Primordial – “Where Greater Men Have Fallen” (2014)

Artist: Primordial
Title: Where Greater Men Have Fallen
Label: Metal Blade Records
Year: 2014
Genre: Black/Folk Metal
Country: Irlanda

Tracklist:
1. “Where Greater Men Have Fallen”

2. “Babel’s Tower”
3. “Come The Flood”
4. “The Seed Of Tyrants”
5. “Ghosts Of The Charnel House”
6. “The Alchemist’s Head”
7. “Born To Night”
8. “Wield Lightning To Split The Sun”

“For those who buried their sons
Under bone white crosses
For those who saw their daughters
Virtues were taken by invading forces”

Con questi versi aspri e fortissimi si apre “Where Greater Men Have Fallen”, ottavo album in studio degli irlandesi Primordial giunti al traguardo -con l’uscita di questo disco- di ben ventotto anni di onorata carriera (se si considera il periodo tra il 1987 ed il 1992 a nome Forsaken, devoto ad act quali Bathory e primissimi Venom).
La straziante estetica forgiata dalla band nel 1993 mediante il demo “Dark Romanticism…” si rivela non essere mutata negli intenti nemmeno quasi sei lustri dopo, al contrario di una maturazione stilistica e concettuale fuori dal comune, dimostrata durante il percorso sulla lunga distanza incominciato con quell’influente “Imrama” del 1995 (Cacophonous Records) e continuato mediante le coraggiose e sempre azzeccate virate che non hanno mai minimamente accennato a tradire o mutare nell’essenza il sound dei cinque irlandesi capitanati dal carismatico Alan “Nemtheanga” Averill.

Il logo della band

Il sodalizio PrimordialMetal Blade Records pare essere più forte e proficuo che mai, considerato l’ingresso dei Nostri nel roster dell’etichetta con il quinto disco (quel “The Gathering Wilderness” della conclamata maturazione) nell’ormai lontano 2005. E’ infatti per la quarta volta l’originariamente californiana etichetta a portare sul mercato discografico la nuova fatica del combo irlandese che, come un vino pregiato, continua ad alzare l’asticella del gusto qualitativo nonostante il passare del tempo.
Al netto di un trademark ormai più che assodato e distinguibile, chiaro e palese al primissimo ascolto, il rapporto tra la lunghezza complessiva del disco e la lunghezza media delle tracce è pressoché invariato rispetto alle immediatamente precedenti release: otto brani di medio-lunga durata formanti un disco di circa un’ora di timing.

La band

“Where Greater Men Have Fallen” si apre con la title-track resa disponibile in anteprima al pubblico un paio di mesi prima dell’uscita ufficiale del disco. La disperazione è encomiabilmente trasmessa tramite le linee vocali e l’esecuzione nella sua struttura dinamica e crescente è annichilente. La cacofonia vorticosa delle chitarre rende finanche visibile e soffocante la coltre di sangue e polvere che copre la storia di ogni popolo e nazione, con ogni caduto in suo nome o per essa. Pronti a morire e soffrire ancora, ma non senza combattere per poter cambiare almeno in vita un destino dal (solo) finale già scritto.
“Babel’s Tower” si assesta su tempi decisamente più lenti e l’anima Doom della band emerge preponderantemente, garantendo da subito grandissima varietà al disco grazie anche all’accompagnamento di classe degli archi soffusi, ma -in primis- al raffinato lavoro chitarristico del rinomato duo MacUilliamO’ Floinn che garantisce un tappeto sonoro sempre presente nel pezzo così come nel resto del disco e nella seguente “Come The Flood”, scelta come secondo singolo per merito della sua immediatezza e vicinanza maggiore allo stile già impiegato dalla band in episodi passati (basti pensare a “The Gathering Wilderness”), nonché alle sue tematiche. La melodia in questo caso si fa pregna di dolore e le ritmiche sono ancora una volta lente e decadenti, ma più cadenzate grazie alla melodia tradizionale e un approccio più intimamente Folk-oriented, specchio e metafora di una sofferenza che non accenna ad andarsene con il tempo e senza interventi (con grosso richiamo a “End Of All Times (Martyrs Fire)” ed il suo magnifico testo, contenuta proprio nel full-length del 2005).
L’accoppiata “The Seed Of Tyrants” e “Ghosts Of The Charnel House” ci mostra i Primordial cambiare ancora una volta (o due?) pelle: il primo è senza dubbio il pezzo più furente del platter, le ritmiche più estreme e veloci che mai riportano alla mente episodi da “Storm Before Calm” (Hammerheart Records, 2002) o anche una più recente “Traitors Gate” (da “To The Nameless Dead”, 2007). Le sovrapposizioni vocali di Alan e la sua interpretazione coraggiosa e furibonda portano ancora una volta a casa il risultato, in quello che risulta a tutti gli effetti un inno -musicalmente e liricamente- a conquistarsi e prendere il proprio benessere senza arrendersi, con tanto di critica più o meno velata ai poteri forti di chiesa e stato (la tematica cara al celebre William Blake è un validissimo paragone, nemmeno casuale, e scopriremo il perché tra poco).
La già prima citata “Ghosts Of The Charnel House” ci riporta in uno sporco pub irlandese di periferia, per il suo stile oscuro, fumoso (qui un plauso all’impeccabile produzione di Jamie Gomez Arellano ed i suoi Orgone Studios di Londra è assolutamente necessario) e richiamante la tradizione Doom Metal della prima metà degli ’80 tra Candlemass, Saint Vitus e Black Sabbath, tuttavia con tutto il flavour e la brillantezza compositiva propria dei Primordial.
La particolarissima “The Alchemist’s Head” è invece un omaggio del cantante irlandese al già accennato poeta ed artista a 360° William Blake, dove l’atmosfera tetra, drammatica, ipnotica e spettrale, rincorre le partiture di metal estremo e gioca con la maligna voce di Alan, per quello che si dimostra essere uno dei pezzi più validi del disco. L’accoppiata finale è da brividi e regala, dopo ripetuti ascolti, i momenti di più alto valore del lavoro: “Born To Night” è folkloristica nel suo incedere e richiama gran parte dello stile per cui i Primordial sono noti, ma lo fa con una vena incredibilmente epica; una cavalcata irresistibile ancora una volta impreziosita dalla performance inarrivabile del sanguigno cantante. Il folklore lo ritroviamo ancora nella conclusiva “Wield Lightning To Split The Sun”, che rappresenta anche il pezzo più bello del disco -in caso si dovesse sceglierne uno!- con i suoi sette minuti carichi di teatralità, pathos, ode alla natura e tutto quello che rappresenta per l’uomo (la salvezza stessa, forse?). Una composizione dolorosamente bella, quanto l’episodio metaforico di un “fulmine che spezza in due il cuore” come il tronco di un albero.

L’ascolto difficile coincide con il ritratto più vero dell’Irlanda, costruita su anni di oppressione, rivolte annegate nel sangue, dolore ed incredibile sofferenza che si manifesta ancora una volta in tutto il suo tragico splendore in “Where Greater Men Have Fallen” e, più in generale, in un disco dei Primordial.
Perché s’è vero che non esiste storia o nazione che non sia stata costruita su sangue e tragedia, s’è vero che anche gli uomini migliori falliscono e infine cadono, allora è altrettanto vero che non esiste tomba abbastanza profonda da contenere uno spirito che vuole essere libero, e che feriti e sanguinolenti ma non piegati possiamo rialzarci, perché la condizione umana insita in episodi come quello delle navi-bara dovrebbe insegnare che, comunque vada, il nostro futuro, il nostro destino e la nostra salvezza non dipendono da altri che noi stessi e le nostre azioni.
Da gustare insieme ad una pinta di Guinness dal retrogusto amaro. Amaro come “Where Greater Men Have Fallen”. Amaro come la vita stessa.

“This dreadful history we have sired
Is the black bleached future you have desired”

Matteo “Theo” Damiani

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