Saor – “Forgotten Paths” (2019)

Artist: Saor
Title: Forgotten Paths
Label: Avantgarde Music
Year: 2019
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Scozia

Tracklist:
1. “Forgotten Paths”
2. “Monadh”
3. “Bròn”
4. “Exile”

Non vi è dubbio che i primi sentieri dimenticati che occorrono alla mente in determinati ambienti siano quelli metaforici delle tradizioni, dei retaggi che vanno a scomparire – di stili di vita più semplici e meno frenetici che, nei momenti d’apice del caos che circonda, sembrano essere così seducenti nella loro lontananza ovattata ed edulcorata dalle centinaia di anni che si dispiegano a frapposizione tra essi e l’orizzonte cognitivo; sovente sono tuttavia abbandonate, soffocate da una coltre di smog come neve nera per periodi che variano dai mesi alle intere esistenze, anche strade temporalmente più prossime che conducono (in rigorosa e totale solitudine) ad ascoltare ciò che risuona in quell’intimismo di comunione profonda con il proprio recondito, la tanto discussa voce dell’anima, che senza giudizi permette di ascoltare con maggiore chiarezza ciò che accade dentro, luogo quanto mai sacrale, e di trarne così catarsi, beneficio e -potenzialmente- una miglioria in quella metafora del circondario fisico che siamo soliti chiamare vita.
Alcuni eletti, poi, usano questo autentico cronotopo interiore come momento artistico diretto a mettere su pentagramma quel fluire di sensazioni collezionatevi (e, se capita, poi rifinite) che siamo soliti chiamare musica.

Il logo della band

Non sarebbe ormai più il caso di dirlo, ma il processo evidenziato è senz’altro attribuibile alle prodezze musicali di Andy Marshall e dei suoi Saor ormai giunti a perfezionare al millimetro una proposta che, fin dagli esordi, aveva comunque e sempre mostrato enorme originalità e un’altrettanto chiara weltanschauung nel cristallizzare quella solitudine catartica in atmosfere che, rarefatte, fossero l’incorporea base strutturale per una riscoperta spesso anche poderosa e battagliera (ma mai particolarmente drammatica) di origini legate al territorio della nativa Scozia, la cui ispirante aria vibra indomita di una storia che -come quella di molti altri confini- è pregna di sangue, dolore e tragedia.
I sentieri dimenticati che graziano il titolo del quarto full-length della one-man band sono quindi, per l’occasione ma come da prassi del progetto, sia quelli recisi da una storia poetica che conserva saggezza da preservare (testi ancora una volta affidati alle parole di poeti nazionali, William Renton e Neil Munro), sia quelli che si traducono efficacemente in musica solitaria e intimista a riprendere il meglio che è stato sperimentato da Marshall nei tre dischi precedenti, sommandolo anche alle digressioni ottenute con altri monicker (uno su tutti, Fuath – da cui approccio ipnotico e sintetizzatori vengono ripresi in varie occasioni), condensandole, invero quasi comprimendole visto il minutaggio, in un lavoro che gode così della più grande varietà e qualità ad ampio spettro mai ottenuta in un disco dei Saor.

Andy Marshall

Tre effettive canzoni, al solito decisamente lunghe, si vanno a legare con naturalezza al conclusivo epitaffio in una struttura tetralogica che (per modi, poetica, aspetto e persino timing) va a ricordare da vicino proprio quel “Forgotten Legends” a cui sembra rimandare così esplicitamente dal titolo: il disco del 2001 con cui gli ucraini Drudkh riempivano di ode alla natura la lezione precedentemente impartita da Burzum (prima ripresa in tale direzione dai più vicini Negură Bunget) nel dilazionare in ampiezze atmosferiche la prassi Black Metal; espediente che senza ritorno avrebbe presto conquistato più avvezzi alle commistioni con la materia squisitamente folkloristica.
È senza dubbio anche il caso del compositore scozzese che, tuttavia, ormai giunto al suo quarto album in studio a tale nome e non scevro di prove dall’innegabile personalità e diversità, riesce comunque nell’evitare con perizia ogni cliché o confronto -direttamente stilistico- ricollocando in modo nuovo gli elementi ormai sicuri del bagaglio riversato nel progetto in sette anni: un periodo sicuramente ambiguo, paragonabile a venti inverni per i livelli raggiunti, ma allo stesso tempo a giusto una manciata di mesi per la facilità con cui questi sono stati conseguiti praticamente fin dalla pubblicazione di “Roots”.
È proprio dal debutto del 2013 che “Forgotten Paths” va a riprendere diversi colori e strategie per aggiungerli nuovamente alla tavolozza cromatica delle sensazioni da trasmettere: innanzitutto quel feeling più pungente, diretto, anche fremente e fisico (ora rifinito e meno criptico) che in “Guardians” sembrava ormai aver ceduto definitivamente il passo in favore dell’emotività a volo d’aquila che voleva espandere invece la palette di “Aura”. Il merito va senz’altro al miglior impiego degli strumenti tradizionali e acustici, maggiormente selezionati e quindi di nuovo punto di forza e pathos (nonché chiave di migliorata gestione dei climax), al chitarrismo più solido e palpabile, ma anche alla partecipazione di quello che -non per tecnica o mero gusto, ma per effettiva performance- finisce per essere il miglior batterista prestato alla proposta dei Saor: il drumming semplice ma sanguigno, potente ma calibrato di Carlos Vivas rifugge svirgolate sia eccessivamente moderne che inutilmente dispersive ed è il primo (insieme al violino di Lambert Segura per presenza) del solito gran numero di collaboratori di cui il Nostro si è servito, previo enorme lavoro in sede di arrangiamento, per la realizzazione degli sfaccettati brani.
Il più celebre è Stéphane Paut, in arte Neige, che dal nido sicuro Alcest ha prestato l’inconfondibile ugola per la seconda parte della title-track, nonché opener del disco: senza girarci attorno, per varietà e finezza, uno dei pezzi più riusciti dell’intero catalogo a nome Saor. Gli undici minuti che aprono l’album lo fanno pertanto nel migliore del modi, bilanciando l’aggressività di una partenza mai così frontale (anche nel riffing più ruvido rispetto all’ultima fatica del 2016, una dimensione delle chitarre meno ridondante che meglio si addice allo spettro di sensazioni arcaiche trasmesse dal progetto) all’inedito break di ramingo pianoforte che serve come trampolino di lancio per la fierezza della tirata conclusiva a splendida opera delle clean e harsh vocals del francese.
I dieci minuti in cui scorre senza intoppi formali anche “Monadh” sono quelli di un pregevole ponte che non disdegna rifugio presso tribali interludi in territori quasi Shoegaze ed è ricco del gusto esultante donato dalla vincente semplicità nell’impiego dei violini. Dopo aver ipnotizzato l’ascoltatore in ampie e persistenti volute ritmiche, la maestosità del finale s’infrange in contrasto dinamico contro la scogliera cupa di “Bròn”: l’accoglienza riservata dall’apertura atonale, zanzarosa e diafana, è l’incipit di una costruzione in accumulo di tensione da maestri (e così i dettagli nelle trame di tutta la prima oscura parte). Lo sfogo decisivo, dapprima nell’esplosione di blast-beat con tripudio di ornamenti folkloristici, e poi nel primo ritornello affidato alle clean vocals di Sophie Rogers e alla seguente inclusione della cornamusa di Kevin Murphy (già apprezzato in “Guardians”), corona alla perfezione un altro dei più grandi e memorabili brani mai scritti dai Saor.
È infine affidato alla delicatezza delle onde del mare, soverchiate dai contrappunti di note ricche di espressività e calore dell’arpa dell’ultimo ospite in spolvero, Gloria Lyr (la cui prestazione è indubbiamente una delle più toccanti del disco), il compito di fornire adeguato commiato verso la fine del breve ma intenso viaggio che è “Forgotten Paths”.

La quarta prova in studio dei Saor risulta quindi vincente sotto ogni punto di vista, non da ultimo per essere la migliore commistione di sempre tra gli elementi compositivi del gruppo, formalmente perfetta nel mescolare l’anima folkloristica e il Metal estremo di cui questa è parte inscindibile; risultato comunque impossibile non fosse per una produzione potente, nitida, cristallina, ma soprattutto bilanciata (da notare come, forse per la prima volta, i latrati atonali e primitivi di Marshall s’incastrino davvero significativi nel muro del suono – intelligentemente mediati dalle apparizioni ospiti) che finalmente rende piena giustizia alle intenzioni.
Senza particolari sorprese o scossoni, dunque, non si può probabilmente dire che Andy Marshall in meno di quaranta minuti abbia osato più del dovuto, portando così a casa un risultato per ogni verso quasi sicuro (ma non scontato considerati i limiti, anche sorvolabili, in precedenza invece palesati); tuttavia si tratta di un esito di altissimo livello nel suo genere e di pari crescita nell’operato dei Saor che non tarderà ad emozionare chiunque cerchi personalità distintiva riversata in ottima musica a cavallo tra Black Metal e folklore.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente I Concerti della Settimana: 18/03 - 24/03 Successivo Weekly Playlist N.11 (2019)