Artist: Altar Of Plagues
Title: “Mammal”
Label: Candlelight Records
Year: 2011
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Irlanda
Tracklist:
1. “Neptune Is Dead”
2. “Feather And Bone”
3. “When The Sun Drowns In The Ocean”
4. “All Life Converges To Some Centre”
In pieno periodo, quello d’inizio della scorsa decade dove incorre non incidentale la fortunata pubblicazione del secondo full-length del trio irlandese, in cui qualsiasi uscita discografica flirtante con alcuni connotati del genere nero per eccellenza viene etichettata come Post-Black Metal, gli Altar Of Plagues entrano in modo travolgente in uno stile musicale che tutto sommato gli calza un po’ stretto. In fin dei conti, è proprio l’evoluzione stilistica presente all’interno dei solchi ottici di “Mammal” che induce a questo tipo di associazione, ma in realtà il prodotto di cui ci accingiamo a discutere in retrospettiva suona ancora perfettamente naturale e totalmente privo di forzature artefatte dovute ad inserimenti per così dire alieni, provenienti da specifici sottogeneri altri (a cui comunque molto, musicalmente, l’album innegabilmente deve) con il solo intento di scardinarne le rispettive regole: questo resta il naturale parto di un trio di ragazzi che compone musica soltanto per sé, dotato di una mentalità sicuramente aperta, fuori dal gregge, nel raggiungimento di sensazioni che li portano solo per conseguenza all’originalità, a suonare senza imporsi i proverbiali paletti stilistici per rientrare in un particolare genere; forse sì, quindi, anche intenzionati a rivisitare alcuni concetti della loro musica dentro e fuori il panorama di riferimento, ma tra tutti non ultimi quelli dell’onestà intellettuale e della spontaneità alla sua base, trasmettendo qualcosa di vero e diverso a chi li ascolta nonché dimostrando nel processo di comporre con l’unica costrizione e condizione di ascoltare attenti il battito del proprio cuore al ritmo dei propri pensieri.
Il disco è infatti, piuttosto che una presa di posizione rispetto ad una determinata corrente, sia il seguito perfetto del caratterialmente distruttivo e claustrofobico “White Tomb” che dell’EP interludio “Tides”, il quale in particolare propone già nel 2010 alcune sperimentazioni che lasciano intravedere il percorso che la band ha, poi nel 2011, finalmente la piena e raggiunta intenzione di percorrere. Ciononostante, le migliorie sono esorbitanti. L’esperienza sensoriale che viviamo attraverso “Mammal”, quasi fisica nei suoi momenti più apprensivi, va ad unire l’aspetto monolitico del precedente full-length di debutto, di cui viene mantenuta la struttura quadripartita ma allargata in respiro, ad una serie d’influenze assimilabili all’universo Post- ad ampio spettro (Metal, ma anche Rock ed industriale), Noise, Drone, ritualistico ed Ambient che arrichiscono il sound in un modo tale da trasmettere in maniera ancora più cristallina, tramite l’allargamento del linguaggio, il messaggio degli Altar Of Plagues.
Dal punto di vista lirico, il concept del trio capitanato dal visionario James Kelly (per la prima volta propostosi nei crediti con il suo nome di battesimo al posto dell’irlandesizzata trascrizione gaelica di O’Ceallaigh), rimasto da qui artefice unico del comparto chitarristico all’abbandono di Jeremiah Spillane (che insieme al compositore firma tutte le parti di sei corde dal 2008 al 2010, suggellando con il suo allontanamento un punto virtuale di fine nella prima fase artistica della band) ma al contempo arricchito dall’ingresso alla batteria del versatilissimo Johnny King e sgravato quindi dal compito percussionistico, non devia infatti tanto rispetto al passato: ci troviamo davanti ad un’oscillazione costante tra temi riguardanti la vita (qui approcciata invero in una foggia più distante dall’anti-urbanismo ecologico del debut) ed il senso di oppressione della stessa esistenza in relazione ad un terrore di fondo legato all’incomprensione del concetto di decadimento fisico, materiale, mentale (quello incarnato nella metafora della natura comunque inevitabilmente procreante del mammifero, andando oltre l’antropocentrico concetto di uomo) e di ciò che avviene, o può successivamente avvenire, alla fine di esso – nonché della sua relazione duplice ed ambivalente con il vivente. Da questo stato di trambusto psicologico ed ansioso si sviluppa un modo unico e quasi impareggiabile di costruire atmosfere viscerali ed emotivamente significative: il Black Metal sul quale si basa il tutto è contraddistinto da ritmiche dilatate forti di quell’approccio Atmospheric del nuovo millennio che contribuiranno loro stessi fortemente a svecchiare e caratterizzare nelle sue declinazioni più moderne, e da una produzione diversa, quando non direttamente unica, rispetto a gran parte di ciò a cui siamo abituati; l’idea degli Altar Of Plagues di registrare ed imprimere eternamente su nastro con calore analogico un simile genere di musica (anticipata, sebbene su coordinate diverse, soltanto dagli Agalloch di “Marrow Of The Spirit” sul finire dell’anno precedente, passando per i concetti di ritorno quasi atavico all’organicità del Pacific Northwest di Wolves In The Throne Room ed associati) dona un senso di dinamismo, armonia, equilibrio e profondità totalmente inedito non solo al loro sound in calcificazione, ma a quello dell’intero filone.
Queste vivide sensazioni si presentano sin dai primissimi secondi di “Neptune Is Dead”, canzone mastodontica che si apre con un umori cadenzati in stile Drone ma che esplode presto in un violentissimo up-tempo a mettere subito in mostra quanto pungente ed efficace sia il muro sonoro generato dal gruppo, paragonabile ad un martello pneumatico che senza sosta cerca quel famoso punto di congiunzione, di convergenza nel quale tutta la vita e tutti gli organismi esistenti trovano la propria fine. Interessante è anche la metafora che viene portata in essere con Nettuno, ovvero il pianeta del Sistema Solare più lontano dalla gigante stella centrale e conseguentemente più lontano dalla possibilità di vita come la conosciamo. In questo contrasto tra Sole e freddezza del pianeta ultimo vediamo emergere una serie di influenze Doom che, miste ad una sequenza di mirati arpeggi chitarristici, vanno a creare un effetto cantilenato che esalta già in maniera perfetta tutta la drammaticità vacua della situazione di stallo esistenziale. Come nelle prove precedenti il cantato principale di James Kelly (associato a quello più sporadico del bassista Dave Condon) è unico ed ideale mezzo per restare a galla nel turbine musicale nel quale veniamo catapultati: la varietà timbrica dello scream, di quell’urlo che lacera i timpani con carattere (si passa dall’evocativo al più lancinante e sgraziato immaginabile) è un enorme valore aggiunto per il modo in cui riesce a generare pensieri nonché ad esaltare la componente strumentale ed atmosferica cogitabonda dei lunghissimi brani, al contempo aggrappati alla struttura a quattro dell’album di debutto ma pienamente reinterpretanti le sue regole.
Quasi come nulla fosse, nonostante i suoi diciotto minuti abbondanti di durata, la traccia di apertura giunge al termine evidenziando da sé tutte le abilità compositive e le capacità di songwriting eccezionali della formazione di Cork, totalmente in controllo nel creare una progressione musicale priva di qualsiasi intoppo e assolutamente funzionante e funzionale. Le tracce sono infatti saldamente collegate tra loro e gli ultimi orrorifici e distopici secondi finiscono per riversarsi in quella che sarà la successiva “Feather And Bone”, traccia che, se possibile, ancor meglio mette in risalto gli aspetti più attinentemente Post-Metal della band, non più soltanto per suono. Tra accordi lenti, pesanti, sgranati e sfibrati, toni bassi e soffocanti, le melodie sono perfettamente studiate per orchestrare al meglio atmosfere più apatiche in contrapposizione ad altre squisitamente cariche di emozioni (positive o negative che queste poi siano – basti ascoltare l’esplosione di malessere totale nella sua conclusione), andando a sincronizzarsi con un batterismo di peculiare gusto, curato nei minimi dettagli eppure privo di calcolo (con un feeling quasi da jam-session non lontano da quelli coevi cascadiani), estremamente piacevole all’orecchio tanto da essere quasi melodico. Ancora una volta si resta colpiti dalla quantità di eventi musicali e sezioni disparate eppure ipnotiche che si susseguono una dopo l’altra ed al contempo il vuoto, il carico di mancanza di senso che viene trasmesso all’ascoltatore. Quest’ultimo prova a rifugiarsi inutilmente nella successiva “When The Sun Drowns In The Ocean”, cosmogonica per concetto, melting pot cultural-tradizionale contraddistinto da stati d’animo di terrore misto a tragedia tutta irlandese e strutturata su un’antica credenza popolare che narra di come il Sole finisse in un altro mondo, sotterraneo, inarrivabile per l’uomo vivo, durante la fase del tramonto. Il pezzo, proprio come il destino dell’astro che dovrebbe donare vita al pianeta Terra, è angosciante e ci immerge in uno scenario chiuso e desolato tramite rumori sinistri, percussioni profonde e dissonanti fraseggi di chitarra che seguono la litania sciorinata in madrelingua gaelica da una voce femminile lontana, anziana, irriconoscibile e piena di angoscia e perdita. Nel suo procedere cadenzato entrano nel mix sempre più componenti che esplodono direttamente in ciò che è la conclusiva “All Life Converges To Some Centre”, il punto di perfetto commiato di un’opera seriamente senza eguali: un finale che abbassa leggermente i toni per mostrare fin dal tramite della musica che il percorso di una vita si conclude qui, che siamo con terrore primordiale arrivati a quell’anticipato ed egalitario punto di congiunzione, quel qualche centro di confluenza che tutto inghiotte senza il conforto di un aldilà in senso strettamente religioso – e viviamo di conseguenza un momento straniante, di liberazione e distensione emotiva per tutto quello che si è vissuto nel corso di “Mammal”. L’arpeggiare è palesemente più delicato che in precedenza, gli stessi attacchi di derivazione Black Metal cambiano di tonalità portando un substrato melodico molto più arioso e rilassato. In questa fase di album il cantato assume le parti di un ipotetico protagonista caricandosi sulle spalle un senso d’implacabile tristezza Post-Rock vestito di un nero viscerale, una sorta di rassegnazione per il fatto che non resta più altro da fare se non lasciarsi andare all’inevitabile e all’inconoscibile, all’arte delle sue lente battute finali.
“Mammal” resta pertanto a distanza di dieci anni dalla sua originaria uscita -e resterà tale per i prossimi dieci almeno- un disco unico, ancora oggi estremamente attuale sotto ogni punto di vista, non ultimo quello meramente musicale, ed indubbiamente un lavoro in continua evoluzione ascolto dopo ascolto. Uno che non smette di emozionare, di affascinare con nuovi motivi inconsci coloro che vogliono continuare ad approcciarvisi per trovare nuove domande a cui dare risposta o a cui rassegnarsi più semplicemente, ed uno che mostra già ampiamente come il cammino degli Altar Of Plagues non si sarebbe potuto in alcun modo fermare qui. L’operato di Kelly e compagni culminerà infatti nel giro di soli due anni in un disco di totale rottura, ovvero quel malato figlio industriale d’avanguardia intitolato “Teethed Glory & Injury”, a tratti incompreso alla sua pubblicazione e passato agli onori della riscoperta un lustro più tardi, ma assolutamente sensato (nonché di assoluta qualità) soprattutto se si tiene in considerazione il percorso artistico intrapreso dalla band: una delle formazioni più talentuose ed intelligenti nel suo inafferrabile genere fin dal suo straziante album di debutto, ma ancor di più in quel suo successore che resta uno dei dischi più fini, significativi, urgenti ed importanti della storia recente.
– Giacomo “Caldix” Caldironi –