Wolves In The Throne Room – “Diadem Of 12 Stars” (2006)

Artist: Wolves In The Throne Room
Title: Diadem Of 12 Stars
Label: Vendlus Records
Year: 2006
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Queen Of The Borrowed Light”
2. “Face In A Night Time Mirror (Part I)”
3. “Face In A Night Time Mirror (Part II)”
4. “(A Shimmering Radiance) Diadem Of 12 Stars”

Lo sguardo mozzafiato lanciato a volo d’aquila su immobili pendii ricoperti di rigoglioso verde pluviale, guanciali spugnosi e ritmicamente pulsanti di uno smeraldo flautato nel vento sferzante verso l’alto, e voluminose lacrime di zaffiro protese a cascata altrimenti verso il basso: è appunto nello spirito antico e incantato della foresta con le sue scintillanti luci ed ombre infinite, soffiante vita in muschi dalle figure inquiete e nebbie dallo splendore paralizzante in cui perdersi e trovarsi, che il debutto su full-length dei fratelli Weaver si dimostra uno di quei rarissimi esempi di album che offrono la visione nitida ed incontaminata di uno spaccato di creato tramite gli occhi ed il singolare temperamento artistico dei suoi creatori, i quali, lontani dal mondo conosciuto dai più come fossero eremiti provenienti dagli antri di un’altra età e di uno spazio mentalmente intoccabile, iniziano proprio nel 2006 a raccogliere i frutti effettivi e più squisiti della coltivazione di una praxis atmosferica dalle tinte primitive, silvestri, di un atavismo spirituale e contemplativo che a partire da alcune delle più singolari intuizioni di suono, estetica e persino riflessione del duo di compositori avrebbe non soltanto influenzato una considerevole fetta di Black Metal, per tratti più evoluto e successivo all’inizio del nuovo millennio, ma anche immediatamente guidato, già solo nel lustro a venire, lo sviluppo primo di quello che sarebbe presto finito per essere riconosciuto come il sottogenere stilistico intrinsecamente nordamericano più apprezzato dei tempi recenti.

Il logo della band

Ancora lontanissimi tuttavia dal successo sfavillante di pubblico e critica, quello che li avrebbe a brevissimo fatti scoprire e girare il mondo dopo le suggestive apparizioni al celebre Roadburn a partire dalla prima del 2008, subito immortalata nell’omonimo live album, i Wolves In The Throne Room accolgono nel 2005 il loro secondo chitarrista in studio nei panni di Rick Dahlen e con esso compongono e registrano, nel demo sprovvisto di effettivo titolo del medesimo anno, in particolare quasi quaranta minuti di musica illuminata al chiaror di cera da un bagliore rispettosamente imprestato dalla luna, gettando nel farlo le basi di quello che sarebbe stato “Diadem Of 12 Stars”. I due lunghissimi brani in oggetto, decisamente lontani dall’essere solamente una versione embrionale degli omonimi successivi completata da quella che poi resterà invece l’esclusiva ed oggi misconosciuta “Dagger Of Amethyst Crystal” (alcune delle cui pregevoli idee finiranno comunque, seppure in altra forma, nel cuore del debutto), sono infatti una vera e propria prova di pre-produzione per l’ormai prossimo primo disco del clan Weaver, nuovamente un trio in seguito all’uscita del fugace contributo di Nick Paul in fase di assestamento, che sbarca così con il favore dell’effettivo promo d’anticipazione su Vendlus Records (tra il 2003 ed il 2008, con dei non affatto alieni Agalloch e relativi sperimentali capitoli estemporanei “The White” e “The Grey”, un catalizzatore importante nello sviluppo sotterraneo di una marcata sensibilità naturalistica di un territorio in musica che, rapida, corre parallela nel coevo esordio dei Fauna e diventa fervido humus di sottobosco, umido e ricettivo per la diversità delle evoluzioni degli Skagos in “Anarchic” quanto quelle dei Moss Of Moonlight in “Seed” durante decennio successivo) già pronto a lavorare sul cospicuo materiale inclusovi come importante punto di partenza per poter finalmente immergere il volto pallido nello specchio increspato del tempo, facendo grondare nella sua infinita pozza svariate gocce di quel che sarebbe stato.

La band

Per conseguenza, l’impersonificazione effettiva della corona di dodici stelle dell’immortalità, della regina dell’Apocalisse sistematasi sul suo trono, è quella di una tempesta pagana e spiritica d’acqua, aria, fango, di forza ed intensità travolgenti; l’odore di terra bagnata è percepito viscerale, il fiume canta pieno ed il fitto cupo delle fronde cela il rituale allucinato di magia silvana ed ancestralità mentre lo sciamano incide con i suoi primordiali utensili a sei corde foglie di un verde scuro e brillante, da cui sgorgano linfa vitale rossa come sangue e premonizioni di sventura mortale al battito delle percussioni ripetitive e magnetiche di Aaron, ricche di pathos e fill capaci di catalizzare qualunque attenzione anche su velocità e pattern estremamente reiterati per un’ora secca. La voce acida e straziante di un Nathan Weaver nel 2006 già perfettamente in grado di riversare sull’ascoltatore il peso intero di un’esistenza temporale senza salvezza, dell’acuta sofferenza di un mondo la cui contaminazione profonda sta minacciando l’anima di tutto ciò che di puro vi esiste (nei mirabolanti ed allibenti, rovinosi giri ipnotici ma veementi della prima parte della suite “Face In A Night Time Mirror”, poi inaspriti ancor di più verso soglie d’abrasione spaventose all’attacco e sviluppo della seconda – preludio stilistico del già immortale classico “Vastness And Sorrow” dal successivo “Two Hunters”), viene incastonata in un Black Metal comunque preziosamente ingentilito da dettagli e propensioni armoniche così come accade fin nella rifinita ed espansa opener, il manifesto “Queen Of The Borrowed Light” provvisto di break di sognanti rimbalzi acustici in scintillanti riflessi e soprattutto delle clean vocals femminili di una Jamie Myers stralunata profetessa di shelleiana memoria incarnata, che tanto, insieme agli sforzi pressoché coevi in questa direzione dei ricordi d’un altro mondo degli Alcest, faranno nello sdoganare nuove sensibilità d’intreccio atmosferico ed impalpabilità eterea nel genere.
La breccia è pertanto finalmente aperta e quanto mai ampia: i Wolves In The Throne Room impiegano abbondanti dosi di devastazione Neurosis nella pesantezza trascinata dei lead chitarristici, di Sunn O))) nel carattere e suono droning del coacervo di riff sparpagliato nel mix, della stridente costruzione melodica dei Weakling -del cui produttore di “Dead As Dreams” Tim Green i Weaver si avvalgono, non sorprendentemente all’ascolto, per la registrazione dell’album- sempre grondante dolore ma spogliata di una certa opprimente nerezza bieca (comunque rielaborata e manifesta nella ripresa ultra rallentata, dai tratti ritmici prossimi al Funeral Doom, sia dell’opener che della valanga di mortificante catrame Post-Metal da incubo inserita in “Face In A Night Time Mirror” parte seconda), dell’ipnoticità di Burzum, dei Drudkh e della ferocia fiabesca degli Ulver in egual misura, per rompere per primi, una volta e per tutte a partire dal 2006 (fatta eccezione di apripista, in tal senso, soltanto per i Negură Bunget del forse ancor più innovativo e scardinante “Om” dello stesso anno, se non di “‘N Crugu Bradului” del 2002), la linea di una tradizione fatta d’ipnotismo e reiterazione in musica nera che, in un certo senso, prescinde fino a quel momento dall’impetuosità più volubile e repentina – trovata invece, da sempre, alternata o separata in chi nel suo Black Metal aveva preferito l’efferatezza alla perizia della costruzione atmosferica. È invece proprio nel muro di suono tra violenza, fervore, ma anche malinconia straziante e grinta disperata nella morsa tirannica ed inespugnabile di vortici rotondi, circolari e concentrici di grandine, pioggia acre e ribellione dell’anima che i tre cascadiani congiurano trame fittissime e voluminose al contempo, e coniugano nella prima decade del nuovo millennio i due (e più) volti maggiormente ascrivibili ad un genere ancora lontanissimo da aver espresso tutto il suo potenziale, qui svecchiato mediante picchi di tragicità nelle melodie e nei sintetizzatori astrali della corposa sezione centrale di album come ne fosse il cuore; la metafora dell’urlo inascoltato di uno spirito egoista, morente nel silenzio, nella sconfitta della civilizzazione per come la conosciamo.
Sentimenti di vastità e comunione tra il regno dei morti e quello dei vivi si manifestano pari alla sorprendente, ampiamente eclettica, variopinta palette stilistica impiegata (dalle voci che si inseguono ai colori musicali inclusi), e vi sono colati dentro con tutta l’epica e la poetica della fine di un’era per l’umanità affrontata a denti stretti e cuori divelti nei rallentamenti lancinanti, dalle trasformazioni luttuose (quello sospeso, ricco di assenza che apre la title-track su tutti, un precedente fenomenale per gli Altar Of Plagues di “White Tomb” del 2009 e della successiva deriva di Post-Black Metal atmosferico decadentemente alienato ed anti-urbano), tra ermeneutica della conclusione in un ventre di fuochi e fiamme di Beltane sbracciate verso il cielo, ecologismo e preservazione, sopravvivenza e valori d’ascetismo religioso in estinzione di chi sa che, se una simile era dovrà infine trionfare, quantomeno riuscirà a lasciarvi nelle rovine come eredità l’eco del dolore per qualcosa di perso e che non potrà mai più essere: è la forza della natura, l’invocazione di Medbh nel suo carattere più aspro ed elegantemente sprezzante, regale e squisitamente povero al contempo, scarno e pienissimo, attuante una spietata vendetta nei confronti dell’invasore irrispettoso che, come vorace lupo soppiantatore ma novello Giacobbe tuttavia destinato alla tragedia, si è insediato nella sala del trono sperando di farla franca in un imperdonabile processo di spudorata teomachia – e della Triplice Dea Madre, in Ecate impietosa e gloriosa tanto quanto la mano di un Dio incurante dell’innocente, in Persefone che si fa musica da ultimo nel cambio d’umore atonale orchestrato con visione ed attenzione cinematografiche, quasi fotografiche nei venti maestosi minuti della titanica conclusione omonima, e con Artemide che sigilla così di splendore un concept album che è viaggio di ammirazione del profondo attraverso il rogo di scritture che parlano dell’uomo, non più re scellerato pieno di frenetici desideri ma forse finalmente libero, quanto di tutto ciò che lo circonda.

Quella di “Diadem Of 12 Stars” è pertanto la storia di un primo ma fondamentale passo di completezza espressiva al limite dell’apercettivo e del trasognato, di un debutto dal carattere di fortissima seclusione stilistica, eppure, fenomenale sia nel suo autoconclusivo sviluppo interno che come spinta esterna nel suo ambiente; uno che verrà persino superato per qualità e concentrazione già dal successivo, cardinale ed ancor più cruciale, definente e trascendentale “Two Hunters” permettendo ai Wolves In The Throne Room di affilare armi, obiettivi, denti ed artigli (nonché approdare al roster Southern Lord Recordings), ma che con il suo spiccato gusto e grazie alle più concentrate evoluzioni prossime della band dall’anno successivo in poi, già autrice protagonista di una rivoluzione stilistica, contribuirà fortemente a cambiare nuovamente il volto di un genere intero unendone la proverbiale intransigenza -qui abbracciata e persino esplorata nel profondo dei suoi mezzi- a nuove possibilità interiori fatte di vette spirituali che s’innalzano tanto quanto gli slanci struggenti di chitarre gemelle in sustain dal timbro infinito come la magnifica influenza che il suono in procinto di divenire popolarmente noto con l’epiteto cascadiano (dall’omonima bioregione incontaminata di provenienza della band dei fratelli Weaver nel Pacific Northwest nordamericano) avrà sul mondo del Black Metal contemporaneo – e che tra fumi dall’odore inebriante e nella trasposizione della chitarra acustica di un cantore di tempi remoti prestato al più attuale presente, presterà voce aurale come mai prima all’essenza più incontaminata e senza filtro delle forze naturali, nel dialogo atemporale con antenati spirituali specchio vitale di ciò che siamo, governanti sullo scranno più alto il cosmo intimista del collettivo tramite la propria musica nel restante corso del decennio ed oltre, destinato a non essere solo un movimento di passaggio nella seconda metà dei 2000s bensì finendo per essere l’effettivo collante estetico con il successivo.

Matteo “Theo” Damiani

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