Nachtmystium – “Silencing Machine” (2012)

 

Artist: Nachtmystium
Title: Silencing Machine
Label: Century Media Records
Year: 2012
Genre: Experimental Black Metal
Country: U.S.A.

Tracklist:
1. “Dawn Over The Ruins Of Jerusalem”
2. “Silencing Machine”
3. “And I Control You”
4. “The Lepers Of Destitution”
5. “Borrowed Hope And Broken Dreams”
6. “I Wait In Hell”
7. “Decimation, Annihilation”
8. “Reduced To Ashes”
9. “Give Me The Grave”
10. “These Rooms In Which We Weep”

I profili svolazzanti e graffiati di nere creature si stagliano all’orizzonte sul creato morente e abbandonato, intente a tracciare deformi cerchi di stanca: linee confuse, rotte, lente, come solcate da un ubriaco che facendosi beffa del divino strumento della perfezione si affannasse confusamente su un compasso disegnando un eterno girotondo di stagnazione, decadenza e disfacimento. In primo piano l’inconfondibile figura di un teschio che conserva indelebili nelle pallide cavità oculari l’orrore di un’intera civiltà; deformato in un’espressione di angoscia, gravato da un peso secolare che poggia sulle sue spalle ormai dislocate; ciò che resta di una mano scarnificata viene affondato in un ultimo moto di vigore nella terra arida e la mandibola si piega meccanicamente in quello che sembra l’estremo urlo di disperazione. Un dolore inaudito e percepibile, un grido d’aiuto lanciato nel vuoto e destinato a rimanere inascoltato.
Nonostante gli elementi menzionati e i sentimenti suscitati siano in un certo modo accostabili, questa non è la descrizione di una delle più iconiche copertine che il Black Metal norvegese degli anni ‘90 prese in prestito da Kittelsen; ma è la presentazione visuale del sesto disco di un artista, all’anagrafe Blake Judd, che proprio con Vikernes condivide la visione di un mondo proprio e inconfondibile, fondato in principio su pochi punti fermi via via diramatisi nelle più varie e differenti declinazioni. Due artisti che condividono oggi il triste destino dell’essere ormai associati a fiumi di parole che troppo spesso mettono da parte il loro reale valore e la loro cristallina potenza espressiva, ma che li vede entrambi nei primi anni ‘10 del millennio in corsa al raggiungimento, il primo con “Silencing Machine” e il secondo con “Fallen” ed “Umskiptar”, di una sintesi elegante, sottile e spietata della loro arte.

Il logo della band

Certo, ridurre i Nachtmystium al solo operato del suo fondatore sarebbe, nel lustro che intercorre fra il 2008 e l’uscita del loro sesto full-length, tremendamente riduttivo: se lo stupefacente “Assassins: Black Meddle – Part I” suona mutevole ed estroso per via delle sue inedite e liberissime venature acide, i brani che lo compongono sono, per stessa ammissione di chi ha preso parte alle registrazioni, in grandissima parte frutto di svariate jam session intorno a quelle che inizialmente erano solo idee abbozzate dal volto della band, e l’apporto di quelli che nei crediti del disco sono semplici ospiti come Sanford Parker, Bruce Lamont o Tony Laureano gioca in verità un ruolo tutt’altro che relegato all’apporto di ritocchi, altresì cruciale nel rendere così fluida una tale esplosione di estro; esperienza dunque per larga parte collettiva che si ripete con il gemello eterozigote “Addicts”, sebbene in modo molto più consapevole e focalizzato, in conseguenza alla maggior consapevolezza maturata di quello che sembra essere un collettivo di musicisti e sperimentatori del suono nel quale ognuno mette del proprio (situazione per certi versi vissuta in parallelo da Judd e condivisa con alcuni nomi comuni anche nel progetto Twilight, i quali, fra gli altri ed oltre allo stesso Parker, vedeva in quel momento la partecipazione non trascurabile di gente come Wrest, Aaron Turner e Thurston Moore).
E se in quanto a collaborazioni menti trasversali e volti ormai noti avvicendatisi per la sua realizzazione “Silencing Machine” non si dimostra certo da meno, questo nuovo capitolo discografico si presenta tuttavia fin dalle prime battute come un’uscita in cui la visione univoca e maggiormente solida di un singolo prende il sopravvento: da un lato il fatto di avere raggiunto in quegli anni una line-up ormai più solida e in grado di assicurare loro un’assidua partecipazione a tour internazionali rende la composizione maggiormente direzionata verso strutture più coerenti e più facilmente riproducibili in sede live, ma dall’altro l’impressione è che Blake Judd abbia nuovamente salde le redini in mano e sia fin dal principio intenzionato a dare determinate linee alla nuova opera: un suono dal taglio molto più abrasivo, con una solida visione d’insieme che conduca a linee aspre e oscure solo apparentemente meno estrose, supportate in quel verso anche dalla reintegrazione del membro di vecchissima data Andrew Markuszewski, e nondimeno filtrate dall’esperienza segnante del dittico “Black Meddle” in grado di fornire allo spettro sonoro del progetto una quantità di variazioni, preziosismi e tecniche pressoché illimitata.
Ad un approccio più sanguigno si collega in filo diretto il mondo deviato nella struttura ma solidamente Black Metal di “Instinct: Decay”, le cui congiunzioni sinaptiche frastagliate come filo spinato avevano costituito il primo reale e tangibile tentativo riuscito nell’instillare quella carica psichedelica e penetrante nelle note nere della band; peculiarità che per quanto percepibili fin dalla sua uscita nel 2006 vennero realmente comprese e apprezzate fino a fargli raggiungere uno status di disco imprescindibile in una retrospettiva successiva almeno al primo “Black Meddle”, capace quasi di aprire gli occhi su quelle che erano delle influenze già presenti nel substrato compositivo del disco dalla copertina bluastra. Una fama, quella relativa ad “Instinct: Decay”, che li porta a suonarlo nella sua interezza al rinomato Roadburn nel 2012 e che in qualche modo va a porsi simmetricamente rispetto alla parentesi vulcanica del dittico centrale con ciò che gli americani decidono di comporre quello stesso anno; se infatti può venire naturale pensare a “Silencing Machine” come una continuazione di quel periodo per via delle proporzioni con cui le varie componenti giungono all’orecchio in un primissimo momento, il nuovo lavoro si carica dell’esperienza mastodontica maturata nell’intervallo di tempo appena precedente, arricchendosi e vivendo dunque di un approccio rivoluzionato e di una maturità di tutt’altre proporzioni.

La band

Così pezzi come l’opener “Dawn Over The Ruins Of Jerusalem” o “The Lepers Of Destitution”, pur nei rumorismi elettrostatici quasi Noise, non possono che illuminare nella loro travolgente ondata di riff ellittici che hanno fatto e che qui continuano a fare dei Nachtmystium una delle band in grado di attribuire certi distintivi caratteri al così difficilmente definibile mondo USBM: una linea sfavillante di melodia sommersa di rumoristica e progressioni desuete, in un approccio che dai Weakling di “Dead As Dreams” passa per i Wolves In The Throne Room (le cui strade si incrociano qui per un Will Lindsay al basso già presente dietro alle corde di “Black Cascade”), per incappare nelle tragedie dilanianti dei Leviathan; a questo moderno mondo tipicamente a stelle e strisce si va tuttavia ad aggiungere un’oscurità esportata direttamente dai recessi più neri del Vecchio Continente e una passione febbrile per realtà ben distanti dall’universo Metal. Il tutto veicolato con un’indipendenza espressiva che, se già da tempo veniva con ragione associata al progetto, viene qui non barattata ma convogliata con una capacità compositiva assicurata da istinto, mentalità e attenzione.
In tal direzione i primi minuti del disco giocano con la percezione dei sensi, disvelando solo una minima quantità delle carte che Judd e soci realmente riveleranno nel corso dell’intero platter: fra queste, in pezzi come “Decimation, Annihilation” si impone una tendenza Industrial completamente differente da quella intrapresa dall’altro lato dell’oceano in ambito della nera fiamma, con una maggiore vicinanza non casualmente geografica a suoni e strutture dal sapore locale Nine Inch Nails e Ministry, in un retroterra sì vicino a sperimentalismi quadrati ed elettronici, ma sempre dall’anima ribelle, umana e scanzonata, tutt’altro che asettica e al contrario più vicina a derive Alternative. Di pari passo l’inserimento di loop di sintetizzatori modulari in stile Killing Joke, in certi punti preponderanti e in dialogo con il drumming, mentre in altri invece sommerse nel mix, sono solo la prima avvisaglia delle numerose scelte vicine all’universo Darkwave che si susseguono lungo tutta la tracklist, brillando nei toni emozionali e dal tocco The Cure di “Borrowed Hope And Broken Dreams”.
Ma tutte queste influenze vengono veicolate con una naturalezza che si fa sottile, subdola e spontanea; non con la grandiosità della sperimentazione più smaccata, bensì forte di un rinnovato songwriting che è nel 2012 fra i più solidi ed efficaci mai raggiunti dai Nachtmystium: ibridazioni insomma che vengono condotte sottopelle, percepibili ma non aspre, incastonate in ritmiche spesso e volentieri impegnate in passaggi incredibilmente catchy a supporto di ritornelli che, come nella title-track, diventano impossibili da dimenticare, ma che sono supportati da un’infinità di scelte intelligenti e brillanti che ne preservano la durevolezza. Un’orecchiabilità, come quella della pur complessa e strutturata “I Wait In Hell”, che infatti si fonde con una scelta di suono che principalmente per le chitarre si discosta totalmente dalle frequenze Rock adottate poco prima a favore di un estremismo ritrovato, in bilico fra la duttilità nera, sfumata e avanguardistica del Black Metal moderno e un primitivismo più datato dal riffing netto e sporco, in un incedere che non disdegna nemmeno tendenze Crust sporcate di toni apocalittici a là Amebix che costano ai nostri l’appellativo di hooligans sulle etichette promozionali dell’uscita.
Per quanto tuttavia la composizione di “Silencing Machine” sia incentrata principalmente sulle corde, la componente elettronica resta forse quella più particolare e caratterizzante: dai moog spettrali in continua oscillazione su “Reduced To Ashes”, ai rintocchi alienanti e sospesi di “These Rooms In Which We Weep” che sul finale vibrano cristallini della potenza liberatoria di una “Tomhet”, il fatto che quella componente sia stata affidata non solo a Sanford Parker, ma anche a Matthias Vogels dei Murmur e Surachai, rende evidente l’importanza che quel substrato costante ricopre nell’ottenere una miscela densa che da strutture Drone a cascata e tipicamente americane riesce a passare senza discontinuità su ritmiche Post-Punk (“Give Me The Grave”) o atmosferici frangenti epici dai riflessi più spiccatamente luminosi (la già citata “The Lepers Of Destitution”).

La percezione di ciò che in musica possa essere considerato tradizione o esperimento si riduce d’altro canto, spesso e volentieri, ad uno sterile gioco delle pedine in cui i riferimenti diretti alla band stessa spesso per confronto non sono il metro di paragone migliore e più appropriato, se non dopo un’attenta analisi. “Silencing Machine” viene infatti percepito da molti alla sua uscita come un disco fin troppo poco interessante se paragonato alle sperimentazioni psichedeliche più evidenti che dagli stessi erano tuttavia state recepite con freddezza poco tempo prima. Ma nella frenesia del mercato musicale dell’ultima decade o due alla stranezza e all’avanguardia, presunta o meno che sia, non solo ci si abitua, ma ne si chiede sempre di più in una dipendenza che spesso rende ciechi di fronte a lavori in cui l’innovazione viene instillata e ricercata su frangenti meno eclatanti e manifesti: così come “Engram” per i Beherit o “Virus West” per i Nagelfar, ciò che i Nachtmystium suonano nel 2012 è sì Black Metal, ma osservato da un punto di vista estremamente personale, sporcato da esperienze di ruvida ibridazione, raffinato da anni di maturazione ed esperienza, ed esaltato di conseguenza da artisti dal talento indiscutibile in grado di instillare una scintilla di genio in ogni scelta presa.
E se i due dischi appena citati si sono rivelati, per differenti versi, il canto del cigno delle rispettive band autrici, nel caso di quella di Chicago l’uscita in questione -con tutto il suo carico coinvolgente di caos, devianza e ribellione- rappresenta il lavoro di un artista che è al contempo all’apice della sua carriera così come sull’orlo di un precipizio umani dal quale cadrà in un vortice prima personale e poi mediatico e dal quale verrà fuori, totalmente insperato, ancora un “The World We Left Behind”. Ma “Silencing Machine”, a dieci anni di distanza dalla sua uscita, sembra tutto fuorché l’ultimo di un periodo di aurea stabilità della formazione: non solo è l’opera che forse più di tutte racchiude i tanti e alterati volti dei Nachtmystium, ma nel farlo resta focalizzato e spontaneo, in passaggi che riascoltati oggi ancora sono in grado di scavare a fondo con vacillanti dita scheletriche nella terra, nella pelle e nell’anima.

Lorenzo “Kirves” Dotto

Precedente Agalloch - "Faustian Echoes" (2012) Successivo Caladan Brood - "Echoes Of Battle" (2013)