicamente inaugura il ritorno di fiamma del dibattuto movimento emo ed il successivo spauracchio di miriadi di genitori verso certi sottotesti), mentre dall’altra il senso di pericolo di cui, bisogna pure ammetterlo, il Black Metal se non altro scandinavo più in superficie era ormai da tempo rimasto orfano. Il nome sarà per forza lo stesso della città profanata dal suo figlio più degenere, e nella cassetta degli attrezzi di costui fornitagli dalla subito interessata Osmose Productions vi sarà un set tutto nuovo di lame e chiodi umani tra i quali, così silenzioso sotto gli immancabili aviator schermati e del tutto privo di referenze presso il pubblico estremo, spicca un chitarrista prossimo a diventare una sorta di doppelgänger dell’invece istrionico leader, dalla formazione Metal classicissima e facente di nome Peter Huss.

La band

Quel che rimane inalterato nell’organismo Shining è intanto il massiccio lavoro di registrazione condotto dalle esperte mani di Rickard Bengtsson, produttore decisivo nel traghettare definitivamente questo giovane e turbolento talento dagli aspri canoni DSBM ad esso ormai stretti, fino al suo sbocciare in unicità -prima di tutto sonora- avvenuto intorno a metà decennio, proprio quando fu lui a sedersi alle macchine in occasione del precedente “The Eerie Cold”. Quelle convenzioni fatte di chitarre esili e zanzarose sbattute sopra ad una batteria statica, che Kvarforth aveva archiviato in via definitiva con la piena maturità di “III: Angst” seguita dalla risolutoria compilation “Through Years Of Oppression”, vengono ulteriormente sgretolate nel 2007 dall’impatto a dir poco gargantuesco di questo turning point intitolato “V: Halmstad” e già della sua opener “Yttligare Ett Steg Närmare Total Jävla Utfrysning”, perfetta per mettere in mostra fin da subito tutte le armi più affilate in mano agli attuali Shining: l’impetuoso divampare delle asce sostenuto dalla tellurica cassa; la voce del mastermind capace di oscillare con maniacale instabilità dal ruggito di pura gola al più sentito e nondimeno teatrale lamento digrignato a denti stretti; il basso martellante d’estrazione quasi New-Wave dall’alto del suo posto in primo piano nel mix ed infine il classico break acustico, ora però prima infettato dai colpi di tosse del frontman e poi infuso di un calore latino dal breve ma indimenticabile sfogo chitarristico, il quale seppur solo per un attimo trasporta quell’arpeggio maledetto dalle dechirichiane periferie nordiche alle nascoste zone d’ombra sudamericane.
C’è già tutto – e ad ogni modo è durante i due minuti abbondanti i quali introducono la successiva “Längtar Bort Från Mitt Hjärta” che il nuovo entrato Huss completa la sua metamorfosi in una sorta di Carlos Santana votato all’oscurità, spremendo dalle quelle corde uno scorcio di luce talmente potente nella sua sincerità da scottarci, da farci così accogliere con gioia la cappa di fumo sopraggiunta con la salvifica distorsione ed avvolgente quello che probabilmente è il punto massimo toccato dall’intero platter. Se difatti col predecessore veniva intrapreso in maniera alquanto esplicita il discorso pressoché filosofico di graduale diradarsi delle linee di contorno alle proverbiali cinquanta sfumature di nero, “Halmstad” muove un ulteriore passo in tal senso con la polarizzazione estrema presente in un brano che sarà davvero simbolo ed icona nel catalogo degli Shining; prototipo ultimo della metallizzazione coatta attuata nel 2009 dal perentorio “VI: Klagopsalmer”, il riff che esplode alla partenza di “Låt Oss Ta Allt Från Varandra” proviene dalle più squallide discoteche delle nostre metropoli, dove la quantità industriale di stupefacenti in circolazione è eguagliata solamente dal disgusto verso l’esistente di chi vi si reca giusto per sfuggire ad un’altra serata di noia, e tuttavia anche in quel catino di odio ecco affacciarsi per un’istante il disperato intrecciarsi di pianoforte ed archi, specchio di un rimorso proveniente probabilmente dal passato (si torna non a caso al bagaglio classico, affrontato a viso aperto nella piacevole rilettura del Beethoven intitolata “Åttiosextusenfyrahundra”) e risputato in piena faccia col lacerante campionamento recitatovi sopra.
Che la creatura svedese ed in special modo la vena artistica del suo comandante in capo subissero le suggestioni del lato sbagliato della settima arte era dopotutto palese già dagli altri spezzoni presenti su “The Eerie Cold” (come dal curioso esperimento carpenteriano “Svart Industriell Olycka”), qualora ascoltato invece un lustro addietro, ma è una volta giunto al termine di quella che egli non tarderà a definire la sua opera più personale che Niklas Kvarforth si reincarnerà definitivamente nel Jason Voorhees (di nuovo il passato mai sepolto, veicolato stavolta dal primissimo monicker scelto nel ’96) richiamato dai tre sibili reiterati sul finale della splendida, ultima nerissima lama “Neka Morgondagen”, fin troppo simili a quelli di cui era punteggiata la colonna sonora dell’iconico Venerdì 13: come a dirci che la sofferenza pura dei primi tre full-length ha lasciato il posto alla sete di sangue del killer di Crystal Lake, e che quindici anni fa è infine giunto il momento per la musica degli Shining di trasformarsi da sfogo per le vittime in arma per i carnefici – come su di un palco, così dentro ad uno studio.

Niklas parla di Niklas. Non sorprende affatto che ad inframmezzare i flussi di coscienza dell’Olsson nemmeno ventiquattrenne siano degli sparuti sample prelevati da Prozac Nation, misconosciuta riduzione cinematografica dell’autobiografia dell’autrice americana Elizabeth Wurtzel sovente accusata dalla critica di autoindulgenza, esibizionismo e ricerca patologica di attenzioni; le stesse identiche rimostranze, a volerci riflettere su, buttate a forza nel discorso ogni volta che si nomina il famigerato menestrello scandinavo, e che con tutta probabilità questi aveva colto ancor prima che diventassero un autentico tormentone sopportato a fatica da chiunque gli riconosca anche solo metà del genio dimostrato sul campo in oltre venticinque anni di attività.
“Halmstad”, nel suo complesso intimismo, rappresenta perciò ad oggi il filo rosso fatto e finito tra il tanto chiacchierato shock value in superficie ed una profondità compositiva dai pochissimi eguali, talmente ben bilanciata all’interno dei sontuosi tre quarti d’ora da non far spiccare alcun pezzo in particolare rispetto agli altri, nemmeno la “Besvikelsens Dystra Monotoni” che nei suoi oltre dieci minuti tocca davvero ogni lato dell’essenza shininghiana passata e futura con scariche metalliche, digressioni arpeggiate e vuoti di natura rumorista. L’artista, o per meglio dire il re, è nudo, poiché al basso profilo su cui imbastire la propria sacralità ha preferito l’onesto dispotismo il quale gli avrebbe garantito schiere di detrattori, accettando tal fatto con la sana arroganza che solo chi crede nel proprio messaggio può avere.
Del resto la storia della musica è piena di episodi come il quinto nato della dinastia Shining; testimonianze inestricabili di una mente e di un corpo autoriale portati all’eccesso dalle circostanze tanto quanto da sé stessi, e che proprio per via dell’egocentrismo di chi vi è dietro ne divengono riflesso consciamente falsato, lo sfogatoio in cui risulta impossibile distinguere persona e personaggio. Destino segnato quanto comune di queste prove è tuttavia quello di ricadere sempre o nella categoria del fallimento completo o in quella del capolavoro di una carriera – ma dopo quindici anni suonati abbiamo ancora la certezza di quale delle due veda tra le sue fila, solitario e scontroso verso qualunque altro disco abbia l’ardire di avvicinarvisi, pure il grandioso “Halmstad”.

Michele “Ordog” Finelli

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