Returning – “Severance” (2023)

Artist: Returning
Title: Severance
Label: Realm And Ritual Records
Year: 2023
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Path Of Ashes”
2. “Primal Remembrance”
3. “False Light Sickening”
4. “Bright Power, Dark Peace”

“I will not live forever an orphan,
In these cursed lands…”

Cosa accadrebbe se antichi dèi si risvegliassero da un sonno plurimillenario, assetati di una vita che per loro, creatori di tutto, si era fermata in uno stato di criogenesi nel ciclo dell’eterna ripetizione di morte e rinascita, e se per saziare questa arsura di essere nuovamente bevessero dunque dai nostri pozzi di veleno, fino alle più nere profondità? La negazione di un male pienamente visibile, senza nemmeno bisogno di arrivare al fondo di sorgenti ormai corrotte che donano il dono del decadimento e un’amnesia indotta, diverrebbe forse impossibile di fronte al giudizio fattosi impietoso di quelle vecchie, dimenticate divinità che, probabilmente in collera con ciò che hanno trovato tanto mediato e manipolato al loro risveglio, farebbero dell’umanità, artefice di loro stesse e di quell’orribile mondo dell’utile, corpi striati di paura e cenere, persi in infiniti e ricorrenti spasmi di rovina e disperazione. Dannati in eterno, insomma – o quantomeno, dannati fino a quando il torto non sia stato riparato dall’interno, la frattura e questa separazione esogena riconosciuta e portata completamente a termine per poter essere infine sanata.

Il logo della band

In questo senso “Severance” è davvero un sentiero fatto di ceneri dalla consistenza del vento e dalla natura Dark Ambient dei più ansiogeni, all’erta, crepuscolari e inquietanti interpreti degli ultimi anni: è il rumore delle ossa macchiate di sangue che si sgretolano, della linfa che scorre dentro e fuori; il suono del sussurro della terra e il devastante rombo della tempesta che arriva spazzando via ogni cosa sul suo cammino, salvando soltanto ciò che ha radici abbastanza profonde da non esserne travolto. “Severance” è allo stesso tempo una prova di forza in cui gli elementi sovrastano un ascoltatore che diventa inerme di fronte al potere simbolico di braccia pallide come nella tradizione butō, senza vita e sporche, che perdono la loro presa sul circostante fatto di chiavi, di resti animali e bossoli vuoti, di lame rituali spezzate su una distesa di foglie ingiallite e neve sottostante, tanto quanto è una trasmutazione – per dirla à la Wolves In The Throne Room, una preghiera di trasformazione di sé, di ricordo e riconquista di qualcosa che è andato perduto.
La dichiarazione d’intenti del duo dello Stato di Washington, concittadino non a caso dei noti paladini della corrente Cascadian, parla del resto chiarissima: i Returning non sono soltanto l’ennesimo monito sferrato ad una civilizzazione in procinto di crollare su sé stessa con metafora ecologica a corollario, ma in primis le vestigia molto più psicologiche di una celebrazione, dell’atavismo in un certo qual neutrale senso, e dell’eterno ritorno ad una forma più arcaica e primordiale di vita, intesa nella sua accezione più omnicomprensiva e in contrasto quindi con tutto ciò che di più orribile siamo costretti a vivere e ogni giorno attorno a noi. I Returning sono del resto una specie di artisti rara, come dimostrano in un debutto ambizioso quale è “Severance” (per il momento pubblicato soltanto in cassetta in tiratura sfortunatamente limitatissima tramite Realm And Ritual Records – ma accompagnata dall’ascolto digitale, come ovvio): fatti della stessa materia e filosofia ovviamente cascadiana che ha generato veri e propri miracoli in musica nel sottobosco muschioso ed ombroso dell’ultima decade abbondante, e in questo prosecutori di una tradizione estetica, ma anche incarnanti una tensione all’arte a tutto tondo ch’è plasmata con l’aiuto di altre forme espressive totalmente al di fuori delle sette note vestite di nero, le quali trovano il loro quasi fisiologico spazio in un suono accorato ed emotivamente strisciante.

La band

Una catarsi, o meglio ancora una frattura interiore che cerca quella precisa trasmutazione, quella fonte, e la sua rivelazione nell’esteriore oltre la fitta nuvola di abbandono che la avvolge – ma non verso il reame della morte che viene più comunemente celebrato quale figura retorica o tropo nel genere di musica che i Returning in fin dei conti suonano: bensì nel pensiero che si fa forma d’arte decisamente più ancestrale di quello distillato dalla stragrande maggioranza dei colleghi (anche su simili sensibilità, si pensi ai Fauna – da cui viene ripresa tuttavia la tendenza all’esibizione teatrale quale punto di partenza dell’intera composizione, poi catturata quale pillola di verità), piuttosto un primissimo punto di partenza nel viaggio all’interno di una senzienza umana che giunti a questo punto della storia sembra essere tutta da rivalutare.
Ed è in ciò che, innanzitutto, i Returning sono davvero una specie rara: da un lato fedeli discepoli e biologici continuatori di un percorso che grida in tutto e per tutto Pacific Northwest, che urla sgolandosi di acque salate in torrenti, fiumi e cascate che sono ferite azzurre e limpide in un mare di verde smeraldo come fosse un cielo in terra; di quel percorso che così chiaramente vede nel buio dei fratelli Weaver (spiritualmente omaggiati fin dai nomi d’arte del novello duo di Thuja ed Heron) quanto negli Skagos i due lanternini più importanti in fatto d’integrità sonora, indipendenza ed influenza soprattutto concettuale e poetica. Ma dall’altro e forse ancor più importante lato, sotto una diversa lente nemmeno necessitante di un ingrandimento così ravvicinato, quel che emerge da “Severance” è in realtà anche -e soprattutto- un interessantissimo connubio dei più raffinati rituali approntati e realizzati tra vecchio e nuovo continente negli ultimi dieci anni (dagli ultimi Fyrnask, il cui spirito tra “Fórn” e “VII – Kenoma” vaga presentissimo nello zolfo e nel fumo ancestrale di una opener strabiliante come “Path Of Ashes”, ai successi degli Altar Of Plagues del periodo “Mammal” e delle intenzioni “White Tomb”), con la trasmutazione estetica di arti altre come teatro, proiezioni e danza sperimentale che vi dialogano inquiete in nome della cosiddetta e duale libertà, della terra che calpestiamo e dei suoi inestimabili cicli vitali.
Certo, lo spegnimento in “Bright Power, Dark Peace” sembra uscire preciso da “Diadem Of 12 Stars” o da “Two Hunters”, ma quel cuore che pulsa e che da quella morte palustre emerge, palpitando, ribollendo e battendo forte come un bodhrán rituale sotto quelle architetture di orrori Weakling, morti come tutti i sogni di un presente in cui ogni saggezza è offuscata (e ribadite anche nella ferocia tonante di una “Primal Remembrance”), è davvero totalmente dei Returning e di nessun altro. Prova di quanto la musica del gruppo sia infatti una chiamata alla partecipazione di tutto l’ambiente circostante, con tutti i suoi suoni vicini e lontani, coi ogni suo odore e le sue luci, sono in fondo gli importantissimi ritualismi totalmente affidati alla materia ambientale, quelli dalla cui pensata atmosferica è palese nasca l’interezza tonale del lavoro (anche quando è affidato alla sola e più magmatica componente Black Metal) come avviene nell’intera “False Light Sickening” che, con i suoi tamburi ipnogeni e sciamanici, mentre il corpo si contorce come una radice, è un punto di disco dal canto suo talmente alto da creare il perfetto ponte sensoriale alla scudisciata tragica con cui l’ultimo quarto d’ora d’intensissima musica poetica e surreale si apre per portare la febbrile incursione sonora della coppia di musicisti su tutto un nuovo, estremamente eccitante livello culminante in quell’arco teso verso un risanato inizio.

Ancor prima che un disco ipnotico da cui è difficile staccarsi senza rimanerne feriti, quel che i Returning hanno ordito in un simile full-length è quindi un connettore contro l’atrofia: un’esperienza immersiva e sfaccettata creata per essere eseguita e vissuta nel vero senso della parola, in luoghi dell’anima che siano ancora selvaggi ed incauti, non mediati o intorpiditi, non tecnologicamente domati, qui cristallizzata in un momentum di esibizione tutta esperienziale, catturata su nastro quale memoria viva di un lavoro di grande concetto ed ancor più grande visione – una talmente nitida che non sembra aver nemmeno bisogno di un particolare rifinimento futuro in fatto di una personalità che, in verità, soggiace più nel complesso che nel singolo riferimento. Un punto focale d’arti tese all’estremo del significato alla vista di quella waste land di eliottiana memoria, come un grido dello spirito che resta còlto – nella voce; come una ferita in combustione – nella musica; come una fiamma di saggezza e ricordo – nel pensiero; come l’esibizione che diventa un vero rito – nella realizzazione; e come una nuova via che ricorda vie antiche, note ed ignote – nel complesso: perché non è detto che le nostre mani insanguinate dalla colpa di aver rotto e straziato ogni significato in frammenti d’insensatezza possano del tutto lavarsi, infine, né è compito del solo ascolto di “Severance” portare a termine un compito tanto sisifeo, di ricongiungerci ovvero con quel senso, con quel valore dove la verità di tutte le cose è messa a nudo. Ma è quello di farci dimenticare ciò di cui abbiamo pieni gli occhi per poter finalmente ricordare, e per farci rendere conto come fosse in reazione ad una richiesta sussurrata che quei frantumi -benché spaiati e difficili da distinguere- giacciono al di dentro; di riuscire pertanto a vederli, a recuperarli ed estrarre in questa maniera con vergini e inaspettati mezzi il canto d’oblio dal fiume del silenzio, per poter dimenticare nuovamente, come corpi che si decompongono nella terra e, solo così, ricordare di nuovo.

We are stillness after fire,
We are buried under stone,
We are the apex of ruin:
And through ruin we will return.

Matteo “Theo” Damiani

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