Primordial – “Redemption At The Puritan’s Hand” (2011)

Artist: Primordial
Title: Redemption At The Puritan’s Hand
Label: Metal Blade Records
Year: 2011
Genre: Black/Folk Metal
Country: Irlanda

Tracklist:
1. “No Grave Deep Enough”
2. “Lain With The Wolf”
3. “Bloodied Yet Unbowed”
4. “God’s Old Snake”
5. “The Mouth Of Judas”
6. “The Black Hundred”
7. “The Puritan’s Hand”
8. “Death Of The Gods”

Come ci si dovrebbe sentire dopo essere usciti vincitori dagli ultimi sei anni di attività dei Primordial, dopo aver prima toccato con mano il crudo, grondante cuore di tenebra trafitto da “The Gathering Wilderness” e poi attraversato le più grandi ed eterne città che furono, in fiamme sulle note di “To The Nameless Dead”? Quanto può essere difficile mantenere il contatto col drammatico sguardo-realtà maturato attraverso tali esperienze, mentre là fuori i tuoi ultimi due album riscuotono consensi in ogni dove e le tue esibizioni (prima tra tutte quella nella natìa Dublino immortalata nel riuscito DVD con annesso documentario celebrativo “All Empires Fall”) consacrano la tua creatura quale metro di paragone per qualsiasi altro live act nel suo genere? Certo è difficile immaginare questi truci irlandesi stravaccati in lussuosi camerini a contare royaltes inviate da Metal Blade Records poco prima di show tenuti davanti a folle oceaniche, ma a posteriori il rischio che i cinque hanno corso al tramonto della prima decade del nuovo millennio è stato proprio quello di sedersi sui proverbiali allori e ristagnare negli strascichi sonori e tematici del magnifico ed acclamato lavoro edito nel 2007, un po’ come accaduto più tardi al culmine dell’approvazione in certe opere di altri nomi pregevoli tipo Månegarm o Saor (seppur forse solo parzialmente vero per entrambi ed al momento della scrittura di questo articolo anche felicemente superato dai primi).
Basta però una crepa nella colonna portante a far capire alla band che, se è vero che ogni impero può crollare, allora quello da loro stessi eretto può farlo prima di quanto pensino; un concerto ad Atene riuscito male, qualche parola o gesto di troppo, e Simon O’Laoghaire è fuori dai giochi. La ricerca di un sostituto è del resto un’opzione contemplata giusto per alcuni mesi, dacché rimpiazzare un batterista dal talento, gusto e personalità simile, seriamente introvabile altrove, nonché -e forse ancor più- un affezionato compagno d’armi per quasi tre lustri di vita on the road non è soltanto impossibile, ma pure nettamente contrario alla mentalità portata avanti dai Primordial sin dalla fondazione: un manipolo di fratelli che fissa il nemico negli occhi, lo affronta a viso aperto e sopravvive solo grazie alla forza insita in una line-up dalla stabilità, alchimia magica e coerenza interna più unica che rara.

Il logo della band

Più che di aperta rivalsa, “Redemption At The Puritan’s Hand” è un lavoro che sa fortemente di espiazione: il martirio dell’anima successivo a quello della carne e dopo il quale, a sua volta, si dischiude la bianca luce della purezza raggiunta, per quanto essa possa comunque essere di nuovo smarrita in ogni momento. Coloro che quattro anni prima erano i più intrepidi tra i soldati si risvegliano ora come i più meschini tra gli uomini, tramortiti non da un esercito avversario ma dall’incrinarsi della fede puritana, debolmente antropica, nei rapporti interni e di quel calore irlandese ribadito in molteplici occasioni dal verace condottiero dalla lingua di veleno Nemtheanga. Le tensioni in seno alla formazione fanno scendere a patti i Primordial col carattere umano della propria mortalità, dovuta infatti al tiranno scorrere del tempo e al conseguente inaridirsi fisico ed emotivo anziché al romantico ideale del sacrificio in battaglia, più che vagheggiato analizzato e studiato in precedenza; non sorprende quindi che il settimo full-length sia ad oggi definito the death album dai suoi autori, e che si presenti anche esteticamente in maniera speculare rispetto agli altri (il già citato bianco virgineo, accompagnato dall’aura di arcana contrizione instillata dalle medievali, religiose litografie a corredo dei testi). Sebbene musicalmente distanti dal sound crepuscolare di “The Gathering Wilderness” o dalle soluzioni intimistiche del futuro Exile Amongst The Ruins”, gli otto stupendi capitoli del disco esprimono una forza tragica a quel punto inedita persino per i Primordial stessi, ottenuta sovrapponendo alla carica epica del qui per nulla accantonato “To The Nameless Dead” diversi accorgimenti di carattere compositivo, eterogenei a sufficienza per rendere ogni traccia un passaggio irrinunciabile nella fruizione dell’opera: ci sono così i trascinanti cavalli di battaglia sovente riproposti dal vivo, le suggestioni celtiche del dittico registrato un decennio prima sotto Hammerheart, il mai dimentico Black Metal testardamente reinterpretato e vissuto a modo proprio sin dai tempi di “Imrama”, tutti mescolati ad ulteriori modalità espressive e a liriche d’intelligenza e profondità uniche, dai soliti mille risvolti, tra metafore storiche acutissime e spietate riflessioni sulla condizione di quel fedele, di quel credente e di quell’ateo, del guerriero senza guerra. Dell’uomo.

La band

Tutti i figli di Dio devono morire, eppure “No Grave Deep Enough” è l’ode ad una Nera Signora che ha dismesso ogni parvenza divina, e anzi irride la vacua santità dei sermoni rovesciati trascinando con sé chi ancora non vi è pronto. Nessuna kalos thanatos dunque, nonostante il brano sia un inno tra i più esaltanti che si possono trovare nelle scalette dei dubliners, con un Alan Averill che decora gli implacabili riff con personalissime metriche fluviali mentre dietro al drum-kit Simon O’Laoghaire si scatena coi galvanizzanti triplici colpi di marcia serrata sul rullante, dettando una processione funebre pagana che culmina con una presa di coscienza degna delle morality tale medievali: solo ammettendo a noi stessi la natura spontanea, acausale ed inarrivabilmente democratica della morte saremo in grado di affrontare serenamente il trapasso, così che nessuna tomba si riveli profonda abbastanza da tenere il nostro spirito in catene. Prima del supremo momento vi è però un lungo cammino di decadenza, in cui il fiero lupo, l’Avversario che è dentro di noi si ritrova costretto a fare i conti coi demoni dell’età. Non è un caso che “Lain With The Wolf” sia l’episodio maggiormente legato ai Primordial che furono; la band guarda al proprio passato intessendo i vari movimenti sul classico andamento caracollante di una chitarra pulita carica di delay, sentita più volte nel corso della discografia e qui marchio della loro stessa demoniaca bestia, con la quale i cinque hanno imparato a correre senza esserne divorati – perché scesi ad amari patti con ciò che sono. Ci si ritrova quindi attorno ad un tavolo, con un Tullamore Dew in mano e gli stessi amici, gli stessi commilitoni spirituali di sempre, di mille battaglie vicine e lontane ad intonare la stessa vecchia canzone, nello specifico quella “Bloodied Yet Unbowed” che è commovente, impareggiabile manifesto di rinnovata fratellanza verso chi ha condiviso insieme a te gioie e dolori sui palchi di tutto il mondo; quasi nove minuti di cuore puro, di crescendo emotivo senza alcun filtro, con un’accelerazione straziante nella seconda metà ed una successiva ripresa finale che pare una freccia infuocata dritta verso il Paradiso, a coronamento di un testo ad una lettura semplicistica magari anche banale (in realtà dalla profondità infinitamente più grande della vita) ma dal quale è letteralmente impossibile non essere trasportati – fino alla fine, non di meno. Alla metafora ecclesiastica sfaccettata e blasfemata nel pezzo trionfale per eccellenza non può seguire che “God’s Old Snake”, la cui atmosfera gotica ed ermetica viene restituita dalla magistrale prova del vocalist, in grande spolvero tra pulito, ringhio e perfino cori a doppia voce che tanto segneranno come eredità stilistica le successive imprese in “Where Greater Men Have Fallen” ed “Exile Amongst The Ruins”. E ciononostante, l’andamento spedito ed il minutaggio limitato (benintesi, sempre secondo la media del lavoro) la rendono quasi un interludio prima di un altro capolavoro fatto e finito: la ricerca del posto dell’uomo nella realtà attorno a lui viene condotta non dall’impavido eroe ma dal bugiardo omicida, dal Caino a bordo di una nave dalle vele nere mentre la tempesta dei sensi di colpa lo spinge via via verso gli scogli. Forse la più cinematografica del lotto, “The Mouth Of Judas” è uno stream of consciousness sul concetto di espiazione dal maestoso crescendo, con placidi arpeggi clean alternati a soavi aperture elettriche fino all’enorme linea chitarristica conclusiva, odorante salsedine ed intima dannazione eterna. A spingere in questa folle impresa geografica all’interno di sé può essere storicamente la fede, la stessa che allevia il supplizio della gretta “The Black Hundred” voluto dal progresso a forma di gulag per chi si oppone alla secolarizzazione non tanto del culto quanto dello spirito, in quello che riempie l’aria di tisi per inusitata enfasi ritmica (magistrale ancora una volta la ripresa nella seconda metà di brano) e fa da prosieguo strutturale della cornice interna iniziata in “God’s Old Snake”; e a seguire vi è del resto un secondo vertice massimo, colpo da maestri di potenza visiva, brillantemente vergato non per caso dallo schivo Pól MacAmlaigh. Il sole schiacciante, implacabile occhio divino che tutto vede e tutto punisce, brucia le terre a sud dell’Eden ove deambula l’incipit di “The Puritan’s Hand”, sorretto dalle gorgoglianti quattro corde in cui ribolle tutto il bagaglio Doom mai sopito degli irlandesi qui al suo punto più alto in assoluto. La mano del puritano giunge così inattesa ma irrevocabile, bruciante, con un terremoto strumentale che stritola il peccatore morente per elevarlo poi alla virtù perduta: preghiere e rosari per paura dell’Inferno non serviranno a nulla, bensì solo la Fine in sé e per sé ha il potere di farci capire quanto, poco o tanto, valiamo. La redenzione senza grazia infine c’è stata, e la titanica “Death Of The Gods” ci restituisce i Primordial nel pieno vigore fisico e ideologico del precedente opus. Su di un tappeto grandioso a base di inscalfibili melodie dai toni e ritmi squisitamente Folk, Averill chiama a raccolta tra antico, presente e visibile futuro la resistenza di ribelli e partigiani tra i popoli oppressi dell’Europa in piena crisi economica (l’Irlanda come la Grecia di Zeus e l’Italia di Marte) per un ultimo assalto al tiranno invisibile, orchestrato dal gigantesco refrain e dalla coda affidata al patriottico monito di Padraig Pearse.

Si chiude pertanto nell’unico modo possibile “Redemption At The Puritan’s Hand”, con cinque compagni scottati dal sole rovente, feriti dalla vita e dalle sue incomprensibili circostanze ma tornati, seguendo proprio quelle cicatrici che sono segno di gloria immortale più che di un fallimento, ad imbracciare le armi in vista della prossima battaglia, la quale li porterà fin dove gli uomini tra i più grandi sono caduti. Sebbene mai ripetuta senza andare a modificare di pari passo l’impianto sonoro e compositivo, l’intensità sospesa tra dramma e gloria del fin troppo poco celebrato disco bianco rimarrà parte dei Primordial nondimeno nel successivo Where Greater Men Have Fallen”, parziale ritorno all’enfasi del 2007 passante però anche per i toni dimessi ed incredibilmente maturi che ne sono conseguenza di percorso in “Babel’s Tower” e “Born To Night”.
Dieci anni fa oggi, la truppa etena di Dublino esce pertanto per la prima ed unica volta nel suo granguignolesco cammino da una travagliata prova in studio (una confessione in stati febbrili fatta di malessere fisico, ma anche morale) come sopravvissuta piuttosto che vincitrice, ingiustamente messa a confronto col proprio simulacro riflesso dentro uno specchio incorniciato di clessidre, teschi e tibie; il defunto scheletro dal cuore ardente, traboccante d’anima è immagine tutt’oggi attuale di questo straordinario gruppo musicale, la cui apparente pulsione di morte nasconde in realtà un immenso attaccamento alla vita, espresso come non mai nel 2011 quando degli invitti Primordial si sono sfrontatamente rifiutati di morire consegnando alla storia un disco irripetibile nel suo genere.

Michele “Ordog” Finelli

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