M8l8th – “Nekrokrator” (2023)

Artist: M8l8th
Title: Nekrokrator
Label: Militant Zone Records
Year: 2023
Genre: Folk/Black Metal
Country: Russia

Tracklist:
1. “Sword Shards”
2. “Æsir Rök”
3. “To The Gods Of Mine”
4. “Barritus”
5. “My Shrine Will Stand In Memory Of My Glory”
6. “In A Pall Of Mist”
7. “In Den Tiefen Der Wälder”
8. “Draumþing”
9. “The Chasm Of Niflheim”
10. “The Black Grave”
11. “Beast-Headed Banners Of The Sun”
12. “The Twelve Wanderers And The King”

Come mai, in vita, la morte ci ossessiona tanto? Un pensiero così presente, così penetrante, così soverchiante – così tanto da sostituire troppo spesso la naturale, animale tensione umana alla vita e sviarvi la preoccupazione verso i meandri della fine, del punto di non ritorno che ci sorprende, a cui solo gli eroi delle antiche saghe e degli arcaici miti sembrano essere sempre pronti, predestinati e rassegnati con fare stoico, imperturbabile, come si trattasse solo di coricarsi per un’altra notte di sonno. Forse perché nelle credenze che vi stanno dietro troviamo comunemente la scomparsa terrena interiorizzata quale passaggio, nuovo inizio. Ma che sia in battaglia con ogni onore o traditi nel più meschino dei modi da amici rivelatisi nemici codardi – tutti questi idealizzati volti di fiero marmo sono nondimeno inchinati alla ferrea volontà di un vero e proprio necrocràtore, di questa consapevolezza che si insinua stravolgendo persino il fato: un re di morte che comanda con la sua esistenza nelle loro menti le azioni dei viventi, una todestrieb, la psicanalitica death drive, pulsion de mort. Un archetipico re sotto la montagna come quelli di origine celtica o norrena (cfr. kongen under fjellet, per la sua più nota declinazione folkloristica), in fondo, sovrano di una dimensione altra fatta di scidi e troll, sospesa nel limbo tra terra ed inferi, tra il sensibile di quassù ed i cieli di sotto, tra Miðgarðr e Niflheimr ma che esercita comunque la sua influenza sul regno dei vivi, avendo tuttavia dominio effettivo in quello dei morti e di coloro che non sono nessuna delle due cose. Un modo per l’umanità protostorica di spiegare il mistero del trapasso, ma non solo: una maniera anche abbastanza sofisticata nel suo romanzarsi inerente, nella sua decorazione cosmogonica e cosmologica, per spiegarsi il tentativo stesso di spiegarsi la morte, nelle varie ere e nelle varie età vissute dall’uomo.

Il logo della band

Vi è dunque la necessità di un’escavazione simbolica da laggiù, dalla sacra terra silente di quella proverbiale e metaforica montagna che tende col suo picco verso il cielo, ma i cui piedi la congiungono tuttavia con questo reame magico e soprannaturale. Un pellegrinaggio per riconnettersi a qualcosa di thuleano e perduto: una ricerca di ciò che è da ritrovare sotto terra e negli inferi perché divenuto impossibile da rinvenire nell’aldiquà per i suoi autori. Un ritorno al grembo in contrapposizione alla vita, volendoci rifare un’altra volta alla cara psicanalisi classica; e in questo delicatissimo equilibrio tra tensione di morte, ossessione eroica della fine e spinta alla vita, alla naturale sopravvivenza, v’è sotteso un bilico e contrappeso tanto fragile e prezioso da essere la principale ragione e causa di patologiche distorsioni mentali, deviazioni dalla regolarità cerebrale da cui così tanti eroi nel mito antico europeo sono stati provati. Sigurðr o Sigfrido, rimanendo in terre mitteleuropee e più su, ma anche Ulisse, gli stessi dèi, i superuomini nietzscheani e la loro progenie di moderni supereroi in costume, difensori del loro concetto di bene fino al sacrificio ultimo di cavalieri oscuri e uomini d’acciaio.
Un afflato tragico si nasconde insomma nemmeno troppo fra le righe del mesto eroe ch’è anche paradigma estetico dei M8l8th, affascinati da quel sostrato che unisce mitologicamente cultura slava e cultura germanica in un pantheon di figure divine specchiate dai differenti nomi ma dalle molto spesso quasi medesime caratteristiche e storie, in maniera esplicita almeno fin da “The Black March Saga”“Reconquista”, sebbene fosse con largo margine l’assoluto apice compositivo nel 2018 mai sperimentato ed inciso dalla band di origini russe, fa in un certo senso riottosa eccezione ordinando il meglio ideato e in varie forme rilasciato tra la propria pubblicazione ed il 2013 del suo predecessore; e la sua natura maggiormente breve, quasi anarchica nel suo essere interlocutoria e compilativa nonostante nel complesso non mancasse mai totalmente di integrità stilistica o coerenza tra brani, non lo rende un possibile successore o paragone diretto con il concettualmente ambizioso “The Black March Saga” – già, dal canto suo, un disco che fu all’uscita una prima discreta sorpresa dopo i preamboli molto più grezzi in “Непоколебимая Вера (Unbreakable Faith)” e “Чёрным Крылом (By The Wing Of Black)”.

La band

Per moltissimi versi, il suo vero successore è finalmente pronto e da trovarsi proprio in “Nekrokrator”, dove agli sviluppi musicalmente già alquanto incredibili dell’album di cinque anni fa, fuori cinque anni dopo il precedente punto di svolta, fanno seguito progressi ancor più corposi maturati in un altro lustro. Un disco dove le influenze dichiarate dal gruppo nella serie di rivisitazioni e cover d’omaggio ai propri eroi, principalmente tributi alla controversa congrega Blazebirth Hall nelle fogge di Temnozor (con “White Thunder Roars” oltra alla meno recente “Did-Dub-Snop”) e Branikald (“Microcosm Of The Spirit” lo scorso anno), si mescolano in modo da creare un risultato seriamente unico in cui possano peculiarmente convivere le disparate, raffinate anime degli ultimi Arkona (l’intreccio atonale di lead nerissimi in “Kob’” ed una certa propensione di suono generale), i già citati autori degli “Haunted Dreamscapes” (non le sole voci impiegate così coralmente, ma anche l’uso della materia folklorica in una similar maniera), i commilitoni Peste Noire già sfruttati come modello di suggestione creativa nel 2018 (in particolare nell’uso degli ottoni militareschi come fatto dalla band francese in “Peste Noire Split Peste Noire” o “Le Retour Des Pastoreaux”) e persino i Selvans di “N.A.F.H.” da “Lupercalia” (e, di converso, i Nokturnal Mortum) per i lunghi crescendo tragici nel sapore della composizione.
Coerentemente con l’aria concettuale del disco, addirittura degli inimmaginabili saliscendi tastieristici incantati à la Dimmu Borgir periodo MustisNagash o di memoria Arcturus fanno capolino (si pensi all’inizio della poi strepitosa evoluzione de “In A Pall Of Mist”) in una insolita cornice di spirituale nera dimensione dalla quasi sinfonica inclinazione dove si respira tutta una nuova bramosia e fame di nuovi orizzonti creativi in casa M8l8th: di un professionalismo tuttavia sempre veicolare e autentico a nobilitare le al solito intransigenti e guerrafondaie intenzioni di un simile progetto, il quale nondimeno si colora di tutta la sorprendente varietà di registri e talentuosissimi cambi repentini che intercorrono dentro e tra episodi come l’intuitiva “Æsir Rök” e la elegiaca “Draumþing”, legati dal tiro pazzesco in doppia cassa a nastro dell’opener “Sword Shards” o della complessa e definitiva “To The Gods Of Mine” – spesso, come avviene, sorretto dal trionfale uso di trombe e tromboni quasi a rincarare la dose dell’incredibile pathos di cui è gonfio tutto l’album, in ogni sua baritonale, accorata parte vocale dal sapore totalmente slavo come iconograficamente enfio è il petto di antichi eroi: pieno di valore, coraggio e, nel bene come nel male, risoluta cecità di fronte alla morte stessa, di fronte alle conseguenze della propria scelta.
Se questo prode semidio tratteggiato è insomma colui che agisce per pura necessità e legge di forza, incurante delle ripercussioni sulla propria persona che si estingue nelle fiamme del concetto di bene e di giusto, nella cosiddetta visione tubulare richiesta per portare a termine missioni più grandi dell’uomo, più grandi della vita stessa e che possano infine sconfiggere la morte medesima, allora non v’è dubbio che l’apparato tanto musicale quanto lirico dei M8l8th ne sia una manifestazione effettiva: eroico in essenza, epico nei toni, e proprio laddove “Reconquista” si dimostrava carente (come detto, per via di una rifinitura compositiva nettamente migliorata ma anche di una disorganicità ed una limitatezza complessiva di fondo che gli conferiva una natura a tratti più compilativa che non cinematica), privato insomma della forza insita nello storytelling del suo predecessore, “Nekrokrator” corregge invece ogni possibile mancanza regalando al netto contrario un lavoro il quale -persino tra coloro che hanno negli anni donato la giusta attenzione agli interessanti sviluppi musicali del progetto- non ci si poteva assolutamente aspettare. Più Folk (“Beast-Headed Banners Of The Sun”); più drammatico e sofisticatamente marziale (“My Shrine Will Stand In Memory Of My Glory” o la neoclassica “In Den Tiefen Der Wälder”, mutuata dall’ascolto di Arditi, Triarii e Puissance); assolutamente più inventivo e funambolico nella plateale ed impensabile ricchezza di soluzioni che propone tra velocità assassine (da ultimo nella superba conclusione “The Twelve Wanderers And The King”) e sentimento sinfonico, wagneriano orgoglio orchestrale e complessivo eccezionale (la già citata terza traccia). E nonostante in fatto di collaborazioni esterne vi siano innegabili ricorsi (dopo la francesina parentesi “Noblesse Oblige” di Famine in “Reconquista”, questa volta si cita ad esempio il mastermind dei Goatmoon a fare la sua inconfondibile apparizione sul finale di “The Black Grave”), posta eccezione per simili inevitabili e piacevoli comunanze, “Nekrokrator” -lo si ribadisce- resta innanzitutto un disco totalmente imprevedibile ed imprevisto nel e per l’intero percorso creativo dei M8l8th (non soltanto per le a dir poco sterilmente imbarazzanti sviate elettroniche di “Teorassologie” nel 2020, oggi opportunamente revisionate in “Barritus”), i quali a dispetto di ogni pregresso successo artistico non hanno in alcun modo mai dato i segni di poter comporre un simile album: non solamente il loro più forte, completo, coraggioso, maturato e soddisfacente quanto raramente si è mostrato a simili longitudini, bensì un incredibile gioiello nella corona di proiettili dei più grandi ed alteri preziosi mai realizzati nel Black Metal dal cuore ad Est dell’Occidente.

Un enorme torto a noi stessi sarebbe dunque negare spazio e ascolto ad una band che, per via di un sicuramente non trascurabile attivismo politico ben poco fraintendibile, viene tuttavia fraintesa nelle intenzioni – sia compositive che liriche. Perché, cerchiamo di veicolarlo ogni giorno su queste pagine, del resto, ci sono forze superiori all’umano e al terreno: poteri infinitamente più grandi e misteriosi che non si curano delle preoccupazioni meschine di questo mondo, delle trascurabili dichiarazioni né delle azioni dei suoi abitanti per enormi ed incommensurabili che possano sembrarci.
Per questo e molte altre motivazioni “Nekrokrator” è un disco unico, formalmente perfetto e da ascoltare a mente libera come una tabula rasa; senza inutili etichette, senza faziosa ironia, privi di pregiudizi ed inclinazioni per poterne assorbire l’intero potenziale che, occorre vada ribadito, similmente a quello di qualunque grande opera, è sempre universale – leggibile in maniera personale su più livelli, interpretabile senza necessità di scuse e ricco di messaggi come di spunti che possono essere sfruttati da chiunque quale punto di partenza o incontro per riflessioni e considerazioni anche e soprattutto spesso divergenti. Privarsi di una tale fortuna, di una simile possibilità è, a scanso di giri di parole, sempre ottuso; sempre cieco e sempre codardo. Equivale all’incapacità puerile di non mettersi in discussione con o contro qualcosa di anche idealmente opposto e potenzialmente differente per un partito preso che -come ogni affiliazione troppo stretta- puzza di paura.
Ma in fondo potrebbe essere anche giusto così. Perché “Nekrokrator” è la messa in musica, teatrale, fittizia o reale che sia (davvero nulla differenza fa all’ascolto e alla lettura individuale), dell’esatto opposto della paura: figlio della mitologia di cui è imbevuto, figlio di pensieri di morte e fine imminente da macinare per non farsi sopraffare, del concetto anche romanzato di coraggio ma pure e perfettamente figlio del suo tetro periodo storico; figlio del suo tempo, vale a dirsi, e ciononostante figlio nondimeno di un tempo senza tempo, fatto di valori e messaggi che sono ancora una volta universali ad ogni possibile credo, ad ogni possibile fede incrollabile e ad ogni possibile contesto in cui l’essere umano possa ritrovarsi costretto a vivere, in cerca di qualche assurda cosa in cui credere per potergli sopravvivere nell’eterno, insindacabile e sempre controverso combattimento tra bene e male. Un tema che ha dato nella storia vita alla filosofia più immortale – e, a quanto pare, anche alla musica.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente I Concerti della Settimana: 13/11 - 19/11 Successivo Weekly Playlist N.22 (2023)